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Area: Serbia

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L’esca

David Albahari è tra gli scrittori più apprezzati in Serbia, il suo Paese, e nel mondo. In Italia il mese scorso è uscito presso Zandonai Editore "L’esca", un romanzo sul rapporto con la madre e con il Paese natale. Un’intervista

30/07/2008, Sergej Roic -

L-esca

Di origini ebraiche, molto conosciuto e tradotto in Francia, Germania e negli Stati Uniti, Albahari si è presentato al pubblico italiano qualche anno fa con il breve e toccante romanzo "Goetz e Mayer" (Einaudi), che ripercorre un episodio dell’eccidio degli ebrei in Serbia durante la Seconda guerra mondiale per mano dei nazisti. Albahari, che oggi vive e scrive in Canada, all’inizio degli anni Novanta come presidente dell’associazione ebraica serba si è adoperato per aiutare gli ebrei rimasti intrappolati nella Sarajevo assediata. Scrittore dallo stile inconfondibile, Albahari viene riproposto all’attenzione del pubblico italiano con la traduzione di uno dei suoi romanzi maggiori, "Mamac-L’esca", pubblicato da Zandonai. Il titolo del libro è intraducibile in italiano trattandosi di un gioco di parole: mamac, in serbocroato, significa infatti sia esca sia mamma. La mamma-esca è il motore della storia: una sua lunga confessione viene registrata dal protagonista del romanzo. Si tratta di una confessione "materna": attorno a ciò che la madre ha perso e a quanto di materno è stato perso, il Paese natale, la Jugoslavia e la sua lingua un tempo condivisa, ruota questa storia "scritta tutta d’un pezzo"; il romanzo, infatti, è un blocco unico, non ci sono capitoli, paragrafi o "a capo".

"L’esca" è un romanzo sulla "maternità", sul rapporto con la madre e con il Paese natale, che è la "grande madre" di ognuno di noi. È la lingua materna a renderci ciò che siamo, a fare di noi, noi stessi? Com’è possibile continuare a vivere se viene a mancare la lingua madre?
Sì, la lingua madre ci definisce e definisce anche ciò che chiamiamo il mondo attorno a noi. Perciò, se ci ritroviamo da qualche altra parte, fuori e lontano dal Paese natale, rischiamo di trasformarci nelle controfigure di noi stessi. Infatti, quando parliamo una lingua diversa, straniera, non siamo più noi stessi, siamo qualcos’altro, siamo altri.

Naturalmente, si può vivere e sopravvivere anche dopo la morte della madre e quindi ci sembra di poter vivere in un Paese che non è il nostro e in cui si parla una lingua che non è la nostra. Tuttavia, per quanto ci si possa trovare bene in un Paese straniero, là e allora il nostro essere si trova costantemente fuori equilibrio.

Tutti gli stranieri, se li osservate bene, quando camminano barcollano impercettibilmente non avendo un punto d’appoggio nel Paese in cui vivono e nella lingua che parlano.
Definirebbe "L’esca" un romanzo storico o, piuttosto, si tratta di un romanzo sulla storia?
"L’esca" è un romanzo sulla storia, sull’intrusione della storia nella vita di un uomo che credeva che essa si fosse ormai compiuta, che fosse, in un certo senso, "terminata". In realtà, "L’esca" è il romanzo che parla della vendetta della storia, ovvero dei tentativi di reinterpretare il corso della storia che è già stata vissuta. Il corso della storia non può essere ripetuto, la storia può solamente più o meno assomigliare a se stessa, al suo percorso passato.

Se le storia della Jugoslavia, quella della seconda guerra mondiale ad esempio, si fosse ripetuta, oggi, anche se a prima vista ciò potrebbe apparire paradossale, avremmo una qualche Jugoslavia unita, come d’altronde è accaduto dopo la seconda guerra mondiale.

Invece, oggi, ciò che abbiamo sono sette nuovi Paesi (come i sette nani della fiaba di Biancaneve). Della storia, in Jugoslavia, si è abusato, si è cercato di riscriverla per cercare di dimostrare, innanzitutto, che i cinquant’anni di storia jugoslava non sono stati reali. Quei cinquant’anni di storia comune jugoslava sono stati un sogno, un cauchemar? Se ciò fosse vero, anche tutti quelli che hanno vissuto in Jugoslavia in quel tempo storico risulterebbero irreali, inesistenti, fittizi!

È perciò che molti, nella ex Jugoslavia, negli ultimi anni hanno continuato a cambiare opinioni e orientamenti diventando trasformandosi in nazionalisti estremisti. L’insistere sulle loro vite e opinioni passate li avrebbe trasformati nei fantasmi di una storia che non volevano ammettere di aver vissuto e a cui avevano contribuito con la loro vita. Coloro che non volevano cambiare pelle, che volevano rimanere se stessi, se ne sono andati e non vivono più nella ex Jugoslavia.
Il modo di scrivere di David Albahari assomiglia di più a un vortice, a un gorgo, piuttosto che a un lento fiume tranquillo. Il lettore, leggendo i suoi libri, è catturato dalla narrazione al punto da "annegare" – metaforicamente, naturalmente – nel testo. David Albahari si ritiene l’erede legittimo del grande e magmatico Thomas Bernhard?
Apprezzo molto Thomas Bernhard e lo considero uno dei più significativi scrittori del ventesimo secolo. Naturalmente, il suo cinismo e lo spirito critico che lo caratterizza sono inarrivabili. In ogni caso, per me sono stati di grande ispirazione. Ci sono altri autori europei che mi hanno influenzato e che scrivono orientandosi verso brani lunghi e densi, ad esempio Beckett e Saramago.

Questa forma o tipo di scrittura "bernhardiana" assomiglia effettivamente a un gorgo, a un vortice, ed io credo che rappresenti anche una sorta di labirinto per il lettore. Insomma, una volta che è penetrato in un testo del genere, il lettore deve cercare il filo che lo condurrà fuori dal labirinto e che gli permetterà, una volta che è stata compresa, di uscire dalla storia raccontata. Il lettore, indubbiamente, dovrà sforzarsi un po’ ma solo così, con uno sforzo comune, l’autore e il lettore potranno arrivare al traguardo; che è quello, naturalmente, del senso profondo che caratterizza il racconto.
A metà degli anni Novanta David Albahari ha deciso di abbandonare l’Europa. Anche il personaggio principale de l’"Esca", il narratore, si stabilisce in Canada. Un altro personaggio, lo scrittore canadese Donald, sembra voler dare al narratore delle vere e proprie lezioni di storia. Qual è il rapporto di David Albahari con l’America del Nord? Che tipo di storia la caratterizza?
Quando dall’Europa arrivate in Nord America, vi ritrovate in un "mondo nuovo". Certo, si tratta di un’espressione logora e abusata, in realtà essa è, col passare del tempo, sempre più veritiera dato che le differenze fra i due continenti sono sempre più marcate.

Le differenze si colgono a prima vista, sia per quel che riguarda la vita quotidiana sia per quel che concerne il dibattito sulla cultura e le idee. Ma c’è di più: mentre l’Europa osserva con grande interesse tutto ciò che succede in America, gli americani non si interessano minimamente dell’Europa. Un tale atteggiamento caratterizza anche Donald, il personaggio del mio romanzo. Donald e il narratore parlano, discutono, ma è come se ognuno di essi parlasse solo con se stesso. Non c’è dialogo.

E mentre per il narratore la storia, innanzitutto la storia del suo Paese, è tutto, per Donald essa non rappresenta niente, non ha alcuna importanza. Il narratore ritiene di essere una vittima della storia, qualcuno che ha ingoiato l’esca della storia facendosi prendere all’amo. Donald, invece, è convinto di esserne il padrone.

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