L’Armenia, tra Ankara e Baku
Il dibattito in Armenia sui rischi di un nuovo conflitto con l’Azerbaijan. I fattori interni e lo scenario regionale, il processo diplomatico in corso con la Turchia. Intervista a Richard Giragosian
Richard Giragosian è direttore del Centro armeno per gli studi nazionali e internazionali (ACNIS) di Yerevan
Come è stato accolto in Armenia il rapporto dell’International Crisis Group sul rischio di una guerra in Nagorno Karabakh?
Molto negativamente. Forse questo è una conferma del fatto che il rapporto ha raggiunto il suo scopo, quello di presentare in maniera obiettiva il pericolo di una prossima guerra.
Perché oggi il pericolo di un conflitto tra Armenia e Azerbaijan è più attuale? C’è il rischio che la guerra possa cominciare per caso?
Sì. Io non vedo la reale possibilità di una dichiarazione di guerra ufficiale, sono però molto preoccupato dalla possibilità che una guerra cominci per errore, sulla base di percezioni sbagliate o reazioni incontrollate da entrambe le parti. L’Azerbaijan sta utilizzando la carta militare per esercitare pressione sul piano politico e diplomatico, il che significa che non sta seguendo una logica militare, e questo è pericoloso. Inoltre per la prima volta da anni l’Azerbaijan sta acquistando in maniera significativa armamenti offensivi, e ha aumentato il numero di attacchi sulla linea di contatto.
Cosa si può fare per impedire una nuova guerra?
Molti di noi lavorano per far diminuire la tensione, per cercare di ricostruire un sentimento se non di fiducia almeno di prevedibilità. Anche l’Unione europea e l’Osce si adoperano in questo senso. Dopo la guerra in Georgia, il messaggio all’Azerbaijan è che non ci sono soluzioni militari per queste che sono questioni essenzialmente politiche. Bisogna però anche cercare di far diminuire la tensione sul campo, gli armeni ad esempio dovrebbero prendere in considerazione il ritiro dei cecchini e di altre unità militari. Bisogna in generale cercare di rafforzare il cessate il fuoco in vigore.
Le Nazioni Unite e l’Osce hanno chiesto di interrompere le forniture di armamenti alle parti. Questa richiesta viene rispettata?
Si tratta di una richiesta di moratoria sulla vendita di armi alle parti, non vincolante. L’Azerbaijan ha appena ricevuto 200 milioni di dollari di nuove armi da parte di Pakistan, Israele e Bosnia Erzegovina, in aggiunta all’equipaggiamento militare standard fornito dalla Bielorussia e dall’Ucraina.
Qual è oggi l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica armena sulla questione del Nagorno Karabakh?
Non registriamo più una retorica particolarmente aggressiva, ma questo avviene perché la maggior parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche ormai concorda sul fatto che il Nagorno Karabakh non debba più tornare all’Azerbaijan. La questione dello status o del futuro del Nagorno Karabakh non è più un fattore così dibattuto in Armenia. La controversia riguarda il futuro dei territori azeri occupati. In generale, la gente segue con più attenzione il processo diplomatico armeno-turco, che viene considerato più realistico e potenzialmente foriero di benefici per gli armeni.
Il primo marzo c’è stata una grande manifestazione a Yerevan. L’opposizione chiede il rilascio di prigionieri politici e un’inchiesta sui sanguinosi fatti di tre anni fa. Il presidente Sargsyan è sufficientemente forte per condurre negoziati di pace con l’Azerbaijan, o la pace è un rischio per l’attuale governo?
Al momento è un rischio troppo grande. Ma è interessante notare che il presidente armeno non è in una condizione di debolezza sul Nagorno Karabakh per i fattori interni. La sua debolezza deriva proprio dal processo diplomatico armeno-turco. La mancanza di progressi nel dialogo con Ankara ha infatti rafforzato le posizioni più intransigenti e nazionaliste in Armenia, che fanno pressione perché non si facciano compromessi simili con l’Azerbaijan.
A più di un anno dalla firma dei protocolli turco-armeni, mai ratificati dai rispettivi parlamenti, qual è lo stato dei rapporti con Ankara?
Sono molto coinvolto nel dialogo diplomatico tra Turchia e Armenia. La fase dei protocolli è superata. In questo momento stiamo lavorando sulla attuazione dei termini previsti dai protocolli, senza che questi vengano ratificati. I protocolli sono diventati troppo pericolosi politicamente.
Sia nel parlamento di Ankara che in quello di Yerevan?
Sì. La Turchia attende le elezioni di giugno prima di tornare ai negoziati. Nel frattempo la sensazione di tradimento che l’Azerbaijan nutre nei confronti della Turchia [per aver avviato un dialogo con l’Armenia, ndr] rappresenta un fattore di tensione.
Eventuali cambiamenti nella scena politica armena potrebbero favorirebbe i negoziati sul Nagorno Karabakh?
Da un punto di vista interno, paradossalmente, anche se Ter-Petrosyan per ipotesi tornasse al potere sarebbe più debole e meno incline a negoziare sul Nagorno Karabakh di quanto non lo sia Sargsyan.
Perché?
Sargsyan ha cercato e sta cercando mezzi per rafforzare la propria legittimità. Ecco perché è stato così audace in politica estera e si è assunto dei rischi nel dialogo con la Turchia. Se Ter-Petrosyan tornasse al potere, invece, credo che sarebbe soggetto alle stesse accuse che lo avevano perseguitato quando era presidente, quelle di essere troppo morbido. Potrebbe quindi adottare una posizione ancora più intransigente.
Come valuta il ruolo della Russia come mediatore in questo conflitto?
Questa è la domanda chiave. Dopo la guerra in Georgia, la Russia sta lavorando a più stretto contatto con l’Occidente, all’interno del gruppo di Minsk, e ha anche assunto l’iniziativa in una serie di incontri di mediazione tra i presidenti armeno e azero [l’ultimo il 5 marzo scorso a Sochi, ndr]. C’è inoltre un trend positivo in termini di rapporti russo-americani nella regione. La presidenza Obama cerca di ridefinire le relazioni con la Russia, usando la regione del Caucaso del Sud come arena per la cooperazione, non per la competizione. La Russia potrebbe però sfruttare il pericolo di una nuova guerra per acquisire l’elemento che le manca in Nagorno Karabakh, i peacekeepers.
Gli sforzi della Russia ad oggi non sembrano aver prodotto risultati positivi, se consideriamo ad esempio le conclusioni del vertice OSCE di Astana…
Dobbiamo considerare che il solo fatto che i presidenti armeno e azero si incontrino è importante. Il gruppo di Minsk, Russia compresa, sta lavorando duramente per tenere l’Azerbaijan al tavolo delle trattative. In un certo senso siamo tornati al minimo comun denominatore della diplomazia. Non penso che in questo momento ci possano essere progressi sostanziali, perché le parti sono ancora troppo lontane e non c’è la volontà politica di prendere la difficile decisione di fare dei compromessi.
L’Unione europea potrebbe svolgere un ruolo più incisivo in questa crisi?
Può, e dovrebbe. Le ultime decisioni assunte da Bruxelles però, da parte della signora Ashton, sfortunatamente sono state un passo nella direzione sbagliata. L’UE ha deciso di porre termine al mandato del suo Rappresentante Speciale per il Caucaso. Questa mossa ha mandato il messaggio sbagliato ai leader della regione, che l’hanno letta come un affronto o un segnale di irrilevanza strategica [dell’area].
In questi giorni diverse rivolte stanno attraversando il mondo arabo e il Medio Oriente. Questi eventi potrebbero contagiare anche il Caucaso meridionale?
L’Iran è un vicino sia dell’Armenia che dell’Azerbaijan, e le ondate di scontento stanno già raggiungendo i confini di questi Paesi. È importante il messaggio che arriva alle leadership armena e azera, cioè che è molto pericoloso ignorare le richieste popolari di riforma e cambiamento. Tra i due Paesi, penso che sia il governo dell’Azerbaijan ad assomigliare di più all’Egitto di Mubarak, in quanto sistema politico ed economico molto chiuso, con il potere che viene trasferito di padre in figlio, e per la corruzione alimentata dal petrolio. Ma in generale credo che le diverse leadership e i governi della regione siano molto preoccupati, e stiano cercando di prevenire o anticipare disordini.
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