Libri: perché ha senso tradurre “Var”
"Non è un libro di facile lettura, né tanto meno facile da tradurre. Costantemente mi ha messo in condizione di confrontarmi con i miei limiti personali, con i pregiudizi radicati talmente bene persino dove credevo fermamente che non ci fossero". Una recensione
Ho avuto il piacere di conoscere Saša Stojanović pochi mesi fa. "Var", il suo ultimo romanzo, è arrivato a casa mia la mattina del mio compleanno. Avevo aperto la busta e dato un’occhiata veloce. Quel giorno dubitavo fortemente che potesse diventare il mio prossimo lavoro, coinvolgendomi al punto in cui lo sono in questo momento.
Naturalmente avevo letto tutte le informazioni disponibili sul suo autore, ma non è stato certo il parere positivo dei critici ad avere il peso maggiore nella mia decisione di occuparmi di questa traduzione: il fatto che sia considerato uno dei migliori scrittori serbi contemporanei, il più intrigante, il virtuoso della parola che con la maestria usa una lingua brutale, forte, decisa, a tratti persino volgare… ecc. ecc.
Premiazioni, congratulazioni, popolarità di cui gode ormai anche fuori dalla patria. Neanche questo ha suscitato in me un interesse particolare: che in Repubblica Ceca il libro abbia avuto un successo immediato, che abbia vinto il premio per la miglior traduzione dell’anno ponendosi così davanti alle nuove traduzioni di Anna Karenjina e dell’Ulisse di Omero, che ha gareggiato con il Cimitero di Praga di Umberto Eco per il miglior libro dell’anno, che in seguito il suo autore sia diventato il membro del PEN club ceco… tutti fatti che avrebbero significato poco o niente se non mi avesse convinto il valore del testo stesso che tenevo in mano.
Quanti libri sono stati scritti sulla guerra? E quanti di questi sulla guerra nel mio Paese? Non lo so. In sostanza li ho evitati, tutti quanti, letti talvolta per l’obbligo di leggere e di conoscere. La responsabilità e la dignità sono le prime qualità che vado a cercare in uno scrittore. Sempre. Qualunque cosa scriva. All’autore, invece, che tocca tematicamente la guerra al di là dell’Adriatico che ancora mi duole, chiedo molto, ma molto di più. Severamente misuro le sue pagine. Non avrei appoggiato, né tradotto un abile commerciante di parole.
Chi è dunque questo Stojanović, e perché ci tengo a parlare di lui? Nel 1991, con la laurea in medicina veterinaria, si presenta all’Università di Bologna dove intende continuare la sua specializzazione. Intanto il clima politico nel paese si fa pesante e lui sceglie di rimanere in Serbia accanto ai genitori ormai anziani e al fratello minore. È senza dubbio un individuo forte, intelligente, privo di pregiudizi nei confronti delle persone, all’epoca forse ancora ingenuo. Sottovaluta, infatti, il regime di Milošević e osa dissentire pubblicamente. Le conseguenze da pagare sono care: nel 1994 alcuni mesi di carcere sono solo il preludio di un estenuante processo nei suoi confronti durato negli otto anni successivi.
Settemila pagine di atti giudiziari, più di 300 giorni trascorsi in aule di tribunale in attesa di un verdetto sui 19 anni di reclusione chiesti dal pubblico ministero: oggi sono solo freddi numeri che possono far intuire, ma mai abbastanza, il fardello sulle spalle di chi ha dovuto subire quel trattamento. In quelle circostanze il padre di Saša muore d’infarto appoggiando fino all’ultimo il figlio, liberato definitivamente dalle accuse soltanto nel 2002 in seguito alla caduta del regime e nel tempo necessario a un rinnovamento del sistema giudiziario e burocratico.
Prima di ciò il suo calvario sarà ancora lungo. In quegli anni Saša si muove come meglio sa e riesce, cerca di sopravvivere e mantenere la famiglia. Quando nel 1999 iniziano i reclutamenti per la spedizione in Kosovo, lui per motivi di lavoro si trova in Grecia, dove avrebbe potuto rifugiarsi come tanti altri ed evitare il rientro in patria. È cosciente però che significa condannare il fratello che sarebbe stato spedito in guerra al posto suo. Infatti, la legge prevedeva che l’obbligo militare riguardasse uno solo dei figli maschi in ogni casa. Con l’intento di difenderlo, ma anche di proteggere contemporaneamente la futura moglie in attesa di un bambino che ugualmente avrebbe pagato a caro prezzo le conseguenze di una sua eventuale disobbedienza, Saša rientra nel paese e viene mandato al fronte in qualità d’infermiere.
Mai stato un uomo di facili illusioni, ma sul campo di battaglia sparisce definitivamente ogni loro parvenza: il governo che li aveva mandati a uccidere ed essere uccisi non si prende briga dei suoi uomini. Tutte le guerre saranno sempre uguali per il freddo, per la fame, per la totale mancanza di senso in quello che accade. I soldati sono carne da macello che lui si ritrova a dover aiutare, a mani nude praticamente in assenza di materiale sanitario primario. È cosciente fino in fondo di non poter fare alcunché di significativo, né per se né per gli altri.
Il fatto che l’autore stesso abbia combattuto in quella guerra contribuisce naturalmente alla veridicità delle vicende narrate, anche se a mio avviso questo non basta per esaltare i pregi indiscussi di questo libro. Il primo di essi è la mancanza assoluta di una qualunque presa di posizione. Non è un libro politico che appoggia questa o quella idea, ma una voce spietata che senza scrupoli denuncia i crimini in quanto tali. Poco importa da chi siano stati commessi. La sua critica in egual modo è rivolta alle gerarchie militari serbe da cui dipende la vita e la morte di tanti soldati semplici arruolati contro la loro volontà, quanto a coloro che "per risolvere la situazione" decidono di bombardare il Paese. Per le uccisioni non può esistere mai una giustificazione ragionevole, per quanto talvolta le grandi potenze mondiali desiderino convincere l’opinione pubblica che sono l’unica via d’uscita.
In secondo luogo, e non meno importante, siamo di fronte a un capolavoro letterario anche dal punto di vista strutturale. La sfida maggiore di ogni scrittore è da un lato quella di trovare la forma giusta per raccontare la propria storia famigliare senza restare prigioniero della propria individualità, dall’altro poter trattare le tematiche complesse come lo è la guerra, senza pathos. Per Stojanović si può dire che non accetti facili soluzioni. Etica letteraria e forma estetica in questo romanzo sono inseparabili. Se si vuole rimanere leali, e scrivere onestamente1 e con responsabilità, non sono ammissibili errori. Nessuna inesattezza, svista, equivoco, lapsus, mancanza… In altre parole nove anni di lavoro scrupoloso che comincio a percepire appieno solo procedendo man mano con la traduzione, augurandomi d’essere all’altezza di renderlo in italiano.
È superfluo soffermarsi sull’importanza di una buona traduzione per l’accoglienza che un libro potrà avere in un nuovo contesto sociale e linguistico. L’obiettivo di ogni traduttore è trovare quel sottile equilibrio tra due realtà per molti versi simili, per altri diverse. Significa avere determinazione e non esitare ad alleggerire il testo dalle parole troppo ingombranti che altrimenti ostacolerebbero la percezione dell’opera nel suo insieme, preservando contemporaneamente le particolarità del testo originale.
In questo senso la traduzione del romanzo "Var" è una sfida continua, a cominciare dal titolo del libro che solo apparentemente significa guerra perché richiama in mente la parola inglese war, ma in sostanza indica la saldatura, il punto di giuntura parlando di un metallo che deve essere accuratamente rifinito per sostenere tutto il peso di una costruzione, in questo caso il punto debole o forte, dipende certo dal punto di vista, in un uomo che non vuole mollare davanti alla crudeltà a cui è esposto. Stima il grado di sopportazione di chi desidera non solo sopravvivere alla guerra e tornare dai propri familiari come un involucro vuoto, ma aspira a vivere in seguito da persona completa pur sapendo che nulla è ormai recuperabile, quantomeno anni di vita sprecati inutilmente. Un gioco di parole che è impossibile mantenere in lingua italiana ed è il motivo per cui seriamente sottopongo al futuro editore la proposta di intitolare il libro con il nome di uno dei racconti che lo compongono, O sole mio, che manifesta pienamente lo spirito ironico con cui è stato concepito.
I singoli capitoli che lo compongono portano i titoli delle opere maggiori di autori europei e mondiali: da Will Durant, Henryk Sienkiewicz, Thomas Mann e Eugene O’Neill, attraverso Jan Kott, Michail Bulgakov e Bertolt Brecht, fino a Nikita Michalkov e Choderlos de Laclos. In esso i "sei personaggi" di Pirandello alla "ricerca d’autore" si trasformano in tre evangelisti e "Aut aut" di Kierkegaard assume connotazioni tutte nuove, mentre grandi autori della letteratura serba – Ivo Andrić, Danilo Kiš, Branko Miljković – occupano finalmente i loro meritati posti nel panorama letterario mondiale.
Ma i riferimenti non si fermano soltanto alla mera menzione di illustri predecessori: ogni pagina, ogni singola immagine del romanzo è una fitta rete di allusioni e cenni appena percettibili. Così anche a prima vista un semplice propagarsi di una canzone attraverso "tavnim drvoredima, kroz šume i višnjike" (viali oscuri, tra le foreste e giardini dei ciliegi) desidera essere un omaggio agli scrittori russi quali Bunin, Ostrovskij e Cehov, riferimento che facilmente può disperdersi se non gli viene prestata l’attenzione dovuta.
È stato proprio Danilo Kiš, ancora negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, a criticare aspramente la letteratura occidentale divenuta oggetto di consumo, per cui editore e lettori si aspettano che un autore scriva sempre con lo stesso stile senza cambiare registro2. Nel romanzo di Saša Stojanović occorre abituarsi a variazioni di stile da storia in storia, talvolta anche all’interno di ognuna di esse. Bisogna, dunque, prendere in considerazione almeno trenta voci narranti, senza calcolare poi le sotto-voci di ogni singolo racconto, trenta come i denari per i quali è stato tradito Gesù Cristo.
Il compito dei sei evangelisti, i quattro canonici con Maria Maddalena e Giuda uniti a loro, ben presto svela la sua vera natura – l’impossibilità di essere portato a termine. Loro sono stati mandati a scoprire la Verità sulla guerra in Kosovo e indagano su Čarli, l’alter ego dello scrittore stesso che resta per tutto il libro solo il pretesto per la narrazione. Quello che in un primo momento può sembrare un’indagine lineare e semplice cresce invece a dismisura, ampliandosi con ogni nuova voce narrante che oltre a fornire informazioni su Čarli presenta naturalmente anche i particolari dovuti al suo singolo punto di vista e alla propria vita. Colpisce l’assurdità degli eventi, la brutalità, l’egoismo, la paura, l’amore, sopratutto l’amore presente dove uno meno se lo aspetta.
Non è un libro di facile lettura, né tanto meno facile da tradurre. Costantemente mi ha messo in condizione di confrontarmi con i miei limiti personali, con i pregiudizi radicati talmente bene persino dove credevo fermamente che non ci fossero, con il senso di pudore che non deve ostacolare il mio lavoro. Il non giudicare altro o altri è decisamente la lezione più ardua d’apprendere. Rare volte in letteratura capitano testi in cui le questioni continuano a moltiplicarsi anche a libro letto e ormai chiuso. Sopratutto a libro letto. Il romanzo di Stojanović è uno di questi, in cui ogni certezza non tarda a mostrare il suo secondo volto, dove la fede e la speranza sono sempre affiancate dal dubbio.
Secondo le parole dell’autore è un libro "in cui è presente quel tipo di scetticismo che richiede dall’individuo un riesame continuo dei valori attraverso la storia – ‘et vice versa’, la valorizzazione culturale di Storia della civiltà, della Filosofia, della Religione attraverso l’eterno scorrere del tempo – per non lasciarsi mai ad appoggiare ciecamente delle idee, qualunque esse siano.
Occorre mantenere sempre la distanza dalle informazioni che ci vengono presentate e un approccio critico, segno distintivo di una mente sana. La sventura maggiore che può colpire il genere umano è la follia della guerra, il lume della ragione spento come purtroppo spesso accade in quella realtà balcanica da "locanda in mezzo alla strada", dove la Verità in egual misura sono l’ultimo ubriacone di turno e la prima innocente vittima. È un cunicolo stretto e buio, sabatiano3, in cui cercando la via d’uscita alcuni pagano di più, altri meno… ma di certo ne escono tutti sconfitti."
Note:
1. L’espressione utilizzata da Danilo Kiš in un testo del 1957, "Pohvala spaljivanju" (Elogio al gesto di dare alle fiamme), in: Varia (Varie) – La condensazione delle parole in Kiš non è mai semplice procedura volta a ottenere la forma estetica perfetta. Di pari passo procede, ed è inseparabile, la richiesta di un’etica letteraria. "Pohvala spaljivanju" diventa una specie d’appello a salvaguardare il testo dall’autocritica, dove Kiš ribadisce quanto sia importante essere "pre svega čovek pa tek onda umetnik" (prima di tutto l’uomo, e solo in secondo luogo l’artista), il quale a sua volta deve "pisati pošteno" (scrivere onestamente).
2. "[…] traže od tebe da im ponoviš ono što im je već poznato, da čuvaš svoj "rukopis", svoj zaštitni znak. Ja sam srećom, s te strane, miran, te mogu čiste savesti i natenane da tragam za novom temom i novim prosedeima, iz knjige u knjigu." Kiš D., Tražim mesto pod suncem za sumnju (Cerco un posto sotto il sole per il dubbio), in: Život, literatura (Vita, letteratura); priredila Miočinović M., Narodna biblioteka Srbije, Beograd 2003 (CD-rom) – l’intervista del 1984 – "[…] vogliono da te che tu ripeta loro quello che già conoscono, che tu rimanga fedele alla tua "scrittura", al tuo marchio depositato. Fortunatamente, da questo lato sono tranquillo, e con la coscienza pulita e a posto posso comodamente cercare nuovi temi e nuovi procedimenti, di libro in libro." Il bisogno di cambiare spinge l’autore verso sempre nuove soluzioni formali non solo da un libro a un altro, ma talvolta anche all’interno di una stessa opera, alla continua ricerca di una forma pienamente idonea a rappresentare la materia trattata. Secondo quanto egli stesso ci dice, esempio emblematico di questa sua ricerca di variazione è il romanzo Peščanik (Clessidra): "Imam potrebu za promenom u neki drugi registar, iz mola u dur, i obratno, kao što imam potrebu da variram i stavove, "dolente" u "staccato", da lirske, "pesničke" fragmente smenjujem esejističkim itd. […] Kad čovek isprobava jednu temu, hoću da kažem na hartiji, pišući, ostaje mu da otkrije jedan od mogućnih prosedea, najpogodniji za određenu temu. A koji za neku drugu temu, drugu priču, nije pogodan. […] kao najeklatantniji primer variranja teme može se uzeti Peščanik, u kojem ima četiri različita rukopisa koji se smenjuju". Idem. "Ho bisogno di cambiare registro, dal minore al maggiore e viceversa, così come ho bisogno di variare anche i tempi, da "dolente" a "staccato", di sostituire i frammenti lirici, "poetici", con quelli saggistici ecc. […] Quando un uomo sperimenta un tema, voglio dire sulla carta, scrivendo, gli rimane allora il dovere di scoprire uno dei procedimenti possibili, quello più adatto al tema in questione. E che per qualche altro tema, qualche altra storia non è adatto. […] il più eclatante esempio di variazione può essere considerato il romanzo Peščanik, in cui esistono quattro diversi registri che si scambiano." Traduzione e ricerca di Anita Vuco.
3. Si pensa a Ernesto Sábato, scrittore argentino d’origini italiane il cui primo e più conosciuto romanzo si intitola "Il tunnel" (El túnel), 1948.
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