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“L’Europa oltre i confini”: un orizzonte politico per cooperare con i Balcani

Lo scorso dicembre un seminario a Venezia sulla cooperazione decentrata nei Balcani. Ora sono a disposizione il riassunto della discussione e l’intervento di Mauro Cereghini, coordinatore dell’Osservatorio sui Balcani.

23/01/2002, Mauro Cereghini -

Venezia è senza dubbio una città simbolo per la cultura della pace e per l’impegno nei Balcani. Nella città lagunare lo scorso dicembre si è svolto il seminario internazionale Le Città per la cooperazione decentrata allo sviluppo umano: esperienze e opportunità per il Sud Est Europa. L’evento è stato organizzato dall’ANCI e dal Comune di Venezia, promotore tra l’altro del CReB, e vi ha partecipato anche l’Osservatorio. E’ ora disponibile un riassunto degli interventi dei relatori (disponibile in calce a questa notizia). Abbiamo ritenuto interessante inoltre riproporre una sintesi dell’intervento che Mauro Cereghini, coordinatore dell’Osservatorio, ha realizzato in quell’occasione.

"L’Europa oltre i confini": un orizzonte politico per la cooperazione con i Balcani

Due sono gli elementi che vorrei portare come contributo alla discussione di oggi, a cui vi ringrazio di averci invitato.
Anzitutto, riprendendo il titolo generale del Seminario e gli interventi che mi hanno preceduto, vorrei fare una riflessione su quali sono stati i soggetti della cooperazione decentrata che in questi anni hanno operato dall’Italia verso il Sud Est Europa. Già si è detto del ruolo rilevante avuto dagli enti locali e regionali, e infatti ci troviamo qui su invito della Città di Venezia in collaborazione con l’ANCI. In più in diversi programmi è emersa con chiarezza l’importanza del sostegno venuto dalle istituzioni centrali (Ministero Affari Esteri) e internazionali (UNOPS-UNDP).

Mi sembra tuttavia vada sottolineata di più la presenza di un terzo soggetto, meno citato oggi: si tratta di tutto il settore non governativo, che va dai comitati spontanei all’associazionismo, fino alle ONG. Si tratta di un mondo senz’altro variegato e anche contraddittorio al suo interno, ma la cui importanza nelle relazioni di cooperazione decentrata non può essere dimenticata. In diverse occasioni anzi è partita proprio da qui la scintilla di avvio nel rapporto tra due territori, che solo successivamente è evoluto nella dimensione istituzionale. E se è vero che in alcuni casi sono state le amministrazioni pubbliche ad aprire la strada della cooperazione internazionale per il proprio territorio, almeno in altrettanti è stata la spinta della società civile a "trascinare" le istituzioni sulle vie dei Balcani.
"Mancano chiaramente dati completi – abbiamo scritto recentemente nell’introduzione al Convegno annuale dell’Osservatorio sui Balcani – ma non pensiamo di sbagliare se contiamo in decine di migliaia i volontari che hanno approcciato i conflitti balcanici direttamente dal campo, percorrendo le molte vie dell’aiuto e della solidarietà materiali. Ugualmente a centinaia si devono contare le iniziative, i gemellaggi, i progetti avviati da comitati, associazioni, ONG, sindacati, parrocchie e istituzioni diverse con il sud est Europa. I flussi in denaro di questo ampio insieme di interventi possono essere stimati sull’ordine delle centinaia di miliardi di lire, ma se si valorizzassero tutte le prestazioni volontarie raggiungerebbero probabilmente anche le migliaia.

Al di là poi delle dimensioni quantitative, l’aiuto e la cooperazione con i Balcani hanno determinato una grande esperienza di crescita qualitativa nel rapportarsi alla solidarietà internazionale da parte di mondi che fino ad allora l’avevano trattata più come materia di dibattito politico-culturale che come pratica concreta d’azione. Aver vissuto per anni a poche ore di auto dal fronte degli scontri, aver sperimentato contesti di fame reale a qualche decina di chilometri dalle proprie coste erano eventi sconosciuti nell’ultimo mezzo secolo di storia italiana. In queste esperienze è cresciuta una nuova consapevolezza del ruolo possibile dei cittadini in un contesto internazionale, che si traduce oggi negli orizzonti sempre più ampi della diplomazia popolare e anche – ed è il tema di oggi – del protagonismo estero degli enti locali nella forma della cooperazione decentrata…"
E dunque se cooperazione decentrata è incontro alla pari fra società, territori, geografie e culture, dobbiamo assumerne l’intera portata nella sua complessità e pluralità di soggetti: istituzioni nazionali, enti e amministrazioni locali, settore non governativo, organizzazioni di categoria, produttori, gli stessi singoli cittadini che partecipano a questo o a quel progetto… E ciò non ha valore solo "qui", sul versante italiano della decentrata, ma forse ancor di più "lì", su quello balcanico. Non si dovrebbe mai immaginare, infatti, un programma di relazioni stabili tra comunità che coinvolga solo i soggetti istituzionali di un territorio.

E’ ben vero che non è semplice identificare strutture sociali intermedie (associazioni, sindacati effettivamente rappresentativi, ONG locali…) in contesti post-bellici e post-comunisti come quelli balcanici, di diffusa de-responsabilizzazione, scarsa partecipazione e gestione sovente privatistica del bene pubblico. Tuttavia è proprio in questo sforzo di "arricchimento" sociale che la cooperazione decentrata deve dimostrare la sua funzione peculiare. Essa non può essere infatti un mero sostituto della cooperazione governativa né uno strumento per coordinare quella non governativa, ma deve saper muovere un vero processo di incontro tra comunità che coinvolga e faccia incontrare risorse e competenze umane, culturali, esperienziali, etc. ben più ampie di quelle legate a un singolo progetto di cooperazione. Ed in ciò, lo ribadisco, il ruolo del settore non governativo è essenziale.

Ma, e vengo al secondo punto che vorrei offrire alla discussione, il solo "fare" non basta. La solidarietà e la cooperazione con il Sud Est Europa fin qui si sono misurate troppo sui miliardi investiti o sulle case ricostruite, piuttosto che sulle idee di fondo che accompagnavano i progetti. Ciò ha causato ulteriori danni e frustrazioni nelle leadership locali, lasciando di fatto spazio all’unica idea forte per il futuro dei Balcani che è quella della deregolazione strutturale e del turbo-capitalismo in salsa nazionalista. Occorre invece invertire rotta e acquisire una bussola, una prospettiva politica attorno alla quale incardinare la progettualità quotidiana anche per i processi di cooperazione decentrata delle nostre città.
Una proposta in tal senso è quella offerta dall’Appello "L’Europa oltre i confini. Per un’integrazione dei Balcani nell’Unione Europea: rapida, sostenibile, dal basso". Si tratta di un’iniziativa lanciata dall’Osservatorio sui Balcani e dall’ICS assieme ad altri, che è stata presentata il 24 settembre 2001 in Campidoglio dai Sindaci di Sarajevo e di Roma in rappresentanza dei cento firmatari illustri dei Balcani e dell’Italia. Da lì è partita un’ampia campagna, che ha visto tra l’altro la consegna dell’Appello nelle mani di Romano Prodi e la sua adozione da parte della Tavola della Pace nell’ambito della Marcia Perugia-Assisi del 14 ottobre.

Il testo della petizione chiede un’integrazione rapida dell’area sud-orientale nell’attuale Unione Europea per poter dare – come detto sopra – una speranza certa a quelle terre, che vada oltre la sopravvivenza nei micro-confini sorti con gli Accordi di Dayton. E insieme per spezzare prima possibile la catena delle rivendicazioni secessionistiche, che dopo la Macedonia potrebbe toccare Montenegro, Sangiaccato, Vojvodina, Istria croata e chissà quale altra piccola patria. Senza assolutamente negare loro il diritto all’autonomia locale, ma per definire assetti istituzionali stabili che superino in avanti, sciogliendole in unioni maggiori, le attuali suddivisioni statali.
L’Appello poi indica il bisogno di un’integrazione che sia sostenibile, ossia che possa garantire uno sviluppo stabile dei paesi balcanici fondato sulle loro peculiarità locali – uso razionale delle risorse naturali, turismo di qualità, agricoltura e industria di trasformazione, cultura… – piuttosto che sulle sottoproduzioni industriali, delocalizzate dall’Europa ricca per sfuggire alle regole ambientali e sociali che essa stessa si è data. Uno sviluppo autocentrato, dunque, dove l’economia ha molto a che fare con l’autogoverno locale (in un quadro federato, non secessionista) e con la responsabilità individuale.

Infine l’Appello indica la via delle relazioni tra comunità, tra singoli territori del sud est e del nord ovest d’Europa, come metodo migliore per praticare da subito la strada dell’integrazione. Prima e a fianco della via governativa, perché così è stato fatto – lo dimostrano anche le esperienze degli enti locali italiani presentate oggi – in questi anni di carenza e smarrimento della comunità internazionale ufficiale nei Balcani. E perché solo così, forse, si può dare reale parità alle associazioni, ai gruppi, alle amministrazioni locali, agli intellettuali per troppo tempo lasciati senza parola, emarginati dai governi nazionalisti in casa loro e inascoltati all’estero. Simbolicamente anzi l’Appello si apre con la frase di una di essi, Rada Ivekovic, e raccoglie sostegni importanti da tutti i paesi dell’area.
"L’Europa oltre i confini", dunque. Un sogno per il futuro lontano ma anche un orizzonte politico per il prossimo domani, sapendo che se è vero che per costruire l’attuale Unione Europea ci sono voluti quasi cinquant’anni, è altrettanto vero che nell’era contemporanea anche il tempo è cambiato: ciò che fino a ieri si misurava in decenni, oggi si compie in pochi anni. E’ passato oltre un decennio dalla caduta del muro di Berlino, eppure già gli attacchi criminali sugli Stati Uniti hanno segnato una nuova svolta epocale in cui anche noi – Europa e Balcani – siamo coinvolti.

Con tutte queste questioni devono dunque misurarsi i processi di cooperazione decentrata, sapendo incidere a livello locale sulle città ma con uno sguardo aperto all’insieme globale di ciò che accade nel pianeta, a partire dalla più vicina Europa. E d’altronde questa riflessione dovrebbe riguardare tanto un’esperienza di cooperazione decentrata con la Bosnia Erzegovina o l’Albania, quanto la gestione di un qualsiasi servizio pubblico di quartiere. Perché questioni come la riorganizzazione dell’assistenza sociale dopo la crisi del welfare state, la presenza nelle scuole di minoranze nazionali, la bonifica ambientale di aree industriali dismesse o l’accoglienza dei cittadini rom possono variare in intensità, ma hanno una natura indubbiamente comune nei municipi balcanici come in quelli italiani.
Per riprendere una metafora cara a molti, i Balcani di oggi sono lo specchio dell’Europa contemporanea, non la fotografia di quella ottocentesca. E dunque accompagnare il "fare cooperazione" con un’idea politica forte – l’integrazione europea rapida e sostenibile – non è solo dare una prospettiva a loro. Ma immaginare anche il nostro futuro prossimo, "oltre tutti i possibili confini".

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