Lettere da Creta: in bici ad Akrotiri Sideros
"Esco dal monastero in tarda mattinata, il vento è ormai disteso e muove le pale delle alte torri eoliche che segnano l’orizzonte montano occidentale". Una pedalata sino a quello chiamato dai veneziani Capo Sidero. Continua il nostro viaggio alla scoperta di Creta
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Akrotiri Sideros, Capo Sidero per i veneziani, ha il fascino di tutti i punti estremi a cui s’aggiunge una geografia d’eccezione. E’ infatti un promontorio stretto che prosegue in due isolette collegate tra loro da sottili lingue di terra, circondate a loro volta da isole a ovest e a est. A ponente c’è l’arcipelago della Dionisiade, un toponimo che vale da solo il viaggio e di cui ci sono pochissime informazioni, sia sull’etimologia che sulla storia. A levante c’è invece la piccola, solitaria, disabitata Elasa. Più lontana, ma ben visibile all’orizzonte, in direzione nordest si vede Caso, che ha alle sue spalle l’imponente vetta di Scarpanto che a sua volta nasconde Rodi, l’isola di Afrodite. Un crescendo d’isole, geografico e mitologico. Capo Sidero, visto su una carta, è ciò che rimane di una collana d’isole più lunga, due piccole perline ancora collegate da un filo sottile a Creta. Le altre invece, Gianysada, Dragonada, Paximada e Paximadaki a ovest, ed Elasa a
est sono lì a poche miglia, desideri pelagici. A Capo Sidero l’insulomane si riempie gli occhi di quelle meraviglie che inquietano i suoi sogni notturni, che alimentano i suoi progetti diurni. Sogni d’isole legate a Dioniso, il dio che più di ogni altro ci invita a vivere la carnalità, il dio del vino che secondo alcuni lo portò proprio da Creta in Grecia, poi di lì in tutto il Mediterraneo e ben oltre. Di certo il culto della vite dionisiaca è di origine cretese. Dioniso che s’innamorò e sposò Arianna, la più tragica delle regine cretesi.
Così, malgrado i trentacinque chilometri che separano Sitia da Capo Sidero, i 500-600 metri di dislivello e soprattutto le previsioni meteo poco rassicuranti, prendo una bici a noleggio e parto. Il sole fa capolino tra grandi nuvole che veleggiano rapide, anche se a terra c’è calma. I primi dieci chilometri sono facili, pedalando sulla pianura che circonda la baia. C’è poco traffico, feriale. Poi la strada incomincia a salire sulle colline, in direzione est, verso il Monastero di Toplou. E’ una bella salitella, attraverso uliveti e vigneti. Un pedalare allegro, ascoltando Rebetiko Gymnastas, il disco di Vinicio Capossela tutto suonato in rebetiko. Qui, su questa estrema propaggine orientale, il mio pedalare va al ritmo di Misirlou, canzone d’amore per una ragazza egiziana, che immagino sbarcata proprio su queste coste, così vicine all’Africa. “Misirloú mou, i glykiá sou i matiá … Mia ragazza egiziana, il tuo dolce sguardo / Ha acceso la fiamma nel mio cuore / Oh mio Amore, Oh mia Notte, ah /Dalle tue labbra cade miele, ah”.
Quando arrivo al monastero, che domina sull’altopiano, trovo anche il vento, rafficato e meridionale. Sosta per un καφές e un dolcetto al miele, connubio greco-turco nato e sopravvissuto malgrado le infinite battaglie. Piccola testimonianza felice di un incontro, anche qui dove gli ortodossi sostituirono i cattolici, per essere poi scacciati dai mussulmani, dove quattordici monaci vennero impiccati dai turchi perché colpevoli di aver aiutato i rivoltosi cretesi del 1821. Il monastero fu ricostruito nel Seicento dai veneziani, in forma di possente fortezza circondata da mura alte 10 metri. Il suo stesso nome Toplou rimanda alla guerra, perché deriva dal turco “cannone”, quello utilizzato dai religiosi per difendersi. La severa architettura è oggi punteggiata da piante e fiori curati amorevolmente dalla taciturna signora che sta alla porta d’ingresso. Dentro una collezione di icone e odore d’incenso, rievocano secoli di silenzi, paure e preghiere.
Esco dal monastero in tarda mattinata, il vento è ormai disteso e muove le pale delle alte torri eoliche che segnano l’orizzonte montano occidentale. Pedalo per altri chilometri in un piacevole e panoramico su e giù sull’altipiano coperto da una vegetazione xerofila, con rari arbusti pettinanti dal vento. La loro postura è segnavento inequivocabile del dominio aereo del Meltemi, il signore del nord per tutta l’estate. Poi lascio la strada principale che porta Paleocastro per andare a sinistra in direzione del Capo. Sono altri sei chilometri in un paesaggio simile al precedente, coltivato solo nell’ultima piana, che precede la penisola estrema. Qui la strada risale e si apre un’ampia vista sul mare e sulla vicina isola Elasa. Tre chilometri sulla costa sud, per scendere poi sull’istmo di collegamento con la prima, delle due isolette terminali.
Nelle due piccole baie c’è qualche roulotte abbandonata e alcune capanne. In quella occidentale, un’auto in riva al mare con due ragazzi seduti a fumare. Atmosfere che ricordano qualche fotogramma di Viaggio a Citera di Theo Angelopulos. Un film che racconta gli straniamenti e i conflitti, quelli causati dalla grande storia e quelli delle piccole storie, non meno violenti, spesso intrecciati con i primi. Straniamenti e conflitti che qui si materializzano ancora, e forse per sempre, con i fili spinati, le garitte, i soldati che presidiano l’accesso al Capo, militarizzato e inaccessibile. Mi fermo al margine della strada, a cento metri dal posto di blocco. La schiena appoggiata a una grande pietra scura, tiepida, lo sguardo rivolto a ovest. Elasa all’orizzonte. Isola impossibile … cose impossibili. “Disse un poeta: – E’ più amata / la musica che non si può suonare -. / Così io credo che sia assai più eletta / la vita che non ci è dato vivere.”, riprendendo un verso di Costantino Kavafis.
Sulla strada del ritorno faccio tappa a Itanos, città/porto minoica, poi greco-romana. Luogo magico, di silenzi e profumi primaverili, di pietre e cocci antichissimi, di suoni d’onde sempre incantatori. Fuori stagione, in questi giorni nuvolosi d’aprile, anche Vai, la vicina spiaggia delle palme, quella del più grande palmeto autoctnono di Creta, regala emozioni africane.
La pedalata di ritorno sarà patagonica, per i grandi orizzonti di mare e di terra deserti, per il vento violento e contrario. Ma anche struggente, come le nuvole grigie che nascondono il sole, come le musiche di Eleni Karaindrou che riempiono il cuore.
ps
Un breve ma esaustivo compendio della storia di Creta, dall’età minoica alla Seconda Guerra Mondiale, lo troviamo in Arcipelago. Isole e miti del mar Egeo , di Giorgio Ieranò. Un libro che ci mette sulle rotte di Cristoforo Buondelmonti, prete, mercante, avventuriero che nel 1420 diede alle stampe Liber Insularum Archipelagi. Nel libro, che nasce dalle sue avventure marinaresche, sono descritte 75 isole dell’Arcipelago, come lo chiamavano gli antichi, cioè l’odierno Egeo. A partire da questo antico libro, Ieranò ci porta negli scali levantini, tra cui Creta, “la madre degli dei”. Un’isola arcana, con un paesaggio severo e maestoso che impressiona ancora oggi. Quella di Ieranò è una lettura appassionante che ci parla anche dei “miti del turismo”, una riflessione sui cambiamenti dei luoghi, ma soprattutto degli sguardi sui luoghi.
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