L’inverno dei migranti lungo la rotta balcanica
Sempre meno seguita dai media internazionali, la "rotta balcanica" continua a portare migliaia di profughi e migranti verso l’Europa centrale. E il freddo dell’inverno è alle porte. Un reportage
I riflettori sembrano oramai essersi spenti sulla rotta balcanica. Nei campi profughi i giornalisti sono scomparsi o quasi, in attesa della prossima catastrofe o emergenza da raccontare. Una volta raggiunta la Grecia il viaggio per siriani, iracheni e afgani sembra destinato a procedere senza eccessivi pericoli, in maniera abbastanza spedita e con costi tutto sommato non proibitivi. Gli altri – invece – devono cercare vie alternative, più rischiose e costose.
Oramai è stato allestito un vero e proprio sistema a tappe, con sue procedure burocratiche e relative forche caudine da superare. Il passaggio dei profughi è entrato nella normalità quotidiana dei paesi attraversati dalla rotta balcanica e per qualcuno sta diventando anche un buon affare. I campi sono di giorno in giorno più attrezzati, tanto che tra Grecia, Macedonia e Serbia la copertura del segnale wi-fi fornita nelle strutture è talmente buona da fare invidia a quello dei maggiori centri commerciali.
Tutta la zona si sta attrezzando per l’inverno. Il freddo non è ancora intensissimo, ma potrebbe arrivare e colpire duro da un momento all’altro. Stanno facendo la loro comparsa moduli abitativi e tende riscaldate. A muoversi sono ancora molte famiglie: la novità sono le donne sole con i loro bambini. Vanno a raggiungere i mariti, che hanno superato il tragitto mesi fa e che oggi le aspettano nel nord Europa.
Idomeni
Al campo greco di Idomeni, porta d’ingresso della Macedonia, l’atmosfera è rilassata. Ogni tanto arriva qualche autobus, il ritmo non è frenetico. Volontari distribuiscono vestiti e qualche genere alimentare, un ambulante vende hamburger di pollo e patatine, mentre un poliziotto dà un’occhiata ai documenti dei profughi che stanno per imboccare la strada che li porterà in Macedonia.
Davanti a loro rotoli di nastro spinato ed un lungo reticolato. Dall’altra parte del confine militari e poliziotti macedoni vigilano attenti la barriera. Sono convinti che la decisione di lasciar passare solo siriani, iracheni e afgani non sia stata concepita a Skopje e che loro sono lì a fare i cani da guardia di un’Europa di cui non credono entreranno presto a far parte. L’opinione è che il paese stia facendo grossi sforzi per l’assistenza e che maggiori aiuti dovrebbero arrivare da Bruxelles. Una convinzione condivisa dall’opinione pubblica di tutti i paesi dell’ex Federazione jugoslava colpiti dall’emergenza profughi, ma che non è necessariamente vera.
La porta nel reticolato è aperta appena, un poliziotto macedone ed una poliziotta greca esaminano i documenti. Il controllo è pignolo. Lavorano una mezz’oretta e poi vanno a fare una pausa. Un vecchietto consegna il foglio alle forze dell’ordine: occhi bassi, testa nelle spalle tipici di chi non crede che la polizia sia lì per essere al servizio del cittadino. Lui sa che, come tutti gli altri, è in balia assoluta delle autorità, sa anche di non aver alcun controllo della situazione, né di poter in alcun modo difendere moglie, figli e nipoti. Alla fine lo fanno passare con tutto il parentado.
Arrivano dei siriani. Un operatore umanitario ci assicura che lo si capisce benissimo dall’accento. Li fanno tornare indietro. Non avevano il certificato originale, ma una copia scannerizzata: devono tornare ad Atene e rifare la pratica. Viaggeranno con lo stesso autobus che li ha portati ad Idomeni. Il biglietto costerà molto di meno e se proprio non avranno soldi l’autista probabilmente li farà salire lo stesso. Altri ragazzi vengono respinti. Hanno tentato di fare i furbi presentandosi con un attestato ellenico falso.
Fino a pochi giorni fa rimanevano in zona a protestare davanti al muro macedone. Alcuni si erano addirittura cuciti la bocca. Ora sono stati sgomberati e la situazione è tornata alla normalità.
Quelli che i macedoni considerano “migranti economici” possono chiedere asilo in Grecia, oppure possono tentare di ripassare la frontiera. Molti fanno così la spola tra Atene ed il confine macedone, spendendo un sacco di soldi e sperando di aver miglior fortuna, altri tentano di passare il confine illegalmente e c’è chi vocifera di un’altra rotta non ufficiale che passerebbe per Albania e Kosovo.
Gevgelija
Una volta entrati in Macedonia, i profughi devono attraversare a piedi circa mezzo chilometro per arrivare al campo profughi di Gevgelija. Lo sterrato è percorso incessantemente da camionette della polizia e dell’esercito. Sul tragitto polveroso, tra vigneti e rifiuti, sbucano venditori locali di sigarette ed altra paccottiglia. Prima di entrare nel campo la polizia fa un’altra minuziosa verifica.
Qualcuno viene rispedito indietro: non ha i documenti in regola. Le pratiche burocratiche sembrano procedere spedite. I profughi attendono in un tendone, dove viene dato loro cibo e vestiario. Fa freddo: il riscaldamento è carente. Un gruppo di ragazzini e ragazzine si affretta a mettere in carica il cellulare. Si naviga sui social network e si parla al telefono. La scena non è molto diversa da quella che si può vedere di fronte ad una qualsiasi scuola o ad un locale alla moda.
Si resta poco nel campo. La struttura non è nemmeno attrezzata per far dormire le persone. Presto si provvederà, ci assicurano. Ci sono dentro 500 persone, ma arriva un treno speciale che parte alla volta di Tabanovce, l’altro campo macedone a due passi dal confine serbo. Un’altra polverosa strada porta verso la città. Al suo ingresso una marea di taxi aspetta i profughi. Qualcuno sceglie di proseguire in macchina. I migranti potrebbero scegliere di muoversi liberamente per la Macedonia, ma preferiscono spostarsi in gruppi ed in maniera organizzata.
Si passa in Serbia
In poche ore si arriva a Tabanovce. Quando si scende dal treno la zona brulica di venditori di sigarette e di altre suppellettili. Volontari ben organizzati offrono assistenza. Il capo allestito sembra ben organizzato. Oramai si è quasi in Serbia. Per arrivarci ci sono alcuni chilometri da fare a piedi. I profughi affrontano il cammino in gruppo ed evitano di fare il tragitto la notte. Le cronache registrano qualche brutta esperienza per chi aveva deciso di avventurarsi da solo nella terra di nessuno.
I serbi dall’altra parte vorrebbero sistemare l’ultimo tratto del sentiero, per evitare di far passare la gente nel fango. A Miratovac c’è un minicampo attrezzatissimo, fatto di moduli abitativi riscaldati. E stato allestito alcuni giorni fa per sostituire la tendopoli assolutamente inadatta al periodo invernale. Per espletare le formalità del caso si va a Preševo. Il paese era stato il centro della guerriglia albanese contro il governo serbo al tempo della guerra nel Kosovo. Il luogo è desolato: la presenza dello stato si vede solo dalle barricate erette da tempo, fatte con sacchetti di sabbia, nella zona della stazione ferroviaria. L’atmosfera è mesta. Difficilmente si potrebbe dire che negli ultimi decenni qualcuno si sia occupato della gestione del territorio o della ricerca del bello. Intorno al campo venditori ambulanti, locali con esposte locandine in arabo, cani randagi, fango, rifiuti, autobus e taxi. I profughi possono scegliere come proseguire il loro viaggio. A pochi passi c’è anche il treno, che consente di far viaggiare gratis i bambini.
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