Lettera aperta su Srebrenica
Elvira Mujcic, scrittrice, autrice di "Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica", ricorda in questa lettera il padre scomparso in guerra e mai più ritrovato. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
"Sfoglio le lettere della croce rossa. Non le leggo sempre. Ci sono dei giorni che ci riesco e giorni che diventa insopportabile l’idea. La cosa più orribile sono le lettere tornate indietro, quelle scritte dalla mamma nel periodo che va da inizio giugno 1995 in poi. Papà non le ha mai ricevute. Le nostre parole, i nostri pensieri, le domande, non sono mai giunti a lui. Sono tornati a noi, come rimbalzando contro un muro di morte. Sul pacchetto di lettere arrivate sta scritto: «Ci scusiamo, ma non abbiamo potuto recapitare le lettere, la persona da voi cercata è momentaneamente dispersa. Se avrete notizie, vi preghiamo di avvertirci».
Dopo l’11 luglio 1995, la mamma ha continuato a collegarsi sulla frequenza radioamatori e a lanciare messaggi nel vuoto, nell’indifferenza del radio trasmettitore, dal quale non è mai più risuonata la voce di mio padre o di mio zio.
Fra poco un altro anno si aggiungerà, di nuovo qualcuno si ricorderà dell’anniversario. Gli "osservatori" se ne ricordano sempre e solo il giorno dell’anniversario, il giorno i cui i nostri morti possono essere una notizia. Gli altri giorni non lo sono. Tutti gli altri giorni rimangono a noi.
Per me l’11 luglio a volte cade in pieno autunno, quando qualche cosa di questa mia vita all’estero mi riporta in dietro e mi ferisce. A volte cade in pieno inverno, quando le parole nelle lettere del papà si materializzano nell’aria gelida e a me sembra tutt’ora impossibile che non ci sia più. Le sue parole di speranza nella fine vicina della guerra, i suoi progetti per il futuro, il suo sogno di poter di nuovo mangiare le torte fatte dalla mamma, tutto diventa così vivo in quei pezzi di carta, che la sua scomparsa diventa ancora più inaccettabile.
L’11 luglio è il giorno del dolore collettivo, il giorno in cui immagini di qualche telegiornale mostrano tanti volti radunati insieme a seppellire ossa trovate nel corso dell’anno. Il dolore individuale è tutti gli altri giorni dell’anno, a telecamere spente.
L’11 luglio è il giorno delle promesse, delle scuse, delle accuse. È il giorno in cui il revisionismo viene messo a tacere dalle bare che sfilano, nelle quali leggere ossa raccolte forse riposano. È il giorno in cui tutto il mondo s’indigna per quello che è successo, ma se per caso viene emessa qualche sentenza a marzo, nessuno se ne cura, perché l’11 luglio è lontano. E se qualche criminale ancora passeggia libero e venerato, solo l’11 luglio qualcuno azzarda la promessa di prenderlo nel volgere di poco. Poi le luci si spengono e la violenza torna nel dimenticatoio; l’ingiustizia diventa di nuovo tollerabile e altri morti sensazionali riempiono le pagine dei giornali, fino a quando non diventeranno noiosi anche quelli, ma ce ne saranno di nuovi.
E così, dopo l’Argentina è arrivato il Rwanda, nel 1994, e poi Srebrenica nel 1995; e dopo Srebrenica si sono aggiunte altre guerre, altre stragi, altre immagini drammatiche, altra indifferenza, altro dimenticare. Sempre così all’infinito, mentre i figli di quei morti continuano a dover camminare sulla terra dell’ingiustizia.
E forse, ora che si avvicina l’11 luglio, bisognerebbe ricordare a qualcuno la data, bisognerebbe per l’ennesima volta chiedere giustizia, e aspettare, aspettare di trovare le ossa, aspettare di seppellire, aspettare di vedere riconosciuta e almeno in parte rivendicata la propria vita a pezzi. E chissà se anche l’11 luglio 2008 mi troverò a pensare le stesse cose, a chiedermi se la giustizia non sia solo una nostra irrealizzabile utopia."
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