Lingua, parole, essere
Una riflessione sulla lingua natia e sull’adozione di una nuova lingua in terra straniera. Intervista ad Anita Vuco, traduttrice e scrittrice, di ritorno dalla Fiera del libro di Belgrado
Qual è la prima esperienza di contatto con l’Italia che ricorda?
Meolo, Venezia, fine anni Ottanta, ero ospite di una famiglia italiana il cui figlio avevo conosciuto a Budapest durante la gita di fine liceo. La signora Anna, la madre di Davide, mi aveva accolta come se fossi una figlia e tale sono rimasta in tutti questi anni.
Com’è stato il primo impatto con la cultura italiana?
Sono Dalmata e ciò significa anche che non c’è mai stato un “primo” impatto; la cultura italiana era piuttosto una specie di eco di sottofondo, presente da quando ho memoria di me stessa.
Quando scrivere in italiano è diventato naturale per lei?
Soltanto nei primi anni Novanta, quando per motivi di studio mi trovavo già in Italia. A volte penso che questo non sarebbe mai avvenuto se contemporaneamente nel mio paese di origine non fosse scoppiata la guerra, ma non posso averne la certezza. Il fatto è che all’epoca, da vera ingenua, smisi quasi di utilizzare il serbo o croato, come lo si vuole chiamare (perché non accetto ancora una sua distinzione forzata); per la scrittura adoperavo esclusivamente l’italiano, facendo una fatica immensa, e nella lingua parlata facevo lo stesso non appena il mio interlocutore dimostrava di conoscerlo minimamente.
Per più di due decenni la scelta della lingua è stata un “comodo alibi” che mi assicurava quel minuscolo distacco da tutto ciò che altrimenti mi avrebbe completamente travolta. Non avrei mai creduto di poter curare quella ferita in maniera consapevole o di metabolizzarla almeno in parte, eppure sta succedendo, proprio ora, con la traduzione letteraria che è stata soltanto un primo timido passo, per proseguire poi con la scrittura, attraverso la quale mi sto riappropriando di quel bagaglio linguistico troppo a lungo tenuto ben celato. Una gioia inaspettata, enorme. Predrag Matvejević, me lo predisse già all’epoca: «Sei troppo giovane per sapere che non sei tu quella che può decidere di abbandonare una lingua, perché non è la lingua che rinuncerà a te. Spunterà fuori vigorosa e potente, non appena ti sarai fatta abbastanza forte da perdonare te stessa per cose delle quali non hai alcuna colpa».
Quale rapporto ha con la lingua italiana? È la lingua con cui pensa a se stessa? trova che sia una lingua capace di accogliere?
Come ho appena detto, per ragioni politiche che hanno voluto negare l’esistenza di una lingua serbo-croata unificata ero praticamente diventata un’orfana di lingua, in quanto io quelle due lingue non sono in grado né di distinguerle né di separarle forzatamente l’una dall’altra. L’italiano mi ha accolta eccome, offrendomi la possibilità di non dovere rinunciare a nessuna delle parti che mi compongono. Era un terreno neutro, una prospettiva nuova, la meno dolorosa. La scrittura è sempre un voluto scavarsi dentro e in questo caso, usando l’italiano, offro alla mano del mio chirurgo la possibilità di stare più ferma. Certo che è diventata la lingua in cui penso e non soltanto a me stessa, ma anche a tutto quello che mi circonda. La cosa è immediata, succede e basta. Sfugge a ogni controllo razionale.
Fino a poco tempo fa avrei detto che ragiono in questa lingua, ma poi si arriva ad uno strato di consapevolezza ancora più profondo. I nostri pensieri non sono in nessuna lingua. Sono una materia grigia, un oceano uniforme che potenzialmente potrebbe assumere qualsiasi forma. Dipende soltanto da noi.
Quando l’essenza di un sentimento si è cristallizzata, soltanto a quel punto come se potessimo usare un paio di pinze, da questa massa noi tiriamo fuori una parola dopo l’altra e le incastriamo in un mosaico equilibrato sperando che l’immagine creata possa rimanere il più vicino possibile allo stato originario che l’ha generata, mantenendo intatto lo stesso significato. Comunque sia, oggi come oggi, nessun altra lingua al mondo potrebbe significare per me altrettanto. Dire che amo l’italiano è riduttivo, è troppo poco.
Quali sono le principali differenze tra l’italiano e la sua lingua natia sia a livello formale sia nella sua percezione personale?
Sono le solite differenze che intercorrono tra una lingua romanza e una lingua slava, ma che, tuttavia, non esistono nella mia percezione personale. Le due lingue, o addirittura tre secondo il parere odierno di molti – e ci tengo a sottolineare che la mia posizione riguardo la lingua serba e croata non ha nulla a che fare con il sostegno di alcuna idea politica – si sono perfettamente amalgamate. Finché non hai i figli quell’amore di cui tutti parlano lo immagini in base all’intuito, per scoprire poi che la sua grandezza supera qualsiasi cosa avresti potuto pensare. Aspettando il terzo bambino sei preoccupato, quasi come se non fossi più in grado di offrirgli nulla di te stesso, come se l’amore di cui sei capace fosse stato già distribuito e consumato. A ogni nascita successiva continui a meravigliarti che esso si moltiplica, non diminuisce di certo.
Lo stesso meccanismo vale per le mie lingue, unite al punto che dovrei fare uno sforzo mostruoso nel volerle osservare come entità diverse. Quando sono stata, anni fa, operata di ernia ombelicale i medici hanno inserito una piccola retina contenitiva allo scopo di aiutare i muscoli della pancia a non cedere, ma ad alzarsi e riassumere una loro normale funzione iniziale. Ecco, mi fa piacere pensare che l’italiano sia esattamente come questa retina, soltanto che sostiene tutta me stessa.
La traduzione in lingua italiana riesce sempre a esaudire ciò che vuole esprimere o c’è qualcosa che rimane intraducibile?
Le frasi che scrivo nascono sempre direttamente in lingua italiana, non sono una traduzione. In essa semplicemente esisto. Casomai sarebbe vero il contrario, quando mi trovo a tradurre dall’italiano verso una delle mie due lingue madre, è lì che qualcosa resta intraducibile. In italiano posso sbagliare l’ordine delle parole, omettere un articolo quando serve, infilare una preposizione al posto di un’altra, non mettere la doppia al posto giusto, ma la sostanza resta invariata. Come se stessi ombreggiando l’essenziale con sottili e veloci pennellate chiaro scure. Gli errori si commettono, si comprendono, si superano; riguardano un aspetto esterno della lingua, non la sua profondità. L’italiano esprime perfettamente quel tipo di ibrido che sono diventata.
Quanto è importante la sua cultura di origine anche quando scrive in italiano? Quanto del suo paese c’è nella sua scrittura?
Le due culture convivono, non si escludono. I meno attenti direbbero che i miei tratti peculiari slavi si siano attenuati, mentre altri risalterebbero il fatto che comunque non sono un’italiana. C’è sempre dell’altro in me. L’eterna straniera da entrambe le parti, oppure colei che in ambienti diversi si sente ugualmente di casa. Sono soltanto punti di vista, di cui preferisco il secondo. Temo che qui la lingua c’entri poco o niente, ma piuttosto il periodo storico in cui sono nata. Sono la custode di una memoria che appartiene alla Jugoslavia di ieri, espressione coniata da Luči Žuvela nelle sue Isole di salvezza, uno Stato di cui vado fiera nonostante tutto quello che in seguito è successo. Credo siano poche le persone al mondo che abbiano potuto beneficiare di una tale bellezza e la mia personale responsabilità quando scrivo è quella di doverla trasmettere. Molte storie di cui sono a conoscenza non hanno ancora trovato una loro forma giusta, l’unica che renderebbe loro onore.
Sono profondamente convinta che la memoria del bene superi di gran lunga tutto il resto. Di qualunque cosa parlo, quella guerra è sempre presente, anche quando non la nomino affatto. Risiede nei miei silenzi, nelle mie fughe, nel modo in cui osservo e tratto un qualsiasi argomento. È lei ad avermi insegnato quanto ogni cosa sia relativa, fugace, imperfetta, dolorosa, quanto possiamo essere cani. Quali livelli può raggiungere il processo di innamoramento. Quanto la nostra capacità di giudizio rimanga sempre offuscata. Quanto tempo sprechiamo in malesseri a dir poco banali. Mio malgrado quella tragedia mi determina, ovunque io vada. Il tempo che passa non porta né il sollievo né la possibilità di dimenticare. Molti dettagli e sfumature sempre nuove riaffiorano periodicamente in superficie; e non bisogna soltanto conviverci, ma elaborarli al punto da non renderli nocivi. Anche a questo serve la scrittura, sopratutto a questo. Essa può contenere la rabbia accumulata e trasformarla in qualcosa di più utile. In tal senso il mio paese d’origine determina ogni mia lettera scritta.
I suoi romanzi/poesie sono mai stati discriminati dal mondo editoriale perché lei è un’autrice straniera e non madrelingua?
Non saprei dirlo. Scrivo da sempre, ma non ho mai cercato di far pubblicare i miei testi. Soltanto di recente ho presentato a Ensemble Edizioni le mie prime poesie, scritte per la maggior parte negli anni Novanta, pregandoli di essere “obiettivi”. Non mi interessa pubblicare a tutti i costi soltanto perché un insieme di parole sono state messe in fila secondo un ordine che mi appartiene.
Parole blu, la raccolta pubblicata a settembre del 2016, la vivo come un diario degli stati d’animo capaci di raccontare una crescita. È impressionante quanta gioia comporta ricevere i commenti da persone sconosciute che si sono ritrovate toccate da questi ingenui versi, “grezzi e diretti”. Incoraggiata in qualche modo da quest’accoglienza, ho mandato a dicembre scorso uno dei miei racconti – Josephine. Napule bello. – al Concorso letterario nazionale Lingua Madre della XII edizione, dove ha vinto il Secondo Premio (Premio Speciale Consulta Femminile Regionale del Piemonte). Il fatto stesso che una giuria al giorno d’oggi abbia ritenuto meritevole premiare un racconto scritto in realtà nel 1998 mi fa sorridere; come se avessero incoraggiato una me di diciannove anni fa, dicendomi che il tempo di silenzio ormai è finito, per sempre.
A lungo ho creduto che le mie bozze fossero dei testi incompiuti da sviluppare ulteriormente, come se uno dovesse per forza scrivere romanzi. La società in cui vivo indubbiamente richiede questo. I recenti viaggi in Russia e in Serbia, però, gli incontri con traduttori e scrittori a me cari, hanno contribuito al risveglio della determinazione di preservare la forma che sento più adatta alla mia persona. La più breve possibile, l’unica che permette la compressione del materiale narrativo al massimo. In ogni caso, io non mi considero un autore straniero, ma un essere a molteplici strati correlati tra di loro.
L’editore di cui avrò bisogno sono certa che saprà apprezzarlo, premiando il mio particolare punto di vista che questa situazione offre. Inoltre, ritengo che nella letteratura tutti siamo stranieri in egual misura. È l’unico luogo dove la cittadinanza va guadagnata con la sostanza del testo e un incommensurabile, costante lavoro. Nessuna lingua del mondo lo garantisce. Il concetto di madrelingua in tal senso può essere pericoloso. È un vicolo cieco che non prende in considerazione molteplici nozioni. È un binario morto, fin troppo comodo quando si vuole sostenere la supremazia di alcuni soggetti su altri. Giacché un libro viene letto soltanto perché scritto da donne, da madrelingua o da stranieri, a me una tale bellettristica interessa poco o niente.
Come si sente quando le viene applicata l’etichetta della cosiddetta “letteratura migrante” se le è mai stata applicata? Trova che sia una definizione calzante? Perché?
Non mi riconosco non soltanto in questa etichetta della cosiddetta “letteratura migrante”, ma in nessuna classifica in assoluto. Certi giorni mi sembra di poter udire il grido che proviene da ogni mia cellula: «d’accordo, va bene tutto, ma io non sono straniera!» Secondo una vecchia definizione di Danilo Kiš, in riferimento all’ebraismo che in questo caso modifico leggermente per riportarla all’idea del migrante, lo straniero è soltanto chi straniero si sente. Chi permette agli altri di alzare il dito indicandolo come tale. Non la trovo calzante per niente, anche perché rispecchia il bisogno di raggruppare facilmente senza conoscere né capire. Nella maggior parte dei casi chi la usa è mosso da intenzioni positive di fondo, non metto in discussione questo. Sto dicendo semplicemente che in questo modo siamo punto a capo: se veniamo conosciuti soltanto in quanto voci straniere che hanno “scelto” questa lingua per esprimere il proprio dramma esistenziale vuol dire che un passo significativo dal punto di vista letterario non l’abbiamo ancora compiuto.
Che rapporto ha con la critica? pensa che il suo caso letterario sia stato compreso pienamente in Italia? E per quanto riguarda altri autori che lei ritiene simili alla sua situazione?
Potrò rispondere a questa domanda fra qualche anno, forse. Quello che mi auguro è di avere a che fare con critici curiosi di conoscermi senza ricorrere alle etichette, alle definizioni preconfezionate, ai presupposti. Spero di non essere affatto osservata in quest’ottica “in” o “fuori” dall’Italia, ma che saranno i miei stessi testi a raccontare tutto ciò che serve sapere sul mio conto. Praticamente niente. Il senso non è costituire un “caso”, che in letteratura già di per sé ha una valenza negativa. I miei simili non hanno nulla a che vedere con l’appartenenza a una determinata lingua e una letteratura nazionale, di qualunque paese o periodo si tratti. Gli autori di oggi e di ieri, soltanto coloro che l’hanno fatta finita con queste comode categorie di riferimento, sono gli unici nei quali mi riconosco; piuttosto rari, a dire il vero. Quando scrivo non penso né ai critici né ai potenziali lettori, vengo guidata dall’ossessione di essere e rimanere giusta. Nel rispetto dei morti. Meritarmi la loro stima è quel che conta.
Si sente pienamente parte, in quanto autore che scrive in italiano e ha un legame con questo paese e questa cultura, di una letteratura italiana?
Come ho già detto, io non mi sento una straniera. Tutto il Mediterraneo è casa mia, una sponda dell’Adriatico vale l’altra. In fondo non sono mai uscita dallo stesso ambiente. Detto ciò, devo specificare che condivido il pensiero secondo cui la letteratura è una e indivisibile, buona o cattiva, si è dentro o fuori, tutto qui. La lingua in cui scrivo, se i miei testi dovessero risultare mediocri, non mi darebbe alcun diritto di essere affrancata dalla grande tradizione nata in italiano. Come viceversa il legame tra la cultura di questo paese e gli autori di una qualsiasi lingua del mondo, che hanno saputo lasciare qualcosa di innovativo e buono agli eredi del domani, non è meno significativo.
Ancora una volta ribadisco, sarebbe fin troppo facile trovarsi nella letteratura grazie alla lingua nella quale si scrive o nella quale si è nati. “Una tradizione non può essere ereditata” – scriveva Danilo Kiš in un’intervista del 1984, Tražim mesto pod suncem za sumnju [Cerco un luogo sotto il sole per il dubbio], contenuta nel libro Život, literatura [Vita, letteratura] – “e se (signori) avete bisogno di essa dovete procacciarvela con grande fatica. […] coloro che si proclamano custodi dei sigilli sovrani e delle tradizioni popolari, della purezza linguistica e dei costumi, e considerano la propria appartenenza nazionale come una personale dote spirituale, come se uno scrittore potesse nascere da una filiazione, come se potesse succhiare la tradizione culturale insieme al latte materno, come se la nobiltà spirituale non si realizzasse soltanto con lo spirito che è, per dirla alla Baudelaire, la noblesse unique, l’unica nobiltà”. Sarebbe fin troppo facile e ingiusto.
Si ringrazia Barbara Delfino per la gentile revisione del testo
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