L’Armenia del genocidio cent’anni dopo
In un paese la cui economia è in grave crisi la questione politica principale rimane sempre quella della sicurezza rispetto ai vicini azeri. Viaggio in Armenia di un funzionario europeo. Reportage
Lo skyline di Yerevan è cambiato. Mi ero abituato negli ultimi anni alla selva di gru meccaniche che sovrastavano i quartieri del centro, indice di una frenetica attività edilizia che stava ridisegnando il volto della città. Cantieri aperti nella capitale e cantieri aperti in Armenia, si diceva, a testimonianza di un boom economico che avrebbe dovuto proiettare il paese verso la prosperità economica e la stabilità politica. Poi, improvviso, il ritorno alla cruda realtà. Le gru non occupano più il cielo della capitale; i cantieri nel centro si contano sulle dita di una mano; ponteggi ed impalcature sono un lontano ricordo.
Il boom è finito mentre il paese riprende inesorabilmente la via del declino. La crisi del rublo, inoltre, vittima delle sanzioni europee alla Russia, ha ulteriormente aggravato la situazione mettendo a nudo la mancanza di prospettive durevoli di sviluppo. In fin dei conti, però, ciò che serve all’Armenia è sopravvivere dato che le considerazioni pertinenti alla sicurezza continuano a rappresentare la priorità assoluta e, almeno da questo punto di vista, il paese è in buone mani. O pensa di esserlo. O, forse, ha fatto l’unica scelta possibile. O, ancora peggio, ha subito la scelta.
Era il settembre del 2013 quando il presidente Serzh Sargsyan annunciava ufficialmente che non avrebbe sottoscritto l’accordo di associazione con l’Unione europea, la cui cerimonia di sigla era prevista al vertice di Vilnius dei paesi del Partenariato Orientale nel novembre dello stesso anno.
Nessuno fra i tecnocrati di Bruxelles si aspettava un voltafaccia del genere. I negoziati erano durati tre anni e mezzo e tutto sembrava filare liscio in vista dell’appuntamento nella capitale lituana. Io stesso nelle mie precedenti visite avevo registrato un crescente interesse, soprattutto nel mondo universitario e della società civile, nei confronti di un approfondimento graduale delle relazioni fra Unione europea ed Armenia.
I rappresentanti del governo di Yerevan in visita nella capitale belga non perdevano l’occasione di ribadire con insistenza la volontà di percorrere il cammino di integrazione concordato con le autorità europee. Poi, improvviso, il grande rifiuto, inaspettato, gelido, tranciante, all’ombra di un conflitto, quello del Nagono Karabakh, che ha marchiato indelebilmente la storia dell’Armenia dalla recente indipendenza e che continuerà a determinarne le sorti future.
È un dato di fatto che il decollo del progetto europeo di Partenariato Orientale ha spinto i paesi interessati ad una scelta di campo esacerbando le frizioni fra Unione europea e Federazione russa. Georgia, Moldova e Ucraina hanno optato per Bruxelles, Bielorussia ed Armenia per Mosca mentre l’Azerbaijan si barcamena fra i due blocchi a seconda della convenienza politica del momento.
La scelta europea dei primi tre paesi, però, ha comportato un prezzo da pagare. Il conto, salato, è arrivato a Tbilisi, Chisinau e Kiev dalla capitale russa e ha determinato la perdita di una parte di sovranità territoriale. Abkhazia, Ossezia Meridionale, Transnistria e Donbass sono il pedaggio pagato alla Russia per sganciarsi dalla sua orbita. Lo stesso sarebbe verosimilmente accaduto all’Armenia che oggi, grazie alla complicità russa, occupa il 20% del territorio dell’Azerbaijan.
Messo spalle al muro, quando si è trattato di decidere fra sicurezza con salvaguardia della conquista territoriale ed Europa, Sargsyan ha scelto la prima riconsegnando le chiavi del paese a Mosca. Restano tre anni e mezzo di manfrine ed un accordo di carta straccia utile solo per gli archivi, le cronache e le tesi di laurea degli studenti di Scienze Politiche.
Ricucire i rapporti con l’Unione europea
Dal primo gennaio di quest’anno l’Armenia è entrata a far parte dell’Unione Economica Euroasiatica con Russia, Bielorussia e Kazakistan. Dopo lo sgarbo di Vilnius, però, Yerevan ha ricucito le relazioni con l’Unione europea rendendosi disponibile a altre forme di cooperazione purché compatibili con il nuovo quadro geopolitico. Negli ultimi mesi l’ambasciatore armeno a Bruxelles si è dato un gran da fare in parlamento europeo per minimizzare l’incidente di percorso e riportare il suo paese al centro dell’attenzione.
Non passa giorno senza vederlo correre senza sosta da un ufficio all’altro per convincere gli eurodeputati che l’adesione all’altro blocco è più di facciata che di sostanza e che comunque l’Armenia continuerà il percorso di riforme politiche concordato a suo tempo con i vertici europei. “Democrazia, stato di diritto e diritti umani”, continua a ripetere, “rimangono punti fermi del governo armeno indipendentemente da quello che decidono e fanno gli altri paesi dell’Unione Euroasiatica” sottolinea quasi smarcandosi dalla scomoda compagnia. E per quanto riguarda gli aspetti economici spiega che le condizioni negoziate sono particolarmente vantaggiose con deroghe e norme transitorie che favoriranno i prodotti armeni sul mercato russo.
In poche parole l’improvviso cambiamento di rotta secondo l’ambasciatore era nell’ordine delle cose. Già, ma perché non dirlo subito evitando il pasticcio diplomatico? Ha prevalso la ragion di stato che ha fatto piazza pulita di qualsiasi altra considerazione. La diaspora armena in Europa, intanto, ha ripreso forza facendo pressione su Commissione europea e Consiglio perché Armenia e UE ritornino al tavolo negoziale per discutere di un nuovo accordo, meno ambizioso del precedente, che consenta alle parti di sviluppare le relazioni in campo politico e sociale, di ricerca, istruzione e di mobilità escludendo economia e commercio le cui competenze, per quando riguarda Yerevan, appartengono ormai all’Unione Economica Euroasiatica.
La crisi ucraina
Non è certo un esempio di coerenza nei confronti di paesi che fanno parte dello stesso progetto. L’imbarazzo dell’Armenia in questo contesto, di fatto paese occupante, è evidente. Nel discorso di apertura dell’Assemblea Parlamentare dei paesi del Partenariato Orientale che si tiene a Yerevan il ministro degli Esteri Eduard Nalbandyan sembra arrampicarsi sugli specchi quando affronta la questione ucraina. “Spero che l’accordo di Minsk 2 possa fare da battistrada ad una soluzione globale del conflitto”, afferma, “ma non si possono applicare gli stessi standard a tutti i conflitti congelati”. L’Ucraina ha provocato un corto circuito fra Bruxelles e Mosca ma ha messo anche a nudo le contraddizioni della politica estera europea ed evidenziato la debolezza della posizione armena. L’Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione Federica Mogherini non perde occasione per ribadire il sostegno europeo all’integrità territoriale di Ucraina, Georgia e Moldova ma glissa o tace sull’integrità territoriale dell’Azerbaijan.
È il leit motiv della politica estera armena quello di pretendere che ogni guerra dimenticata nelle ex repubbliche sovietiche del vecchio continente faccia storia a sé rappresentando qualcosa di unico. È la giustificazione dei due pesi e delle due misure, comoda in questa occasione sia per la diplomazia di Bruxelles che per quella di Yerevan. Con buona pace del diritto internazionale e della credibilità della politica estera europea.
Invocando la soluzione pacifica del conflitto Nalbandyan finisce, poi, inevitabilmente con l’attaccare il nemico azero colpevole, a suo dire, di mettere i bastoni fra le ruote ai mediatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa. “L’Azerbaijan deve cessare gli attacchi contro i civili lungo la linea di contatto”, insiste rivolgendosi alla platea, “è ormai chiaro a tutti chi non vuole la pace”.
L’ultima parte dell’intervento del ministro è dedicata al genocidio armeno di cui ricorre in questi giorni il centenario. “Il riconoscimento e la condanna del genocidio sono un fattore chiave per la prevenzione di nuovi genocidi”, spiega Nalbandyan rivolgendo un ulteriore invito alla Turchia perché riconosca i misfatti dell’impero ottomano e riapra le frontiere con l’Armenia chiuse da più di vent’anni.
Commemorazioni
Yerevan ha giustamente investito enormi risorse per le cerimonie di commemorazione del centenario del genocidio armeno. Fu una tragedia storica di proporzioni immani quella che portò allo sterminio di un milione e mezzo di armeni che vivevano pacificamente integrati nella società ottomana di inizio Novecento. Il “Medz Yeghern”, il temine originale con cui viene chiamato il genocidio, è diventato ormai l’elemento caratterizzante dell’identità del popolo armeno in larga parte esiliato e sparso da allora in tutti i paesi del globo. Ed è proprio grazie alla diaspora se oggi molti stati hanno riconosciuto l’olocausto armeno o si apprestano a farlo per onorare la memoria di tante vittime innocenti.
Mi trovavo a Yerevan anche dieci anni fa durante i giorni in cui si commemorava il novantesimo anniversario. Ricordo la ressa di ambasciatori, politici e rappresentanti di governo che si alternavano sul podio della sala principale dell’hotel Marriot coordinati dall’allora onnipotente ministro degli Esteri Oskanian, oggi caduto in disgrazia. Anche allora ci fu la consueta visita al memoriale sulla cima della collina di Tsitsernakaberd che sovrasta la capitale.
Mentre ci incamminiamo lungo la spianata che conduce al monumento la guida che ci accompagna descrive gli avvenimenti che portarono al massacro della popolazione armena da parte degli ottomani il cui impero si avviava al tramonto.
Una parete lunga cento metri ricorda da un lato i nomi delle località e delle città nelle quali si verificarono i principali eccidi e le deportazioni mentre dall’altro sono apposte placche di marmo per onorare una ad una le personalità che in tutti i paesi si batterono all’epoca per fermare le stragi e portare soccorso alle vittime. La grande stele alta 44 metri si erge a simbolo della rinascita della nazione armena dopo la decimazione, mentre le lastre di pietra inclinate che delimitano in cerchio la fiamma perenne rappresentano le 12 province dell’Armenia storica che oggi si trovano in territorio turco.
Il cielo sopra di noi è gonfio di nubi che fortunatamente trattengono la pioggia mentre due soldati precedono la nostra delegazione a passo d’oca portando una ghirlanda di fiori da deporre davanti al monumento. In basso si intravedono le strade di Yerevan intasate dal traffico che scorre davanti ai nostri occhi nel silenzio come un film muto.
Le commemorazioni servono a ricordare ma in questo caso, sostengono opportunamente gli armeni, anche a prevenire nuovi genocidi. Fu proprio la mancanza di percezione e consapevolezza per lungo tempo del genocidio armeno, affermano alcuni storici, che portò agli stermini successivi del ventesimo secolo incluso l’olocausto. Ancora oggi, però, la questione del riconoscimento di questo genocidio è fortemente osteggiata da alcuni paesi che ne mettono in discussione la ricostruzione storica o ne relativizzano il contesto.
Sperimento nel mio piccolo la controversia durante i lavori dell’assemblea parlamentare quando la delegazione ucraina si rifiuta di appoggiare una risoluzione commemorativa se al riconoscimento del genocidio armeno non si aggiunge anche l’Holodomor, il termine con cui gli ucraini ricordano la tragica morte di sette milioni di connazionali durante il periodo staliniano a causa della carestia provocata artificiosamente dal dittatore sovietico per soffocare la resistenza della popolazione al suo pugno di ferro. Punti di vista si accavallano con argomenti di scontro mentre la politica si intreccia con la storia e la storia viene reinterpretata dalla politica su un’altalena di verità di comodo, negazioni ostinate e opportunismi sfacciati. Sullo sfondo, però, c’è la ruggine che affligge le relazioni fra Ucraina e Armenia, rea quest’ultima di non avere sostenuto alle Nazioni Unite la risoluzione di condanna dell’aggressione russa nel Donbass. Anche i genocidi, a volte, possono diventare merce di scambio.
La voce della società civile
Quando si discute di genocidio armeno il convitato di pietra è come sempre la Turchia. Sono in molti in Europa, in particolare i movimenti di estrema destra, che utilizzano provocatoriamente, ogniqualvolta possibile, la tragedia del popolo armeno in funzione anti-turca. Le autorità di Ankara, peraltro, ad eccezione di qualche sporadica occasione, rispondono in modo isterico alle richieste di riconoscimento della comunità internazionale negando l’evidenza dei fatti o cercando di ribaltare in modo grossolano le vicende storiche.
Richard Giragosian, autorevole esponente della società civile armena, ritiene che un primo passo sulla strada della riconciliazione delle parti sarebbe la normalizzazione dei rapporti fra Ankara e Yerevan con la conseguente riapertura delle frontiere e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche. La Turchia, però, continua a sottrarsi agli impegni sottoscritti con l’Armenia dopo lo storico incontro fra i presidenti dei due paesi che ebbe luogo nella capitale della repubblica caucasica nel settembre 2008.
“La ricomposizione della frattura”, osserva Giragosian, “sarebbe nell’interesse anche di Ankara”, sottolineando come la prolungata chiusura del confine si ripercuota negativamente sulla situazione economica delle regioni nord-orientali della Turchia. Ma Giragosian non si limita nel suo intervento a parlare delle relazioni con il paese vicino e a proposito di quelle con l’Unione Europea rivolge un appello accorato affinché vengano salvaguardate e rilanciate con rinnovate prospettive ed opportunità.
“Il prossimo vertice del Partenariato Orientale di Riga che si tiene a maggio”, fa presente, “deve diventare per l’Armenia il nuovo punto di partenza delle relazioni con l’Europa”, lamentandosi della scarsa trasparenza con cui il suo paese ha deciso di aderire all’Unione Economica Euroasiatica. “L’Armenia ha bisogno di una democrazia sostenibile e durevole”, continua, “in una situazione come quella odierna dove la politica è definita più dalle personalità dei contendenti che dai programmi occorre rafforzare le istituzioni più che i leader politici”. E non risparmiando critiche al suo governo Richard osserva come lo stato di diritto sia stato manipolato nella legge di chi comanda.
Da ultimo Giragosian si sofferma sul muro contro muro in corso fra Russia ed Unione Europea. “In questo contesto”, descrive con lucida analisi, “l’Armenia rischia di trovarsi dalla parte sbagliata della storia a causa delle nuova cortina di ferro”. E nei confronti dei tradizionali alleati conclude “l’Armenia tende a sottovalutare la sua importanza per la Russia mentre la Russia sovrastima il suo valore nelle relazioni con l’Armenia”, augurandosi implicitamente un riaggiustamento di direzione nella politica estera del suo paese.
La posizione del presidente Sargsyan
Di parere radicalmente opposto è, come ovvio, il presidente Serzh Sargsyan che rivolgendosi ai presenti dà un’immagine completamente diversa della giovane repubblica. “L’Armenia è un paese dove i cittadini possono esprimersi liberamente ed i media operano in piena libertà”, dichiara dal podio sottolineando come la riforma in corso della costituzione migliorerà lo stato di diritto e proteggerà ulteriormente i diritti fondamentali. “Buon governo e lotta alla corruzione sono capisaldi dell’azione di governo”, continua, “mentre cerchiamo di trovare un terreno comune con la società civile per arrivare ad un approccio congiunto”, aggiunge smentendo le lamentele insistenti delle organizzazioni non governative.
Per quanto riguarda la situazione geopolitica il capo di stato si limita ad annunciare nuovi sforzi per trovare uno spazio intermedio di compatibilità fra Unione Euroasiatica e Unione europea. L’ultima parte del breve discorso non può non essere dedicata al genocidio che, a suo avviso, dimostra come la comunità internazionale non abbia saputo imparare la lezione della storia, e agli acerrimi nemici azeri accusati di atteggiamenti distruttivi e massimalisti. “Non voglio rispondere alla provocazioni di Baku”, conclude ribadendo la ferma convinzione che non c’è alternativa ad una soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh.
Nonostante i recenti screzi diplomatici fra Ankara e la Santa Sede sbaglia chi pensa che sia la Turchia il principale oppositore del riconoscimento del dramma storico del popolo armeno. Erdoğan e Davutoğlu, gli attuali presidente e primo ministro turco, l’anno scorso, rompendo il consolidato silenzio del loro paese su questo tema, avevano pubblicamente offerto le condoglianze alle vittime della tragedia armena senza però utilizzare il termine genocidio così come hanno fatto in svariate occasioni altri politici, personalità ed intellettuali turchi. I più ostinati negazionisti si trovano oggi a Baku dove si levano continuamente accuse nei confronti di Yerevan di falsificazione e reinterpretazione della storia a fini politici.
Armenia e Azerbaijan
Dal campo di battaglia lo scontro fra Armenia e Azerbaijan si è trasferito su quello della propaganda. Per la diplomazia azera il timore è che Yerevan possa sfruttare la solidarietà internazionale derivante dalla commemorazione del genocidio per rafforzare e giustificare la conquista del Nagorno Karabakh e l’occupazione delle province circostanti. Durante quella guerra a cavallo degli anni novanta vennero commesse da entrambe le parti atrocità di ogni tipo. Non più tardi di qualche settimana fa davanti al parlamento europeo una piccola manifestazione di azeri ricordava i tragici fatti di Khojali quando nel 1992 le forze armene spalleggiate dai russi trucidarono più di 500 abitanti di quel villaggio. Su iniziativa di Baku l’Organizzazione della Conferenza Islamica ha riconosciuto quel massacro come genocidio. L’Azerbaijan può così oggi rivendicare sostegno e compartecipazione, indispensabili per controbilanciare l’apertura di credito internazionale ottenuta dai nemici armeni. Come se il torto subito da Baku possa neutralizzare quello subito da Yerevan e le ferite storiche degli uni possano annullare le ferite storiche degli altri.
La magia del brandy armeno
Tutto si può dire degli armeni salvo che non siano ospitali. Come nella vicina Georgia e nel Caucaso in genere le cene ufficiali con le grandi tavole imbandite straripanti di cibo si trasformano sempre in festa all’insegna della convivialità e del buonumore. Un fattore decisivo in questo senso è rappresentato dal vino ma soprattutto dal brandy che accompagna d’abitudine i pasti in abbondanza. Gli animi dei commensali si sciolgono dopo pochi istanti come per magia e non è solo l’effetto dell’alcol. Il distillato stravecchio prodotto in Armenia è annoverato fra i più rinomati dagli esperti del settore. La distilleria più famosa è senz’altro l’Ararat che porta sull’etichetta l’immagine dei monti al centro di quell’Armenia storica che oggi non c’è più.
Prima di partire per Mosca intravedo, a tratti, le cime innevate del piccolo e del grande Ararat circondate dalle nubi attraverso le vetrate dell’aeroporto. Si trovano a pochi chilometri di distanza ma oltre il confine, in territorio turco. In mezzo c’è una frontiera chiusa ermeticamente da anni e, al di là di questa, un pezzo di memoria di un popolo che non può e non deve morire perché è parte della storia dell’umanità, che piaccia o meno ad Ankara.
* Consigliere presso la Commissione esteri del Parlamento europeo
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