L’EDITORIALE. Campi di concentramento in Bosnia
Michele Nardelli, collaboratore dell’Osservatorio, in questo suo articolo risponde ad un articolo scritto per IWPR da Ed Vulliamy …
Ha ragione Ed Vulliamy, il giornalista che per primo nel 1992 denunciò l’esistenza dei campi di concentramento nei pressi di Prijedor, nel dire che lì la pace sarà vera solo quando i serbi sapranno riconoscere quanto è accaduto ed affrontarlo a viso aperto. E questo vale per i serbi a Prijedor come per i croati a Mostar o per i bosniaci altrove. Nella consapevolezza che senza elaborazione del conflitto non potrà esserci riconciliazione alcuna.
Il 6 agosto scorso ad Omarska, con Vulliamy e gli ex internati bosniaci e i loro famigliari, c’ero anch’io insieme ad una folta delegazione italiana, a testimoniare la vicinanza e per quanto possibile la condivisione dell’orrore per ciò che quel luogo ha rappresentato negli anni ’90. Una mesta cerimonia, le lacrime sommesse di tante persone che lì dentro c’erano state o avevano perduto i loro cari, il drammatico racconto negli hangar vuoti della miniera, come ad aggrapparsi ad immagini che oggi rischiano di scomparire nella memoria collettiva.
Ricordo, nell’immediato dopoguerra di Bosnia, lo spettrale silenzio delle macerie di Kozarac (dove prima della guerra vivevano oltre ventimila persone) o della Lieva Obala (la riva sinistra del fiume Sana, completamente rasa al suolo), nei dintorni di Prijedor. Immagini che non dimenticherò per il resto dei miei giorni. Ma se una persona oggi si trova a passare di lì vedrà tutto o quasi ricostruito, perché la voglia di vivere e le radici tendono comunque ad avere il sopravvento. Tanto che, avviata la ricostruzione, proposi di conservare simbolicamente qualche segno di quella distruzione per evitare che qualcuno prima o poi potesse dire che non era successo niente. Ci sono i filmati, ma le immagini virtuali sono un’altra cosa. Così, a fronte di chi ha avuto la sfrontatezza – non solo fra i serbi – di negare l’esistenza stessa dei campi della pulizia etnica, è bene – com’è stato chiesto il 6 agosto scorso – che almeno una parte di quella miniera, oggi di proprietà di una multinazionale con sede nelle Antille olandesi, diventi luogo della memoria.
Ma per elaborare i conflitti, caro Vulliamy, non bastano i monumenti. Il giornalista dell’Observer descrive Prijedor come la città che aveva conosciuto dodici anni fa, la città maledetta in preda al delirio nazionalista ma soprattutto ad una banda di affaristi-assassini che dietro il paravento etnico nascondevano il disegno di potere di una nomenclatura che intendeva succedere a se stessa e di una mafia che ben comprese fin dal primo momento che la transizione poteva avere la faccia della pulizia etnica, della deregolazione estrema e del business. Una città che pure fino a pochi giorni prima dei tragici giorni dell’aprile 92 manifestava in piazza per la pace (nella foto, il concerto per la pace nella piazza centrale di Prijedor prima della guerra, la stessa che nei giorni scorsi ha ospitato un altro concerto per la pace per iniziativa della comunità trentina). Poi l’incubo, le famiglie che si spezzano, la paura che diviene aggressività, quelli che non ne vogliono sapere (e che ne hanno la possibilità) che se ne vanno. Prijedor, che diviene il simbolo del nazionalismo e della pulizia etnica. Ma oggi Prijedor è un’altra città. Non che sia scomparsa la mafia o che non vi siano criminali in libertà, non che il complesso processo di elaborazione di quanto è accaduto in quella città negli anni ’90 sia diventato patrimonio comune. No. Ma Prijedor oggi, pur con tutte le sue contraddizioni, è un’altra città.
Perché Vulliamy non s’interroga su come sia stato possibile che Prijedor sia diventata la città del ritorno? Perché non chiedersi come mai la ricostruzione dei luoghi di culto rasi al suolo sia avvenuta qui prima che altrove e senza incontrare quelle stesse difficoltà che a Banja Luka avevano portato all’assedio dei profughi rientrati nell’occasione della posa della prima pietra della storica moschea Ferhadija? Com’è che Prijedor, nonostante la sua tragica vicenda degli anni ’90, è diventata città al centro delle reti europee della pace? Perché infine Ed Vulliamy, giornalista così attento e verso il quale la comunità internazionale ha un grande debito di riconoscenza, non si accorge che fra le poche decine di persone presenti alla commemorazione delle vittime di Omarska, c’è un folto gruppo di italiani invitati dalla comunità bosniaco mussulmana a condividere in quel luogo il loro dolore?
Vuillamy forse non sa che in questi anni qualcuno ha deciso di andare nella tana del lupo a lavorare perché questa città cambiasse, perché ai personaggi più compromessi con la guerra e la pulizia etnica venisse meno il retroterra di consenso che ancor oggi, in altre zone della Republika Srpska, criminali come Karadzic e Mladic continuano a mantenere, perché il ritorno potesse avvenire e perché a questo potesse seguire un costoso lavoro di riconciliazione.
Questo è stato il senso della presenza della comunità trentina a Prijedor: la cosa bella è che questo ruolo ci è riconosciuto tanto dalla comunità serba che da quella bosniaco mussulmana. Sì, è vero, la comunità di Prijedor deve riconoscere ciò che è accaduto a Omarska, Trnopolje, Keraterm. Ma non per imposizione internazionale, tant’è che il processo di catarsi della Germania nazista non inizia certo – come ci ha testimoniato Hannah Arendt – nell’ipocrisia di Norimberga. Così come, del resto, non erano servite le migliaia di monumenti in ricordo della resistenza partigiana al nazifascismo che disseminavano la vecchia Jugoslavia, perché l’elaborazione del conflitto non avviene per decreto o per imposizione di qualcuno, sia esso un governo centrale oppure una comunità internazionale, peraltro così distratta ed ipocrita da pensare che una liberazione possa avvenire con l’uranio impoverito.
Quello dell’elaborazione del conflitto, e più ancora quello del perdono e della riconciliazione, sono processi lunghi e che non s’improvvisano, richiedono di essere accompagnati e dunque un rapporto di conoscenza e di fiducia, richiedono soprattutto pazienza e sensibilità per trovare i punti in comune delle diverse narrazioni. Richiedono certamente che i luoghi della memoria non scompaiano e vengano riconosciuti. Tanto che il Forum civico di Prijedor, luogo d’incontro fra persone di ogni nazionalità nato un anno e mezzo fa proprio attorno al tema dell’elaborazione del conflitto, riunitosi proprio nel pomeriggio del 6 agosto scorso, ha discusso della possibilità di un gesto simbolico da compiere insieme, serbi e bosniaco mussulmani, là dove un tempo c’era il campo di Omarska.
I serbi di Prijedor non sono pazzi. Sono donne e uomini normalissimi che, come già avvenne nei villaggi intorno ad Auschwitz, negano o dicono di non aver saputo, scelgono la falsa coscienza che gli permette di guardarsi allo specchio senza vergognarsi, comoda compagna di viaggio che ti giustifica ed assolve. Ma questo non riguarda solo la comunità serba. Forse che le nostre civilissime nazioni hanno elaborato i loro di eccidi? La conquista dell’America e la tratta degli schiavi, il colonialismo (anche quello italiano), le deportazioni e i gulag nell’Unione Sovietica, le guerre moderne del petrolio o dei diamanti? E le nostre società, quanto sono capaci di elaborare i loro conflitti?
E poi ci sono persone di nazionalità serba che hanno aiutato i perseguitati a nascondersi o che hanno detto no e per questo sono state considerate alla stregua di traditori, hanno dovuto andarsene. Certo, la rimozione è una forma di autismo. Ma proprio per questo i serbi di Prijedor vanno aiutati a comprendere ciò che è accaduto, così come lo devono fare altrove i croati o i bosniaci. E tutti insieme per lavorare sulla memoria, affinché non vi siano diverse storie raccontate ai propri figli e nipoti. Perché se sarà così, con i monumenti magari difesi dalle armi della comunità internazionale come sembra suggerire Vulliamy, non ci sarà davvero nessuna pace.
Quanto alla miniera di Omarska, questa è destinata a riconfermarsi come luogo della modernità. Dopo il campo che procurò ai suoi ideatori la spogliazione dei beni degli internati, oggi è diventata oggetto di privatizzazione (a costo zero) a favore di quegli stessi pirati che sulla deregolazione costruiscono i loro sporchi affari. L’elaborazione del conflitto è qualcosa di ben diverso dall’affidarsi a costoro per conservare la memoria.
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