L’attentato di Istanbul e l’asse Mosca-Yerevan
Turchia, Russia e Armenia sono legate da un sistema di alleanze e tensioni con conseguenze non sempre prevedibili e arginabili
Un orizzonte sempre più rabbuiato da nubi di tempesta. In questo contesto di continua esacerbazione di conflitti e tensioni regionali, ogni evento tanto disvela il deterioramento dei rapporti fra stati, quanto vi contribuisce. Così può essere interpretata anche la ricaduta in termini diplomatici dell’attentato del 12 gennaio di Istanbul e dell’indagine che ne segue.
Nella mattina del 12 gennaio 2016, stando alla ricostruzione degli inquirenti, Nabil Fadli, incensurato, cittadino siriano nato in Arabia Saudita nel 1988, viene notato dalla guida di un gruppo di tedeschi azionare un ordigno attraverso una spoletta che esce dalla giacca. La guida fa in tempo a urlare di scappare, poiché l’ordigno non esplode immediatamente ma 4 secondi dopo permettendo a qualcuno di salvarsi fra l’innesco e l’esplosione. Undici persone rimangono uccise, quindici rimangono ferite. Le successive indagini ricollegano Nabil Fadli allo Stato Islamico.
Nelle ore successive all’attentato cominciano gli arresti. Nel primo gruppo di arrestati compaiono i nomi di tre cittadini russi.
Mosca-Ankara: sempre più difficile
La partnership turco-russa, una collaborazione pragmatica, funzionale e strategica, si è incrinata e per il momento pare essersi inabissata nelle acque tormentate del conflitto in Siria. Opposte le visioni sul futuro del governo siriano in carica e di conseguenza le alleanze sul terreno. Una questione che trascende la mera analisi politica e diplomatica e si concretizza operativamente con sostegno militare alle opposte fazioni.
E’ con l’inizio dei bombardamenti russi contro varie forze anti-governative siriane nel settembre 2015 che si apre una campagna di dispiegamento militare palese che ingenera un acuirsi della tensione con Ankara. Il 24 novembre un jet russo SU-24 viene abbattuto dalla Turchia. La dinamica dell’incidente viene ricostruita in modo differente dalle due parti e la conseguenza diretta è la decisione unilaterale russa di instaurare un regime di sanzioni contro Ankara e di sospendere l’accordo sui visti turistici risalente al 2012, uno degli strumenti che aveva facilitato l’afflusso di turisti russi sulle spiagge turche, ora scoraggiato dallo stesso presidente russo.
A un anno di distanza dall’attentato perpetrato da una cittadina russa sempre a Sultanahmet (contro un commissariato, 6 gennaio 2015, 1 morto, l’attentatrice kamikaze si chiamava Diana Ramazova, era daghestana) altri cittadini russi si trovano coinvolti in un attentato. Matrice wahabita l’anno scorso, affiliazione all’Isis quest’anno. Infatti già il 13 gennaio la polizia di Antalya arrestava Ajdar Sulejmanov, Ruslan Khajbullov e Kamaludin Babaev come fiancheggiatori dell’attentatore. Cauta da subito la reazione del console onorario di Antalya Aleksanr Tolstopjatenko sulle motivazioni dell’arresto e sull’eventuale ruolo che le autorità diplomatiche russe avrebbero svolto. Ruolo peraltro non richiesto dai presunti attentatori che hanno rifiutato il sostegno diplomatico della Federazione Russa.
Sulejmanov aveva lasciato il Tatarstan di cui era originario nel 2003 e avrebbe operato attivamente per contribuire a far confluire nuovi adepti all’Isis: per questo secondo il protocollo 2015/397 del ministero degli Interni del Tatarstan, era ricercato per attività terroristiche . La Russia fa sapere che non solo era al corrente dell’attività terroristica dei tre, ma che il mandato di cattura internazionale era stato già esteso all’Interpol. E lamenta scarsa collaborazione e prevenzione da parte delle autorità turche.
Yerevan-Ankara: sempre più impossibile
Nonostante le relazioni tesissime, da Mosca sono arrivate le immancabili condoglianze, oltre che la condanna, per l’attentato del 12 gennaio. Questa volta invece, a differenza di quanto accaduto per gli attentati in Turchia nel 2015, le condoglianze da Yerevan non sono arrivate. Un fatto che certo non è passato inosservato.
La Turchia e l’Armenia non hanno ufficialmente rapporti diplomatici e hanno il confine di terra chiuso dal 1993, a causa del conflitto del Nagorno-Karabakh. Voli aerei diretti sono stati ripristinati, in tempi migliori, come in tempi migliori si erano ipotizzate una riapertura del confine terrestre e l’instaurazione di normali rapporti di vicinato.
Invece, in linea con il deterioramento del quadro regionale, anche la crisi turca-armena conosce una nuova recrudescenza in questo periodo. Al punto che la stampa armena denuncia una strumentalizzazione da parte della stampa turca, e più precisamente di HaberTürk che avrebbe insinuato una discendenza armena – da parte di madre – dell’attentatore di Sultanahmet, generalmente indicato invece come appartenente a una famiglia turcomanna. L’Armenia inoltre è stato l’unico paese a schierarsi apertamente con la Russia in occasione dell’abbattimento del jet militare SU-24 a novembre.
Le relazioni con Ankara risentono pesantemente non solo del legame a doppio filo con la Russia dell’Armenia, ma anche di tutti i nodi che negli anni non sono stati sciolti e che anzi, in questa congiuntura di esacerbata tensione, vengono al pettine. Una è l’irrisolta questione del genocidio, la cui ombra si declina secondo varie circostanze e contesti e si estende fino alle attuali operazioni in Siria: sull’onda di quanto dichiarato dalla portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, si rimarca come la Turchia attraverso il sostegno e al re-insediamento dei turcomanni nel nord della Siria possa cambiare la combinazione etnica dell’area. Un’area in cui si concentra anche una minoranza armena.
L’altro nodo irrisolto – e che pare sempre più irrisolvibile – è il conflitto in e per il Nagorno Karabakh. Il regime di cessate il fuoco ha perso efficacia dall’inizio di questa decade, ed attualmente si parla di guerra, per descrivere quello che accade sul terreno. Almeno in questi termini si sono recentemente espressi i vertici militari armeni. Il bilancio solo della settimana che coincide con l’attentato a Istanbul sarebbe di 3 morti: 2 soldati azeri (notizia non confermata) e di almeno un soldato del Nagorno-Karabakh.
Mentre si spara lungo il confine, aumenta la presenza militare russa nella base militare 102 di Gyumri in Armenia. Oltre all’arrivo di nuovi elicotteri da combattimento e trasporto, sarebbe anche stato consegnato un numero imprecisato di droni modello avanzato Tachjon. Ma è soprattutto contro il nuovo accordo militare russo-armeno del dicembre 2015 che la Turchia ha preso posizione, sostenendo che accresce invece di diminuire la tensione regionale. L’accordo porterà alla creazione di un sistema integrato russo-armeno di difesa aerea ed è stato per alcuni interpretato come una conseguenza della crisi del SU-24 di novembre. Ed in effetti la data della comunicazione della prossima firma tenderebbe a confermare questa ipotesi, visto che segue di un paio di giorni l’abbattimento.
D’altro canto la situazione si è infiammata su più di un fronte, per cui un rafforzamento militare non può essere ricondotto a un solo scenario o a un solo episodio, per quanto grave. Sempre a distanza di poche ore dall’abbattimento del SU24, il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu dichiarava che “la Turchia farà tutto il possibile per liberare i territori occupati dell’Azerbaijan ”.
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