L’Albania e il grande padre: la versione di Vera
Una testimonianza forte quella di Vera Bekteshi, scrittrice e fisica teorica. La sua memoria torna agli anni del regime per capire quanto di quella eredità resta ancora nella quotidianità dell’Albania odierna. Un progetto ideato e realizzato dal giornalista Christian Elia e dalla fotografa Camilla De Maffei
I ricordi di Vera sono parole, fumo, sigarette, bicchieri di raki, gesti, espressioni del volto, risate. Tutto assieme. Sono mani, occhi, sorrisi. E qualche lacrima.
Vera ha attraversato, a testa alta, l’Albania del Novecento. Il suo portamento, maestoso, da diva del cinema, la rende una di quelle persone che non entrano in un luogo, ma lo accendono, lo calcano come un palcoscenico. Vera porta la sua storia come si porta un cappotto che calza a pennello, un cappello, un guanto elegante.
La Vera di oggi si specchia nella bambina che, con curiosità e paura, ascolta la nonna sussurrarle che “Stalin è morto”, su quel balcone bello di una casa imponente nel quartiere Blloku, a Tirana, che era quello della nomenklatura di regime e oggi è il manifesto della nuova Tirana, che ha inglobato la vecchia senza digerirla fino in fondo. Nel quartiere, all’epoca, era impossibile entrare senza un permesso o un motivo; la maggioranza dei cittadini di Tirana non ci aveva mai messo piede prima della caduta del regime negli anni Novanta.
La voce di Vera, nei corridoi della casa che ha attraversato da bambina, dove ha vissuto il suo regime e quello degli altri, si rincorre in stanze che adesso raccontano un mondo nuovo, almeno all’apparenza. SUV fiammanti, caffè hipster, co-working all’ultima moda.
Vera Bekteshi, fisica teorica e scrittrice, ha vissuto molte vite in una. Come l’Albania, rinata molte volte dalle sue ceneri, che lasciano tracce, cicatrici, ricordi. Vera è allo stesso tempo la sua memoria e quella di un mondo intero. A cominciare dalla storia di una casa, la “casa dalle tre porte”, oggetto di uno dei suoi romanzi.
“Non so chi l’ha costruita e non credo lo saprò mai. All’epoca della monarchia, Re Zog donava ai suoi funzionari fedeli della terra per costruire le case della nuova Tirana, quella capitale che doveva raccontare al mondo un paese nuovo, che si lasciava alle spalle il passato rurale”, racconta Vera, sorseggiando un caffè e fumando l’ennesima sigaretta. “Dopo la guerra la casa venne requisita dal governo. Ho vissuto in questa casa fino ai 15 anni, poi ho cambiato mille case, la vita mi ha portata altrove, ma è questa la casa che ricordo.”
Mentre Vera si guarda attorno, come a dare la caccia ai suoi ricordi, il Blloku si muove senza sosta.
“All’epoca il Blloku era un luogo dove mi sentivo al sicuro, anche se in fondo ne percepivo la ferocia e sapevo che non era il nostro posto. Mio padre non era membro del Politburo, ma uno dei 150 del Comitato centrale e tra i rappresentanti del nord del paese nel Presidium del Parlamento. Per questo avevamo diritto a una casa qui e sono stata felice, amavo questi spazi, quest’idea di libertà che immaginavo. La casa era bellissima: mosaici, vetrate, cristalli… tutti materiali italiani. Solo a 12 anni ho saputo che non era nostra. Nello stesso momento, più o meno, ho capito che quella sensazione di sicurezza era transitoria, che sarebbe potuta finire da un momento all’altro, perché la gente spariva. Le aspettative che avevi – di studio, di vita, di lavoro – potevano svanire in una notte. Lo scoprì quando salutai Vjosa, la mia amica di sempre, la compagna di giochi. Ci eravamo guardate crescere, sempre assieme. La sua famiglia cadde in disgrazia, vennero mandati in esilio fuori Tirana. Abbracciando Vjosa, salutandola, salutavo anche quella sensazione di sicurezza e di felicità senza domande. Quel giorno iniziai a provare quell’ansia, quella paura con la quale bisognava imparare a convivere. Andavi avanti lo stesso, eri felice lo stesso, vivevi lo stesso. Ma sapevi che tutto poteva cambiare in un momento e precipitare, magari in base agli umori del dittatore. E questo sapere, in fondo, è la causa di tutti quei disturbi psicologici che hanno segnato la maggioranza degli albanesi, che li segnano ancora oggi. Che hanno segnato e segnano anche me”.
La memoria, in Albania, è un luogo, un personaggio vivo, sospeso in un tempo altro, né completamente passato, né completamente elaborato. Una tensione costante tra movimenti differenti, spesso opposti: rimozione, ricordo, accusa, difesa, cancellazione, sostituzione.
Dopo decenni di polemiche, sono iniziati i lavori di scavo attorno al famigerato carcere di Burrell, dove durante il regime migliaia di prigionieri politici sono stati rinchiusi e molti di loro hanno perso la vita. Gli scavi hanno lo scopo di cercare le fosse comuni dove – secondo ex detenuti di quei tempi – venivano sepolti i corpi dei prigionieri dopo le esecuzioni. A parole tutti sono sempre stati favorevoli, ma governo dopo governo, anno dopo anno, si rimandava sempre questo appuntamento con la memoria. Il passato è stato per anni al centro di un processo di turisticizzazione: luoghi chiave degli anni del regime, come i bunker (simbolo della paranoia del regime più isolato del pianeta) o la vecchia sede della famigerata Sigurimi, l’agenzia di intelligence che dal 1945 al 1990 è stata il simbolo del controllo di massa della popolazione, sono diventati attrazioni da visitare senza un’analisi del quadro complessivo. In generale, lungo il cammino della memoria, in Albania restano alcuni spigoli, che per quanto possano essere smussati, resistono. Alcuni hanno voluto cancellare la memoria, per sostituirla con un futuro che è orfano del contesto, altri hanno voluto che restasse immobile, non problematizzata, per non dover rispondere del proprio passato, altri ancora usano il passato per manipolare il presente.
E ciascuno porta la sua, di memoria, che diventa allo stesso tempo individuale e collettiva.
Il padre di Vera, il generale Sadik Bekteshi, apparteneva alla generazione dei partigiani. Comandante delle brigate del nord durante la lotta di liberazione dai nazi-fascisti nella Seconda guerra mondiale, era uno di quegli albanesi tornati per ricostruire il paese. Durante l’occupazione italiana, giovane studente, si unisce ai movimenti comunisti. Per questo viene deportato dai fascisti, finisce tra i confinati dell’isola di Ventotene, torna per riprendersi un futuro.
“Mio padre sapeva che le cose non andavano. Avevo 20 anni, studiavo all’Università, ma ero già sposata. Mio marito era stato mandato in un villaggio rurale, per approfondire le sue convinzioni comuniste, come si voleva all’epoca. Ricordo che mio padre mi chiese di raggiungerlo, per vedere come soffrivano i contadini. Prima di quell’esperienza, al sicuro nella mia vita da privilegiata, non avevo idea della sofferenza di quelle persone. Tornai cambiata e mio padre sapeva che sarebbe successo – racconta Vera – ma allo stesso tempo era un uomo scolpito nelle sue idee, in quello per cui aveva sopportato il carcere e la guerra. Come mia nonna, che da volontaria aveva partecipato alla costruzione delle ferrovie per rendere l’Albania un paese moderno. Ci credevano. E ricordo che, contro ogni mia previsione, mi disse di non iscrivermi alle organizzazioni del partito. Perché diceva che ci vuole disciplina per essere comunisti, anche contro l’evidenza dei fatti che non condividi personalmente. Ci voleva fede e per lui io non l’avevo.”
Ma Vera e i suoi coetanei, in un sistema che tutto vedeva e tutto sapeva, volevano vivere lo stesso. I ricordi, anche nei momenti bui, non rendono mai la memoria un’unica dimensione. “Studiavo, tanto. Sognavo di studiare fisica nella Germania dell’Est, che per noi era un mito di qualità, per poi andare a Mosca e lavorare nel centro di fisica nucleare di Dubna. Ero piena di entusiasmo, trascorrevo le mie estati a Durazzo, alla spiaggia chiamata Convalescenza, dove i militari andavano in vacanza con le loro famiglie e io ridevo e spettegolavo con altri figli privilegiati, parlando male del regime. I nostri genitori avevano accesso a giornali proibiti agli altri albanesi, vedevamo e leggevamo del Sessantotto nel mondo, ne eravamo affascinati e intrigati. In Albania erano gli anni del ‘modello cinese’, perché dopo la rottura con l’Unione Sovietica il regime aveva solo la Cina come alleata. La nostra ‘rivoluzione culturale’ si manifestava nel modo di vestire, di parlare. E pagai un prezzo per questo. Una compagna di studi, che credevo un’amica, mi fece finire nel ciclone. Arrivai un giorno in facoltà, avevo i capelli legati in una coda, con un nastrino di velluto nero. E una gonna, di poco sopra il ginocchio. Mi trovai su un tazebao appeso alle pareti dell’Università, nel quale mi si accusava di essere troppo ‘occidentale’. Fu terribile, mi sentivo osservata, venivo attaccata da studenti e operai. Mi salvò il mio professore di Fisica, che come tutti gli scienziati era molto meno schiavo del regime. E mi difesero i miei compagni, in un’azione collettiva che mi permise di non dover fare auto-critica pubblica come si usava all’epoca. Erano cominciati i problemi per mio padre, che solo per essersi opposto all’introduzione delle uniformi “alla cinese” per i nostri soldati era finito in disgrazia e confinato con un ruolo secondario a Korca. Mio marito anche, da diplomatico, era lontano. Ricordo che in quel momento è finita la spensieratezza, il sentirsi protetti, al sicuro. Mio padre, quando tornava da Korca, all’epoca reagì malissimo. Mi strappava le gonne, mi diceva che dovevo essere ‘invisibile’. Soffrivo, ma capii. E ricordo anche, proprio in questa stanza – continua Vera, guardandosi attorno assorta in quello che oggi è un caffè alla moda – mio padre e mia madre che parlano fitto. Avevano il diritto di andare in vacanza all’estero, nel blocco socialista, e ci preparavamo alle vacanze in Cecoslovacchia, come in passato le avevamo trascorse in Ungheria e in Unione Sovietica. I miei erano tesi, molto tesi. Il regime non aveva accordato la partenza anche per noi tre figli. Voleva dire che sospettavano di mio padre, che non si fidavano, che temevano potesse fuggire. Le loro preoccupazioni erano fondate e poco dopo, a seguito della grande purga degli anni Settanta, anche mio padre finì in carcere. Ciò che mi sconvolse di più fu la sua serenità. Si sentiva in colpa con i compagni del passato finiti in carcere, si sentiva di essere stato un privilegiato. E non voleva che lo andassimo a trovare. Tanti anni dopo, a Londra, ho incontrato un businessman che ha fatto il carcere con mio padre. È diventato un noto uomo di destra, eppure mi abbracciò, dicendomi che mio padre era una persona per bene che in carcere aveva aiutato tutti loro.”
Comincia dunque l’odissea della famiglia Bekteshi: esiliati in una cooperativa agricola per sedici anni. Fino al giorno che, nella memoria, è una specie di pietra miliare. Il giorno che morì Enver Hoxha.
“Lo sapevano tutti che stava per morire. Si sussurrava, non si diceva. E non si diceva mai il suo nome. Era sempre ‘Lui’, o ‘il Dirigente’. Aspettavamo, da un giorno all’altro, di sentire la notizia alla radio. Mio fratello maggiore, l’umorista della famiglia, diceva che le belle notizie arrivano d’estate, invece fu in primavera. Ad aprile. E lo ricordo come fosse oggi: ero in giardino, a pulire la baracca dove tenevamo le galline. Passarono bisbigliando due persone, una di queste era il medico del villaggio, che era anche il responsabile politico della cooperativa. Sentii la notizia che aspettavo da anni. Corsi alla finestra, mia madre mi guardò. Aveva gli occhi piccoli, da orientale. Le bastò vedere i miei cenni, silenziosi, e la mia bocca che sussurrava: ‘È successo’. Non c’era bisogno di dire altro, sgranò gli occhi come mai aveva fatto e come mai avrebbe più fatto. Uscì, in casa sapevamo che c’erano i microfoni. Ci stringemmo forte, in silenzio. Lacrime e sorrisi, insieme.”
Il terrore, però, si nutre anche della debolezza di coloro che cedono. “Assieme a questo sono altri due i momenti che non dimenticherò del mio confino. Il primo accadde poco dopo la morte di Hoxha. Con noi, al confino, c’erano uno sceneggiatore e sua moglie, un’attrice che era stata molto famosa. Caduti in disgrazia, i loro film erano stati censurati. Furono riabilitati dopo la morte di Hoxha e, prima di essere rilasciati, nel fienile della cooperativa fu proiettato davanti a tutti il film sulla figura di Skandenberg, nel quale lei recitava da protagonista. Ricordo le sue lacrime guardando il suo passato su quello schermo, guardano la sé che era stata e la sé così ridotta dal regime. Ecco, in quelle lacrime c’era la nostra storia. E poi non posso dimenticare Tasha. La credevo un’amica, era al confino con noi. Dopo la caduta del regime ho scoperto che accettò di riferire alla polizia politica le mie confidenze, in cambio di un confino meno duro. Volevano usare le mie parole per aggravare la mia posizione e definirmi ‘nemica del popolo’. La vedo ancora, per strada. Ci evitiamo. E non abbiamo mai più parlato del passato, ma non è passato.”
Memoria e strati. Un passato che non passa, un eterno futuro che non fa i conti con quanto è accaduto. In questo senso, l’Albania non è un caso unico al mondo: sia nell’ex blocco socialista che in Occidente, sono tante le questioni del passato non risolte, non elaborate, non condivise. Ma forse l’Albania, più di tanti altri casi, ha una tensione irrisolta tutta interna, con la propria storia più che con quella di stati vicini o sistemi internazionali.
Vera è un esempio ideale di questo rapporto irrisolto con il passato: per alcuni non è una vittima del regime, per altri lo è. In lei convivono le storie e le memorie dell’Albania. C’è il privilegio dell’inizio e lo strazio della fine, nel mezzo una vita nel regime. E c’è un presente inquieto, incapace di chiudere i conti con il passato, dove il fatto che tutti fossero colpevoli rende nessuno colpevole, non guarda a un futuro diverso.
I segni che lascia il tempo, però, non si possono celare. Basta volerli cercare, senza l’arroganza di pensare che a risolverli possa essere qualcuno che arriva da lontano. La memoria, in Albania, è carsica.
Si inabissa per un tempo, poi ricompare, riemerge altrove. Ma ogni albanese porta la memoria scolpita nel volto, ogni edificio la porta nelle sue strutture sedimentate, ogni luogo abbandonato o ristrutturato, o cambiato di senso, non smette di raccontare.
“Ogni giorno è una lotta. Io prendo 200 euro al mese di pensione, mio figlio 60, perché è malato. E siamo fortunati. Ancora oggi, che tutto cambia in fretta, non vedo come certe logiche del regime possano essere superate. Un gruppo e le persone vicine a quel gruppo prendono tutto, dividono tutto. La memoria ci divide, non ci unisce. Tutti prendono le distanze, ma in fondo Hoxha è sopravvissuto a Hoxha, nella geometria del suo potere, nella delazione, nel pettegolezzo che sono una forma di controllo sociale oggi come allora. E tutto questo, io lo ricordo. Per questo lo so ancora riconoscere.”
Il progetto
Grande Padre è un longterm project nato dall’incontro tra gli sguardi sull’Albania del giornalista Christian Elia e della fotografa Camilla De Maffei. Entrambi impegnati da anni a raccontare un paese vicino e allo stesso tempo troppo lontano nell’immaginario degli italiani, Grande Padre nasce per riflettere su quanto resta degli anni del regime nei comportamenti, nella quotidianità, nella memoria degli albanesi. Nel dicembre del 1990, lentamente, iniziava la fine di un sistema che, dal 1945, aveva pervaso le vite di un popolo intero. Quanto di quei segni, di quegli strati resta ancora oggi nell’Albania che corre veloce – a volte freneticamente – verso un’idea di futuro in continua mutazione? Decine di interviste e reportage sono diventati una collana di fanzine fotografiche, con testo. Ogni fanzine racconta un tema, il primo è MEMORIA. Seguiranno LAVORO, FRONTIERA, CONTROLLO, SIMBOLI. Su OBC Transeuropa riprenderemo una selezione di questo lavoro.
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