Linee e cerchi: la propaganda di Erdoğan
L’amministrazione Erdoğan ha voluto numerosi monumenti a ricordo del mancato golpe del 15 luglio 2016. Il principale s’affaccia, ad Istanbul, sul Bosforo. Un reportage
Da qui, il ponte sul Bosforo assume tratti inconsueti. I rettangoli ritagliati nella grossa cupola di marmo ne allontanano il clamore, lo riducono a cartolina. Lo stesso rombo dei motori, incessante e mastodontico quando ci si trova all’interno della "pista" (si calcola circa un milione e mezzo di persone che ogni giorno si spostano fra parte asiatica e parte europea di Istanbul, con automobili private o trasporti pubblici), risulta ovattato e confuso. Una sorta di “astuzia” dello sguardo: il segreto per contemplare un panorama così vasto non è cercare un punto che lo abbracci tutto con la vista, ma al contrario “fare quadro”, restringere il campo di osservazione. E per chi scruta, rimane una strana sensazione di dominio ed estraneità.
Sulla destra di chi si dirige da Ortaköy (Europa) a Beylerbeyi (Asia), una collinetta fa da sponda alla lunga fila di vetture. L’estate scorsa, in occasione delle imponenti commemorazioni del fallito colpo di stato che proprio sul ponte del Bosforo ha avuto uno dei suoi momenti decisivi, Recep Tayyip Erdoğan e le autorità turche vi hanno inaugurato il Memoriale per i martiri del 15 Temmuz, opera dell’architetto Hilmi Şenalp.
Dalla fermata dell’autobus si percorre una breve e ripida scaletta per raggiungerlo. Di fianco al memoriale, un’area di ristoro sommessa ma che comunque stride con l’atmosfera calma e ieratica del luogo. La cupola “a reticolo” progettata da Senalp si erge su una piazzola artificialmente scavata nel declivio della collina. Una mezza sfera liscia e bianca, che fa della propria monocromia un motore di attrazione visiva per gli avventori e un principio di distacco dal paesaggio circostante. All’interno, alcune lastre con i nomi dei cittadini turchi caduti mentre si opponevano ai militari golpisti e una piccola fontana, dal getto d’acqua flebile, quasi “bisbigliante”, a segnare con discrezione il centro della struttura.
È evidente la volontà di giocare a cavallo dell’inclusione e dell’esclusione con la città. Il massiccio spessore delle linee esprime una certa imponenza e la forma tondeggiante accoglie i visitatori in uno spazio “protetto”, di raccoglimento. Ma i tanti rettangoli aperti, lo “sciame” di finestre che si crea dalla composizione a rete del monumento lasciano entrare – filtrandoli – immagini e suoni della strada attorno, ricordando che ci troviamo in un luogo e un tempo (storico) ben precisi.
Quello sul ponte del Bosforo, per quanto si possa considerare fra i principali, non è affatto l’unico monumento dedicato agli eventi del 15 luglio 2016. Sulla scorta del golpe fallito, l’amministrazione di Erdoğan sta infatti trasformando la toponomastica e lo spazio urbano di molte fra le città turche. Nella sola Istanbul sono innumerevoli gli spazi ed edifici pubblici, dai parchi alle scuole, dalle strade alle fermate degli autobus fino a interi quartieri, che ora rimandano a quei fatti. A volte si tratta di un semplice cambio di nome, come nel caso del parco 15 Temmuz Şehitler, magari con un tocco di “restyling” in senso nazionalista attraverso l’aggiunta di bandiere della repubblica.
Altre volte vengono appunto eretti monumenti, parecchio espliciti, come per la statua del soldato che campeggia vicino a Gezi Park, o maggiormente tendenti al simbolico, quale è il disco perfettamente circolare che si installa fra il traffico di una rotatoria nel distretto periferico di Bağcılar.
In generale, però, si percepisce un sottile senso di ambiguità. Le mappe turistiche che si possono acquistare presso i numerosi baldacchini del Corno D’Oro sono cartine “vecchie”, che non riportano i nomi aggiornati e le collocazioni dei nuovi monumenti. Se si chiedono indicazioni non tutti, anzi, sembrerebbe in pochi, sono al corrente di queste inedite “presenze urbane”. Più nello specifico, spesso è difficile anche solo rinvenire targhe o cartelli che attestino il “cambio di identità” di parchi e strade.
È come se le tracce iconografiche e commemorative del tentativo di golpe – o meglio, dell’eroica resistenza che la cittadinanza turca gli ha opposto – volessero inerirsi nel tessuto (e nel vissuto) quotidiano di Istanbul con discrezione, a suggerire forse un senso non di strappo o rottura bensì di naturale integrazione con l’ambiente circostante. Ecco dunque che, dopo aver passato un po’ di tempo a girovagare per il Memoriale dei martiri del 15 Temmuz, anche l’area ristoro non appare più in contrasto con tutto il resto. Uscendo dalla cupola, un sentiero ben curato inizia a risalire verso la sommità della collina. Ai lati, alcuni giovani cipressi, uno per ciascuna delle persone che hanno dato la propria vita sul ponte del Bosforo difendendo la repubblica. Qui, i visitatori passeggiano con piglio tranquillo: delle donne velate leggono le targhe con i nomi delle vittime collocati alla base degli alberi, una coppia risale mano nella mano gettando distrattamente lo sguardo a destra e sinistra, alcune famiglie scherzano composte ma divertite coi loro figli. Proprio come una “domenica al parco”, l’atmosfera è dunque sì sacrale ma di una sacralità secolarizzata, che non si vuole imporre come qualcosa di totalmente altro dalla società che le scorre accanto.
La repubblica turca sta scivolando verso la dittatura? È evidente che il 15 luglio 2016 ha segnato un punto di non ritorno. Non tanto per il fatto in sé, quanto per le narrazioni e interpretazioni che il governo ha potuto imbastire su di esso (e con le quali ha poi giustificato tutta una serie di azioni politiche e legislative che stanno cambiando il volto del paese). In altri termini, sembrerebbe che il tentativo di golpe sia il fulcro attorno al quale Erdoğan sta modellando i termini di un nuovo contratto sociale. Eppure, non sono ancora forse completamente chiare le direzioni che questo contratto sta prendendo nonché le modalità con cui lo si porta a esprimersi nell’immaginario collettivo.
Già nel 1936 lo scrittore Robert Musil rilevava un paradosso legato alla conservazione pubblica della memoria. I monumenti, soprattutto se intesi in senso tradizionale e quindi caratterizzati da una certa magniloquenza e retorica, finiscono col produrre l’effetto contrario a quello per cui sono stati costruiti: è proprio nel momento in cui il “dovere della memoria” viene affidato a un supporto esterno che diviene possibile, a livello sociale, prescindere da quel dovere. Perciò, a partire dal dopoguerra e in antitesi ai totalitarismi novecenteschi (stiamo parlando soprattutto di monumenti in ricordo alle vittime della Shoa), si sono sviluppate varie tendenze “anti-monumentali” o “contro-monumentali”. Invece che insistere sulla potenza del messaggio e sulla volontà di ammonire, si è optato per forme esili e materiali leggeri, verso una sorta di “monumenti muti” che proprio in virtù del loro apparente silenzio interrogano il visitatore e riattivano in lui il compito del ricordo.
Così, nella Turchia post-golpe di Erdoğan sembra esserci un’oscillazione fra queste due correnti. Da una parte, il monumento eretto nella capitale Ankara, a pochi passi dal palazzo presidenziale, fa ampio uso di modalità e stilemi molto vicini a quelli delle dittature del passato. La verticalità insistita e prorompente, il richiamo a un’unità del popolo (turco), l’evocazione infine di un orizzonte futuro verso cui ci si debba incamminare insieme lo rendono a tutti gli effetti un “monumento-monito” che si staglia contro la quotidianità urbana attorno, con la precisa funzione di elevarla e indirizzarla. Ma dall’altra, come abbiamo visto, i segni architettonici di Istanbul (o di altre parti del paese) vanno in una direzione opposta. Non sono più linee rette e tensione verso il cielo a dominare, bensì le forme del cerchio e della sfera, modalità di relazione con lo spazio cittadino più armoniche e quasi sommesse, che alimentano dunque un senso di circolarità e immanenza del messaggio. La cupola di Senalp non si “ammira”, con gli occhi rivolti verso l’alto. La si attraversa, come si attraversa una galleria ornata da piacevoli decorazioni. E a guidarci nell’esplorazione, pur cedendo a una certa riverenza, è un sentimento estetico ancor prima che politico o religioso.
Il punto è forse che è lo stesso fallito tentativo di golpe a essere in qualche modo paradossale come “avvenimento-sutura”, come inizio di un nuovo contratto sociale. Ciò che viene celebrato e commemorato nei vari monumenti disseminati per le città turche non è una rivoluzione, un improvviso ribaltamento dell’assetto politico-istituzionale ma, al contrario, il fatto che un tale ribaltamento sia stato scongiurato. E che (a complicare le cose) ciò è successo non tanto per la tenuta dello stato e dei suoi organismi di difesa quanto per la ferma reazione che alcuni dei cittadini hanno contrapposto ai “militari ribelli”.
C’è dunque una duplice esigenza. Da una parte, Erdoğan glorifica il “popolo” nella sua potenza e coesione, nella sua capacità di assumere il ruolo di motore degli eventi. Ma dall’altra questo motore si avvia per confermare e ribadire l’esistente invece che per un bisogno di trasformazione, di scardinare il tempo attuale e immaginarne uno nuovo. La tensione verso il futuro, l’impeto di ascensione e trascendenza (senza le quali una “azione” di quel tipo da parte della popolazione non sarebbe in primo luogo neanche “raccontabile”) vengono prontamente riassorbiti dalla sfera e dal cerchio, da una repentina curvatura della Storia su se stessa. La cupola sul Bosforo, il disco di Bağcılar e i diversi “contro-monumenti” diventano allora metafore di un certo senso di fatalità che andrebbe a caratterizzare gli esiti del 15 luglio 2016: è evidente che un risultato di quel tipo fosse imprevedibile e si è verificato grazie a una volontà collettiva che ha deciso di modificare il corso dei fatti ma, allo stesso tempo, si instilla la convinzione che le cose non sarebbero potute andare in altro modo (ovvero: si instilla la convinzione che le scelte di Erdoğan che ne sono seguite non possono andare in altro modo da come vanno).
L’ambivalenza architettonica e stilistica dei monumenti che commemorano il fallimento del golpe dunque non è che l’espressione di un’ambivalenza politica e strategica, cui il governo turco sembra improntare il proprio discorso di rifondazione della repubblica.
Ma, ancora, questa ambivalenza con cui si cerca di far transitare il passato recente nella memoria collettiva, di costruire cioè un piccolo “mito fondativo”, affonda forse le sue radici nelle sfide prossime che la Turchia è chiamata ad affrontare (e soprattutto nel modo in cui intende affrontarle).
Erdoğan è sempre più deciso ad assumere un ruolo di primo piano nelle vicende geopolitiche mediorientali, nutrendo probabilmente anche delle mire espansionistiche verso est. Il che, oltre ovviamente a essere dettato dalle attuali congiunture storiche, si inserisce in un disegno strategico formatosi negli ultimi anni grazie soprattutto al contributo dell’ex-primo ministro ed ex-ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu (nonostante il recente strappo fra questi e l’AKP). Disegno strategico a cui corrisponde poi la formazione di un “apparato propagandistico” che lo giustifichi e lo esalti agli occhi della popolazione (magari in maniera indiretta: è interessante vedere la funzione che stanno avendo a tal proposito alcuni sceneggiati televisivi), tratteggiando un’immagine di grandezza e potenza della repubblica turca che si riconnette idealmente con i “fasti” dell’Impero Ottomano. Tutto ciò mentre il distacco con l’Ovest, cui Erdoğan guarda con sempre maggiore diffidenza, si fa marcato e profondo. Nella retorica del presidente turco si profila infatti una concezione per cui il proprio paese si trova al centro di una trama di complotti, ostilità e sentimenti di invidia da parte degli altri attori internazionali, non esitando a lanciare accuse di nazismo all’Olanda o a incitare i residenti di origine anatolica sul suolo europeo a fare più figli come “vendetta” contro le ingiustizie subite da parte degli stati in cui sono migrati.
In altre parole, l’obiettivo verso cui sembrano tendere (anche inconsciamente) gli sforzi del governo turco – e che proprio grazie alla natura paradossale degli eventi del 15 luglio 2016 si offre ora come prospettiva percorribile – è quello di guadagnare, nell’immaginario collettivo, in egual misura la posizione trionfante del vincitore e lo status commiserevole della vittima.
Ecco perché fra le “tracce urbane” dedicate al fallimento del golpe è possibile rinvenire sia il paradigma architettonico del “monumento tradizionale” che il paradigma del “anti-monumento”. Perché l’uno serve le esigenze di costruzione identitaria del vincitore, l’altro quelle di pietà e raccoglimento della vittima.
Così facendo, il regime di Erdoğan cerca probabilmente di intercettare i desideri contraddittori che paiono animare la società turca in questo momento, dalla seduzione per un’idea di grandezza perduta (e da riconquistare) alla ricerca quasi disperata di stabilità e normalizzazione. Un’ideologia forte ma morbida allo stesso tempo, una forma di propaganda strisciante (al di là delle esternazioni eclatanti di cui il presidente turco non è certo parco) che tutto abbraccia come una sfera e che rischia di esercitare il proprio fascino simbolico su strati sempre più vasti ed eterogenei della popolazione.
Con buona pace – purtroppo – delle vittime reali che ogni giorno ne fanno le spese.
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