L’homo faber e il delirio fabbricato
Il quinto di una serie di racconti che prendono spunto dal percorso formativo “Ex Jugoslavia, una guerra postmoderna. Viaggio nel cuore dell’Europa” realizzato nel settembre scorso dall’Istituto storico di Modena
(Pubblicato in concomitanza con il blog www.michelenardelli.it )
«Noi riteniamo …
che tutti gli uomini sono stati creati uguali,
che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili,
che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità…»
dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America
Filadelfia, 4 luglio 1776
Erano fabbriche, il lavoro rendeva liberi.
Si accorsero ben presto che non era così, quand’anche chi riuscì ad uscirne vivo facesse fatica a raccontarne l’orrore. Del resto in pochi avevano voglia di ascoltare. Persino le immagini vennero censurate per non urtare la falsa coscienza. Meno se ne fosse parlato, in fondo, meglio sarebbe stato.
Ma il lavoro non rendeva liberi. Non nei campi della morte dove quella scritta campeggiava come un programma, in tragica sintonia con il fumo delle ciminiere. Non a Jasenovac, il principale campo degli Ustasa croati, crudeli epigoni dei loro amici nazisti e fascisti, dove gli internati che non venivano assassinati al loro arrivo (come i rom) avevano il “privilegio” di venir condotti ai lavori forzati fino allo stremo. Non nei gulag staliniani dove la riabilitazione prevedeva il lavoro nei boschi e nelle segherie (molte delle quali nella regione di Arkangelsk ancor oggi in funzione) nel silenzio e nel gelo siberiani. Non nella Risiera di san Sabba, campo di lavoro e di sterminio nostrano che la falsa coscienza della città di Trieste non ha mai smesso di rimuovere. Non nell’isola calva1, dove chi non veniva piegato dal caldo torrido e dal gelo impietoso del mare dove gli internati erano costretti a spaccare pietre e scavare sabbia, passava sotto le bastonate e l’umiliazione del “kroz stroj” e del “bojkot”2. E nemmeno ad Omarska, qualche decennio più tardi, in quei capannoni per la lavorazione del materiale ferroso che oggi esibisce le insegne dell’Arcelor Mittal, il più grande gruppo mondiale dell’acciaio, dove riapparvero i campi di concentramento in nome della razza e del credo religioso e dove l’attuale proprietà nega la realizzazione anche solo di un piccolo luogo della memoria.
Anche la fabbrica di motori navali nella periferia di Srebrenica divenne un campo, forse ancora più beffardo se consideriamo che da luogo di disperata speranza di salvezza di chi in quei tragici giorni del luglio 1995 cercò proprio lì una via di scampo, si rivelò la porta per l’inferno. Perché da lì, sotto lo sguardo inebetito dei giovanotti olandesi che portavano i Caschi Blu, partivano i camion carichi di uomini per il loro ultimo viaggio. Divenne il primo genocidio nel cuore dell’Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Questa volta l’obiettivo era quello di cancellare l’islam endogeno, le tracce di un’Europa plurale che si era andata formando lungo la storia nell’incontro fra le diverse sponde del Mediterraneo.
Fabbriche, campi. Il Novecento è stato il secolo del delirio dell’homo faber3. Nel tragico conto, non solo il numero di persone morte in guerra (il triplo dei diciannove secoli precedenti), ma anche la persecuzione verso ogni tipo di minoranza (etnica, politica, culturale e religiosa). Per non dire del nostro rapporto con la natura e gli altri esseri viventi, piegati da un antropocentrismo fondato sull’idea dell’uomo (bianco) signore assoluto.
A Srebrenica (e più in generale in Bosnia Erzegovina) si dovevano ripulire i territori che nelle intenzioni (e nei fatti) erano destinati all’idea della grande Serbia cui era affidato il compito “storico” di sradicare dall’Europa i mussulmani. Ma nessuno di loro poteva immaginare che quella fabbrica, fino a pochi anni prima fiore all’occhiello dell’industria navale della Jugoslavia socialista e della quale gli abitanti di quella città andavano fieri, avrebbe potuto rivelarsi un immenso vagone blindato verso le fosse comuni.
Capannoni che da tempo ormai si erano degradati a pratiche militaresche e maschili, nello squallore che ancora oggi si può cogliere entrandoci, malgrado fosse il quartiere generale delle forze delle Nazioni Unite, lì contingentate in attuazione della risoluzione 819 che sanciva lo status di protezione internazionale dell’enclave di Srebrenica.
Durante quella guerra divenne evidente la natura ipocrita di un diritto internazionale esibito ma inesigibile laddove il suo esercizio dipendeva dagli interessi delle cancellerie di stati nazionali che miravano a costruire nuove aree di influenza sulle ceneri della Jugoslavia. Così Srebrenica venne sacrificata nella trattativa con i signori della guerra.
Le immagini di quei giorni dell’estate 1995 raccontano di volti smarriti, di persone provate da un assedio infinito, di uomini piegati e separati dalle loro famiglie, di donne che a stento trattenevano le lacrime per non spaventare i loro bambini, di borse di plastica a quadretti riempite di quel che rimaneva delle loro vite, di soldati carichi di adrenalina, alcol e droghe pesanti che guardavano con disprezzo e ridevano del dolore degli altri. E, ancora, la durezza del capo4 ostentare – in mezzo ai propri uomini e davanti ad accondiscendenti telecamere – la vittoria del nazionalismo serbo e una crudele magnanimità verso donne e bambini.
Quante volte ho passato e ripassato quelle immagini per cercare di riconoscere l’origine di quel tragico (e moderno) disegno, per ritrovarvi ogni volta la banalità del male, la cattiveria del branco unito nel proprio delirio e assolto nell’approvarsi di fronte al perverso nemico, la festa della guerra5.
Così come non c’erano ragioni particolari perché potesse accadere lì e non altrove, in quella cittadina un tempo luogo termale (Argentea era il suo nome presso i romani, appunto Srebrenica), dove mai si sarebbe pensato potesse riapparire il genocidio nella civile Europa.
Sì, in Europa, perché non è vero che l’Europa non abbia conosciuto la guerra dalla fine del secondo conflitto mondiale, come sento ancora affermare da autorevoli rappresentanti delle nostre istituzioni. Quella stessa Europa che con un po’ di lungimiranza avrebbe forse potuto impedirla quella guerra nel suo cuore balcanico e perché i paesi europei in questi settant’anni non è che poi si siano tirati indietro nel provocarla altrove, la guerra, a tutela dei propri interessi.
Senza comprendere che in quella guerra c’era il nostro presente, l’insana idea dello “scontro di civiltà”, l’Europa cristiana affermata in contrapposizione ad altre identità. Perché questi erano gli slogan dei nazionalisti in quei primi anni ’90 che iniziavano a serpeggiare per l’Europa e mentre la discussione sulla Costituzione dell’Unione Europea si arenava proprio sulla questione della sua identità che qualcuno voleva “cristiano-giudaica”. E perché – occorre riconoscerlo – erano in molti, anche da quest’altra parte del mare, a soffiare sul fuoco.
Ed ora sono di nuovo qui, davanti a migliaia di stele bianche rivolte al cielo che ci parlano anche di noi. Fra i tumuli di terra tutti uguali, nel silenzio che fa di questo cimitero un luogo di meditazione leggo i nomi e una data, sempre la stessa, 1995. Ci sarebbe di che riflettere, ma niente tutt’intorno è pacificato, ben poco si è compreso e tutto rimane sospeso, come in attesa che accada qualcosa che dia sfogo al rancore.
Perché a Srebrenica siamo nella Republika Srpska. La “pace” di Dayton ha fotografato e ratificato la linea del fronte che qui ha l’aspetto di un genocidio per anni negato quand’anche fosse nella consapevolezza di tutti, nel muto dolore di chi sperava fino all’ultimo che le cose non fossero andate così, nella rimozione auto-assolvente del complotto contro la “nazione celeste”, nell’ipocrisia di una comunità internazionale che ha guardato altrove. E qui, nel rancore di narrazioni contrapposte, il tempo si è fermato, nella cupezza dell’abitato di Srebrenica come nella falsa coscienza della cittadina di Bratunac.
Nel mezzo, Potočari, la terra dove hanno trovato riposo le spoglie prima disperse nelle fosse comuni. Non tutte per la verità, tanto è lento e difficile dopo più di vent’anni il compito del riconoscimento. In fondo un luogo di pace forse perché senza retorica, cosa niente affatto scontata. Nel quale ogni persona, compreso chi scrive, può trovare in quel silenzio un motivo di riflessione su ciò che siamo e sul significato delle nostre esistenze.
A poche decine di metri, in uno dei capannoni industriali dismessi, è sorto un memoriale che propone le immagini di prima della guerra, della sopravvivenza nell’assedio, della presa della città da parte dei nazionalisti serbi in quel luglio 1995, delle persone ammassate intorno alla base militare delle Nazioni Unite, delle file degli uomini come quelle delle donne con i bambini. Una documentazione importante affinché quella storia non venga rimossa, i numeri assumano il volto di persone reali ed irripetibili, la verità non venga relativizzata dalla necessità di voltare pagina.
Il fatto è che che qui di elaborazione del conflitto ancora non c’è traccia. Hasan, il referente storico e scientifico del memoriale che ci accompagna nella visita, ci spiega che siamo ancora nella fase di ricomposizione e di riconoscimento delle vittime che ogni anno trovano sepoltura nella cerimonia dell’11 luglio. Ci racconta anche dell’ostracismo che quel luogo incontra per il fatto che le comunità locali sono chiuse e paralizzate nella propria narrazione, così che i visitatori del memoriale sono pressoché esclusivamente di una sola delle parti.
Come venirne a capo? Dal basso? Dall’alto? Da fuori? Difficile dare risposte. In realtà non è semplice nemmeno porre domande specie se scomode, specie se il contesto non può che indurci ad essere dalla parte delle vittime. E così, al mio chiedere se non sia il caso di uscire dalla cappa dall’inganno etnico, la risposta di Hasan è chiara, «a quello ci arriveremo».
Penso fra me che spostare in là non aiuti, che i nodi per quanto dolorosi non andrebbero elusi. Penso inoltre che le strade per l’elaborazione dei conflitti possano essere riconducibili a gesti semplici. Che, ad esempio, persone di nazionalità serba vengano sino a qui con un fiore o anche a mani vuote, un gesto di rottura di quella narrazione che vuole le parti rinchiuse nel proprio sordo sentire, quel “tradire” nel suo significato più profondo che ci ha consegnato Alex Langer e riconducibile all’idea che senza il coraggio di uscire dal proprio gruppo non possa esserci assunzione di responsabilità. Aprire varchi, questo occorre, affinché ognuna delle parti possa mettersi alle spalle l’incubo in cui è finita. Non credo però possa esserci un prima o un dopo, che l’elaborazione del conflitto richieda il coraggio di disarticolare i racconti, anche a partire dalla testimonianza individuale.
E una testimonianza individuale che vuole uscire dagli schemi imposti o dal senso di soffocamento che qui si vive (e che porta tanti giovani alla scelta di andarsene) è quella di Irvin.
La sua è stata quella di ritornare sui propri passi, che erano brevi come i suoi quattro anni quando con la mamma Nadja, la sorella e il fratellino ancora più piccolo di lui, se ne andarono da qui con le poche cose che potevano servire “per una settimana o due” si dissero, il tempo che le cose si fossero sistemate. Settimane che divennero anni, il gorgo della guerra nella quale persero il padre e il marito e tante altre persone care.
Dopo la Val Camonica, Roma e Bruxelles, Irvin ha deciso di ritornare fra queste montagne, «a vivere – come lui dice – alla maniera dei Bogomili». Una storia – quella dei “patarini bosniaci” – che mi ha sempre affascinato, tanto mi incuriosisce ogni forma di sincretismo. Ed in questo caso ancora un po’ di più, se penso che questo movimento si vuole all’origine dell’islam endogeno che ha fatto e continua a fare tanto diversa questa terra6.
Una scelta radicale, quella di Irvin, difficile quanto lo sfuggire da un mondo sempre più piccolo dove l’interdipendenza ti abita addosso, tuo malgrado. E così mentre il suo cellulare continua a suonare – prezzo forse inevitabile se si vuole immaginare un turismo in armonia con la natura, lontano da ogni rotta, comprese quelle che hanno la sensibilità di arrivare fino in Bosnia Erzegovina o a Srebrenica – ci conduce ad assaggiare la birra artigianale e poi al villaggio di Osmace per trascorrere una serata e una nottata insieme ai suoi amici al calore del fuoco.
Il paesaggio intorno a noi ci racconta di una natura selvaggia e che non ti regala nulla, di stagioni cariche di freddo e di neve, di ritmi della vita che seguono quelli delle stagioni. La natura non è altro dagli uomini, che ne sono parte. Così il bene e il male. E negli anni ’90 la guerra è arrivata fin quassù, le case ne portano ancora i segni, perché le nuove guerre non trascurano affatto i villaggi sperduti, dove c’è invece da razziare o da stuprare senza dare troppo nell’occhio.
Mi chiedo quanto sia possibile oggi “vivere alla maniera dei Bogomili”, una ricerca che rispetto ma che ammetto di guardare con un certo scetticismo. Penso che il vuoto lasciato dal crollo delle ideologie novecentesche si avverta qui forse più che altrove, nel proliferare del mito del consumo, nella devastazione prodotta dal turbocapitalismo, nella nostalgia per la vecchia Jugoslavia, magari senza nemmeno averla conosciuta. O, ancora, nella ricerca di spiritualità nelle sue svariate forme, compresa quella che nasce dall’eresia bogomila, dal suo carattere esoterico e fortemente legato alle leggi della natura e dell’universo.
Vorrei parlarne con Irvin, ma nelle poche ore in cui stiamo insieme è così preso dall’organizzazione della nostra accoglienza che proprio lo spazio non c’è. Il progetto su cui sta lavorando si chiama “Srebrenica, City of Hope”, una proposta di ricostruzione della comunità «come un viaggio nel tempo oltre che nello spazio, riuscendo a vivere situazioni, conoscere oggetti, assaporare sapori e annusare odori di un tempo quasi dimenticato»7. Un filo che può unire le persone che hanno avuto il coraggio di tornare a Srebrenica ed una proposta di turismo sostenibile, capace di andare oltre le ferite ancora aperte di questa comunità.
Mentre osservo Irvin percorrere le stradine intorno al villaggio in compagnia della sua cavalla Charlotte, provo ad immaginarlo dentro gli uffici dell’Unione europea o nel traffico di Roma. E lo capisco molto bene. Del resto, nel mio stesso viaggiare alla ricerca di nuovi paradigmi, il tema del ritorno alla terra e alla montagna è un motivo ricorrente, parte di quel riconsiderare il nostro rapporto con la natura e, per altri versi, con stili di vita apparentemente irrinunciabili e che ci stanno portando verso il baratro.
Nel vuoto della politica, nella sua distanza dal saper proporre un nuovo racconto, quella di Irvin è una strada per non farsi inghiottire dalle dinamiche di una guerra senza fine e dalle fatue attrazioni del “progresso scorsoio”8. Una strada, insieme ad altre che parimenti s’interrogano in maniera esigente sul senso delle nostre esistenze.
Qui, in questo angolo della Bosnia Erzegovina, fra i capannoni industriali dismessi e quel mare di stele bianche con un nome e una data, misuriamo più che altrove il fallimento del secolo breve, l’incapacità di riflettere su quella scritta che campeggiava all’ingresso di Auschwitz, il non aver imparato il valore ed il rispetto per le diversità e le minoranze culturali e l’ineludibilità dell’elaborazione dei confitti affinché – come dice Irvin – «la memoria non venga ridotta ad una semplice vittimizzazione dei fatti e delle persone». E, accanto a tutto ciò, un disperato bisogno di un’idea diversa di futuro, che non smarrisca ciò che è essenziale nella vita e dove la ricerca della felicità liberi l’homo faber dal suo delirio fabbricato.
Srebrenica, ottobre 2018
Note:
1. Parlo di Goli Otok, l’isola nel Canale della Morlacca trasformata da Tito in campo di rieducazione operativo dal 1948 al 1956 e successivamente come colonia penale jugoslava fino al 1988.
2. Giacomo Scotti, Il Gulag in mezzo al mare. Lint Editoriale, 2012
3. Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro. Einaudi, 2001
4. Si tratta del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic che nel luglio 1995 guidava personalmente le operazioni militari a Srebrenica.
5. Il riferimento è alle parole dello scrittore colombiano Estanislao Zuleta. In Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Darsi il tempo. EMI, 2008
6. Della cultura bogomila ho parlato nel precedente racconto: http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4203
7. Un’interessante intervista ad Irvin Mujcic sul progetto “Srebrenica, City of Hope” in https://www.lordinario.it/storie/srebrenica-city-of-hope-la-ricostruzione-di-una-comunita
8. Andrea Zanzotto, Marzio Breda, In questo progresso scorsoio. Garzanti, 2009
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