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L’Apocalisse di Tskhinvali

Tanya Lokshina, vicedirettrice dell’ufficio di Mosca di Human Rights Watch, viaggia tra i posti di blocco intorno alla capitale distrutta dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali

11/09/2008, Redazione -

L-Apocalisse-di-Tskhinvali1

Di Tanya Lokshina, per Human Rights Watch. Pubblicato su opendemocracy.net, 29 agosto 2008 (titolo orig.: "South Ossetia: Tskhinvali’s Apocalypse ").
Traduzione per Osservatorio Caucaso: Carlo Dall’Asta

"Oggi Tskhinvali, giusto?" Sollevo la testa dal cuscino e cerco di aprire gli occhi. Almeno uno, quello sinistro… Negli ultimi giorni – non ricordo quanti – abbiamo avuto circa tre ore di sonno per notte. I giorni si confondono in una successione come di immagini in un mirino: mezzi corazzati per il trasporto truppe, carri armati, veicoli della fanteria, postazioni ‘Grad’, postazioni ‘Uragan’, bossoli, schegge, frammenti di razzi, case crollate, case in fiamme, case arse fino alle fondamenta, vetri rotti, buchi nei muri, razzi infuocati che volano nel luminoso cielo blu… Quando suona il telefono e un giornalista mi chiede quanto a lungo siamo stati qui, dopo una breve pausa gli chiedo che giorno è. Siamo arrivate con l’aereo in Ossezia la domenica mattina, il 10 di agosto… È solo tre o quattro giorni fa? Sembra un mese, o un anno…

Tskhinvali ieri, Tskhinvali oggi… Quando finalmente riesco a mettere a fuoco lo sguardo vedo la faccia tonda della nostra ospite, e dietro di lei – oddio, non questo, per favore, non di mattina! – un ragazzo in tuta mimetica, con la barba lunga di qualche giorno e un AK-47 a tracolla. Tiro su le coperte: "Per favore, vai via un secondo! Lasciami vestire!". "Cosa?", chiede il ragazzo. "Tu devi andare a Tskhinvali, no?", dice la padrona di casa in tono rassicurante: "Lui è un bravo ragazzo! Ti ci accompagnerà!" Nella stanza inizia a crearsi un po’ di animazione. I miei colleghi, assonnati, strizzano gli occhi: "Benissimo! Muoviamoci! Prendiamo un tè e poi andiamocene di qui!" Il ragazzo lascia la stanza, e la donna lo segue. "E questo cos’era?" arriva una voce dal letto accanto al mio. "Penso che il ragazzo abbia detto che era pronto a portarci a fare un giro…" Metto un piede a terra, poi l’altro…

I miei jeans sono così coperti di polvere e di fuliggine che frusciano, letteralmente . Fortunatamente la maglietta è pulita. Però è l’ultima. La padrona di casa ritorna nella stanza, si inginocchia accanto al letto e, da sotto, tira fuori un AK-47. Poi un altro… Li porta in terrazza, torna indietro, si rituffa sotto il letto e consegna altri quattro AK-47…. La donna è minuta; a malapena mi arriva alla spalla. "Aspetti, lasci che l’aiuti!" Raccolgo i fucili mitragliatori e li trascino fuori dalla stanza. Sul portico c’è un altro uomo in tuta mimetica. Queste mimetiche dappertutto ti confondono davvero la vista, in particolare se non hai dormito a sufficienza. Lui annuisce, sorride e prende le armi. "I ragazzi se ne erano andati e mi avevano chiesto di nascondere i fucili. Adesso li rivogliono indietro", spiega la padrona di casa. Tornati nella nostra stanza, mi inginocchio e guardo sotto i letti – ce ne saranno ancora lì sotto? Fortunatamente l’arsenale sembra essere vuoto – non è rimasto altro che polvere.

Saliamo in una jeep con due uomini della milizia osseta, che promettono di portarci a destinazione. Ma dopo cinque minuti, al più vicino posto di controllo, i soldati federali rifiutano di lasciarci passare. Be’, non proprio noi, ma la nostre scorta. Lo scopo di questo posto di blocco è specificamente quello di impedire alle milizie ossete di entrare nei villaggi georgiani sulla strada per Tskhinvali. L’ufficiale al comando, un tenente colonnello russo, scrolla flemmaticamente le spalle: "Stiamo cercando di fermare i saccheggiatori. Rubano e danno fuoco alle cose. Noi abbiamo portato a termine l’operazione militare in una sola direzione, comunque contro la Georgia. Abbiamo fatto quello che dovevamo. Ora è solo buon senso fare la stessa cosa nell’altra direzione, al contrario. Altrimenti tutto questo non avrà mai fine. Dato quello che gli osseti stanno facendo in questi villaggi, non c’è una sola dannata speranza che gli altri più tardi non si vendichino. Non riesco a vederci una fine". Un giovane maggiore del Dagestan, bruno di carnagione, appollaiato su un APC, rifiuta di lasciar passare i miliziani oltre il posto di blocco. "Chi vi dà il diritto? Voi dovreste essere qui per aiutarci, ma che cosa state facendo?", gridano. Lui ripete: "Non posso lasciarvi passare, Ho degli ordini. Se i miei superiori mi dicessero di sparare sulle donne, non lo farei. No. Ma per il resto io devo seguire gli ordini." L’uomo è stanchissimo, e il caldo è soffocante. Ma non alza mai la voce: "Tu non puoi essere del Caucaso se ci tratti così!". "Io sono del Caucaso. Ma sono anche un soldato. Io sto solo facendo il mio lavoro!"

Nonostante la deprimente prospettiva di dover aspettare nella calura cocente un veicolo militare russo, che si presti a dare a tre civili pazzi un passaggio verso una Tskhinvali in macerie, si può solo ammirare la perseveranza dei soldati. Ieri nei villaggi georgiani lungo questa strada, le case sono state bruciate a dozzine. Uomini armati in tuta mimetica si sono scatenati, rubando mobili, tappeti, televisori, aspirapolvere e stoviglie abbandonati dai proprietari. Ridendo e urlando i saccheggiatori hanno ammucchiato la roba nelle automobili. La strada, affollata di mezzi corazzati per il trasporto truppe e vari altri mezzi della milizia osseta, era invasa da un fitto fumo proveniente dai gas di scarico e dalle case date alle fiamme. La nostra jeep Niva rimane bloccata senza speranza, e continuando a piedi lungo la strada con la mia macchina fotografica scatto fotografie mezzo alla cieca, pressoché a caso. Una donna georgiana, isterica, agitando le braccia accanto ai resti fumanti di quella che solo poche ore prima era stata la sua casa, maledice tanto la milizia osseta quanto il Presidente Saakashvili. Un vecchio fragile, con le mani scottate e i capelli strinati, cerca inutilmente di spegnere le assi, ridotte a braci sibilanti, con l’acqua di un piccolo secchio di plastica… Un combattente bruno in mimetica storce la bocca: "Fai delle fotografie? Le stiamo bruciando per assicurarci che la gente non abbia case a cui tornare. Altrimenti, se tornassero, qui ci sarebbe di nuovo un’enclave, e noi non possiamo conviverci. Rispondiamo al sangue col sangue. Ciò che sta accadendo qui è una apocalisse. Capisci? Le persone si stanno trasformando in animali. E non c’è modo per tornare indietro". Un miliziano ubriaco mi pungola col fucile: "Ehi, sei georgiana?" Un altro esperto di fisiognomica da tenere a bada. Urlando al di sopra del rombo dei carri armati, mi lancio in una ben collaudata serie di oscenità: "Ti sembra che io assomigli a una f…uta Georgiana? Apri gli occhi, deficiente, io sono russa, c…zo!" Come mi aspettavo, imprecare funziona meglio di qualsiasi documento di identificazione. Dieci metri più avanti c’è una banca in rovina, con i resti di un luccicante bancomat – la Georgia ha investito grandi quantità di denaro in questi villaggi – enclave, col chiaro intento di mostrare come potrebbe essere bella la vita se solo l’Ossezia del Sud si ponesse sotto l’ala della Georgia: moderni centri commerciali, caffè, campi da tennis, perfino una piscina… Oggi, le vestigia di questa passata prosperità sembrano solo provocare ancora di più i saccheggiatori.

Un ragazzo che indossa una camicia sporca e dei pantaloni mimetici mi fa segno con la mano: "Vieni qui!" "Perché?" "Vieni qui, ti dico! Non ti faccio niente!" Il ragazzo indica una panchina di legno al lato della strada e si siede. "Sei una giornalista? Togliti quel foulard dai capelli. Con quello indosso sembri un sacco una georgiana. Ti faranno fuori, sarebbe un peccato…" Imprecando tra i denti mi strappo il foulard arrotolato intorno ai capelli per salvarli dalla fuliggine. Se e quando tornerò a Mosca, dovrò probabilmente rasarli a zero. Ma, meglio calva che morta, giusto? "Sei nelle milizie?" I suoi occhi sono fissi a terra e le sue dita inscenano un nervoso balletto sulle ginocchia: "Vengo da Vladikavkaz. Adesso torno a casa. Sono stanco di combattere. Il giorno che è cominciata, mi sono fatto una doccia, ho indossato la mia tuta mimetica e con un gruppo di amici siamo venuti in macchina fin qui. Eravamo in 70". Rimane in silenzio, con lo sguardo assente. "Allora tu probabilmente hai famiglia qui?" Il ragazzo agita la mano e improvvisamente quasi urla: "Non ho parenti qui, neanche uno. Io pensavo solo – come posso non difendere la mia gente? Quelli del Nord e quelli del Sud sono una sola nazione, giusto? Ma questi "highlander" – da entrambe le parti – sono come animali. Le cose che si fanno a vicenda… In città, sai quanti cadaveri ci sono per la strada? Hai mai visto un corpo a cui è passato sopra un carro armato? Fatto a pezzi, senza testa, braccia o gambe… Quando chiudo gli occhi riesco ancora a vederlo…" All’improvviso il traffico inizia a muoversi. Dalla Niva suonano il clacson, e io mi alzo in fretta per raggiungere i miei colleghi: "Buona fortuna! Torna a casa sano e salvo! Spero davvero che tu non debba più combattere!"

Sono tutti così patetici. I volontari osseti, che solo ieri erano dei teenager, e gli studenti della riserva georgiana (una sorta di soldati – qualche settimana di addestramento, qualche canzone tutti insieme con una chitarra, e poi via in battaglia). Quei cadaveri… Certo che li ho visti. Siamo in agosto, e la temperatura è sopra i 30 gradi. Gli osseti hanno seppellito i loro, naturalmente, ma quelli georgiani sono rimasti nudi a marcire in tutta la città. Solo il pensiero di quell’odore mi fa stare male…. Un camion militare della ‘Ural’ si ferma accanto al blocco stradale. Ci prendono con loro? Grande tempismo! I soldati si spostano per farci spazio sulla panca di legno. Sembrano spauriti e molto giovani. Che cosa sono, coscritti? Sì… Hanno viaggiato per quattro giorni, da Rostov a qui. Tre mesi prima del congedo, ed ora eccoli gettati in mezzo a questo casino: "Cosa sta succedendo a Tskhinvali in questo momento? Si spara? Molto? Come faremo?" I loro occhi sono lucidi di paura. Guardarli è insostenibile.

Ieri era Tskhinvali. Oggi è Tskhinvali. Case distrutte. Due donne in nero in via Geroev piangono disperate. Nella notte dell’8 agosto il loro padre è morto sotto il fuoco georgiano. Ha sbirciato dalla cantina, ha visto il tetto della sua casa in fiamme, ha perso la testa ed è corso fuori per spegnere l’incendio. È stato ferito al fianco da uno shrapnel. Poche ore dopo l’anziano uomo è morto nelle braccia della moglie, a causa della perdita di sangue. Sono rimasti senza tamponi per fermare l’emorragia, e non c’era niente da usare come benda. Pochi giorni dopo, quando tutto era finito, sua figlia lo ha seppellito. Subito dopo il funerale il loro fratello si è seduto su una panca accanto alla casa, per riposare. All’improvviso ha lanciato un grido ed è caduto a terra. Un infarto. Lo hanno portato di corsa all’ospedale, ma era troppo tardi. Ora il prete sta pregando sul suo corpo. Il coperchio del feretro, imbottito di velluto rosso, sta appoggiato contro il muro della baracca. Da dietro gli arbusti si può sentire l’odore dolciastro della carne in putrefazione, e si scorge il braccio tumefatto di un soldato georgiano morto. Vicino, sulla balconata di un centro commerciale, un uomo seminudo sta gettando fuori dei detriti rimasti dal bombardamento: frammenti di vetro e mattoni.

Dozzine di civili morti in città. Centinaia di persone non hanno un posto dove vivere. Non ci sono acqua, elettricità, niente di niente. Per due giorni e più le donne e i bambini tremavano nelle cantine mentre Tskhinvali veniva bombardata con razzi e fuoco d’artiglieria. Alcuni si sono fatti prendere dal panico e hanno cercato di fuggire coi loro bambini dopo che erano iniziati i combattimenti, l’8 di agosto. Le automobili che trasportavano i rifugiati sono state prese a bersaglio. I bambini piangevano. Le mamme erano in preda ad attacchi isterici. I volontari osseti, armati con coltelli e fucili mitragliatori hanno attaccato i tank georgiani. Non è chiaro quanti miliziani siano morti. Le perdite militari russe assommano a 74. Più di 200 soldati georgiani sono stati uccisi. In Georgia sono stati seppelliti anche alcune dozzine di civili. Ci sono ordigni inesplosi da entrambe le parti che potrebbero detonare in ogni momento. Così, non è ancora finita.

Vicino alla casa nel villaggio osseto di Dzhava, dove delle persone gentili ci hanno dato ospitalità, due bombe da 500 chilogrammi brillano nell’erba come dei mostruosi e giganteschi fiori. Sono state sganciate dal cielo, su una colonna di carri armati russi, ma hanno mancato il bersaglio. E ora stanno lì, e probabilmente ci resteranno per un po’ di tempo – una su una collina, l’altra in un dirupo. Gli sminatori scrollano la testa. Non possono farle detonare – le bombe distruggerebbero almeno metà del villaggio. Ma non le possono neppure rimuovere – se le bombe esplodessero durante il trasporto il risultato sarebbe lo stesso, e rimarrebbero uccisi anche dei soldati. Neppure lasciare le bombe dove si trovano è un’opzione. Questa è un’area di attività sismica. Solo la notte scorsa ci sono state delle scosse che avrebbero potuto facilmente fare esplodere le bombe.

Non so cosa è meglio fare in simili circostanze. Ma sicuramente ci deve essere un qualche tipo di soluzione? Ma tutto ciò che veramente desidero è dormire un po’. Anche vicino a questo mostro d’acciaio che sta all’ombra dell’albero di susine, anche solo per mezz’ora…

Il sole tramontando dipinge il cielo di un colore rosa pastello. Un piccolo, quieto cortile nei sobborghi di Tskhinvali. I muri della casa sono segnati dagli shrapnel. Un’automobile nuova, un tempo orgoglio dei suoi proprietari, ora va bene solo per il demolitore. Un cane dal pelo alto e soffice corre in giro in cerca di coccole. Su un tavolo di legno accanto al portico c’è una ciotola con delle prugne di amolo, leggermente troppo mature, e una tanica di plastica di vino rosso fatto in casa. Mentre parla della sua esperienza del bombardamento, imitando il suono dei razzi, la padrona di casa versa il vino. All’improvviso in lontananza, a pochi chilometri, c’è uno schianto basso e terrificante. Il cane lancia un verso acuto e si nasconde sotto la panca. "Sì", sorride la donna, "Belochka è stata con noi per tutti questi giorni, e non appena iniziano gli spari lei è la prima a schizzare in cantina. Dio non perdonerà questi georgiani! Possa la loro intera, vile nazione essere spazzata via dalla faccia della Terra…" Sospira e offre un bicchiere colmo ad un vicino che è a appena arrivato in visita. Il vecchio georgiano lo beve in un sorso e si pulisce la bocca. "Sia dannato all’inferno, quel Saakashvili. Facevamo una così bella vita…" Un’altra vicina, una giovane ragazza osseta, parla eccitata dei fanti georgiani che le sono arrivati in giardino, e di come aveva avuto paura che uccidessero i bambini e violentassero le donne. Si sono rivelati essere solo dei ragazzi. Stavano lì e si guardavano intorno sbigottiti: "Pensavamo che se ne fossero andati tutti già da tempo, che qui ci fossero rimasti solo i soldati! Come avete fatto a sopravvivere al bombardamento? Non preoccupatevi, non vi faremo niente di male. Pensate che abbiamo voglia di uccidere o essere uccisi? Se non fosse per Kokoity, Putin e Saakashvili, noi qui non ci saremmo proprio! Chi ha bisogno di questa guerra?!"

Qui ci sono molti matrimoni misti. E praticamente tutti hanno parenti e amici in Georgia. Benché alcuni georgiani in Ossezia del Sud siano stati arrestati e imprigionati – ed ora stanno per essere scambiati in cambio di prigionieri osseti – ci sono tuttora molti vecchi georgiani in città, e sono stati lasciati stare. Hanno vissuto qui a lungo. Sono chiaramente gente del posto. E chi si sognerebbe di far del male a questa gente, che ha anch’essa tremato di terrore sotto il bombardamento e che quando è arrivato il suo turno è corsa a prendere l’acqua per tutti gli altri? Le donne di casa versano altro vino, e noi brindiamo perché la guerra finisca una volta per sempre. Questa gente arriverà sicuramente ad un accordo.

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