Letteratura in Croazia: la parola può essere sovversiva?
A più di vent’anni dall’indipendenza della Croazia gli scrittori faticano ad affermarsi. Ma in un paese nel quale la lettura non è certo una tradizione, scrivere rimane una vocazione. Un’intervista allo scrittore Marinko Koščec
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 24 agosto 2014)
Lo scorso maggio ha partecipato al Festival sovversivo di Zagabria. Si definirebbe un autore sovversivo?
Anche scrivessi qualcosa di molto grave, non potrei mai vantarmi d’essere sovversivo. Constato infatti, con tristezza o rassegnazione, che lo spazio letterario non è un luogo che permette di far avanzare le cose. La cosa peggiore è che le parole veramente sovversive non vengono intese. Anche se si scrivono e denunciano fatti gravi, ad esempio sui politici, si ha l’impressione di predicare nel deserto, tutto passa inosservato. Non si rischia nulla, sembra sia scomparsa la possibilità stessa d’agire.
Come se lo spiega?
La spiegazione è banale. Innanzitutto la tradizione della lettura non è radicata e si legge sempre meno. Infine il sistema che permette ai libri di sopravvivere è artificiale. L’industria editoriale sopravvive solo grazie a sovvenzioni statali che permette agli editori di coprire i loro costi. Ma che i libri arrivino sino al pubblico è ben altra cosa. Spesso gli editori non si preoccupano nemmeno di venderli. E’ un sistema perverso. D’altronde mi domando come qualcuno si possa permettere 15 o 20 euro per comprarsi un romanzo.
Questo significa che gli autori più giovani avranno sembra più difficoltà ad affermarsi…
Si, anche se non sembra siano stati annientati da questa apatia che regna. La scrittura qui è una vocazione, non una professione. Vi sono giovani che percorrono la loro strada e trovano modalità nuove per esprimersi. Tutti sono coscienti dell’apatia esistente, non si fa finta di niente, ma si continua a lavorare. E’ una forma di resistenza.
La Croazia è indipendente da 23 anni. Vi sono alcuni argomenti che si sono imposti nel periodo del dopoguerra?
Come ovunque i temi scelti dipendono dalle condizioni sociali. Non c’è da meravigliarsi se in un sistema come il nostro si parla molto di transizione e di quanto ereditato dall’antico regime. E’ questo che crea il terreno di base, anche se molto varia da autore ad autore. Vi è qualche romanzo di guerra, ma non molti. E’ soprattutto il dopo-guerra, il mondo nuovo, che ha lasciato tracce ed ha avuto una grande influenza sulla scelta dei soggetti. Negli anni 2000 è emersa una nuovo generazione con una prosa realista che si esprime in un linguaggio più rilassato, più familiare, che cerca di evitare a tutti i costi l’accademia e l’ermetismo delle generazioni precedenti.
Quale la caratteristica principale di questa nuova generazione di scrittori?
E’ proprio questo linguaggio molto naturale che evoca il quotidiano. Molti giornalisti sono divenuti scrittori. E poi c’è anche un’altra caratteristica: nella prosa ha dominato la forma della novella e non c’è da stupirsi. E’ una forma abbordabile, permette di cogliere momenti del quotidiano, catturare la realtà nel vivo e farne dei bocconi accessibili. E’ la novella che è stata scelta come formato adatto ad inviare un messaggio, il romanzo è ritenuto invece come troppo ambizioso.
Lei fa parte di questa generazione. Il suo universo è precario e lo si paragona spesso a quello di Michel Houellebecq. Concorda?
E’ un dato di fatto che si paragona il mio lavoro a quello di Michel Houellebecq, quasi per automatismo. Ho lavorato qualche anno su quell’autore e quindi non è per caso che si trovano delle assonanze. Vi sono certamente affinità di carattere, di tonalità, di sguardo sul mondo. Al contrario però il mio modo di esprimermi è molto più estetico di quello di Michel Houellebecq. Io lavoro la frase, il dettaglio. Sino ad ora ho scritto sei romanzi, molto differenti tra loro. Se vi è della continuità, è nel tono. Lavoro molto di ironia, cerco di intrattenere, di divertire attraverso la malinconia che è il punto di partenza delle mie narrazioni. E questa ironia melanconica varia a seconda dei temi trattati. Il mio ultimo romanzo, ad esempio, è una satira della scena politica croata.
Qual è l’attuale rapporto tra Serbia e Croazia in ambito letterario? Vi sono scambi tra gli autori dei due paesi?
Quando le frontiere erano chiuse i libri continuavano, di nascosto, ad arrivare. Non vi erano allora legami ufficiali tra gli editori se non molto discreti. Per 15 anni dalla fine della guerra era pressoché impossibile promuovere in Croazia un’opera serba, mentre oggi non è un problema. Inoltre il grande vantaggio è che non è necessario tradurre, oltre al fatto che sarebbe mostruosità croatizzare il serbo, che si capisce perfettamente. Vi sono autori che vengono regolarmente in Croazia e si sono ricostruiti legami senza difficoltà. Ma in tutto questo non si è preso in considerazione il contesto generale. Il libro ha difficoltà a compiere il suo cammino sino al pubblico, semplicemente perché il pubblico non si presenta all’appuntamento. La questione non è più come far affermare uno scrittore serbo, ma come riuscire a far sì che si affermi uno scrittore tout court.
In questo panorama, quale spazio hanno le donne?
Molti dei premi letterari più recenti sono stati vinti da donne. La mia preferita resta Olja Savičević, anche lei come altri una giornalista. Si stanno affermando molte donne, ma io non amo si parli di letteratura femminile. Vi sono delle scrittrici la cui potenza espressiva è superiore e ciò non dipende dalla scelta di soggetti tipicamente femminili.
Quali autori consiglierebbe?
Direi Kristian Novak, e il suo ultimo libro, Črma mati zemla. Poi Enver Krivac, Luka Bekavac, Goran Ferčec, Tanja Mravak…
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