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L’Adriatico, frontiera di ogni pericolo

Riprendiamo un articolo di Jean-Arnault Dérens, tra i fondatori di Le Courrier des Balkans, pubblicato sul numero di luglio di Le Monde Diplomatique e da Il Manifesto.

24/08/2004, Giuseppe Lauricella -

L-Adriatico-frontiera-di-ogni-pericolo

Isola di Krk

Di Jean-Arnault Dèrens
Traduzione a cura de Il Manifesto

Esiste l’Adriatico? L’antico golfo di Venezia ha una pessima reputazione. Inquinato, preda del devastante turismo di massa, questo mare semichiuso rappresenta una delle maggiori frontiere europee. Linea di demarcazione tra l’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico e i paesi socialisti «atipici», quali erano la Jugoslavia e l’Albania, esso rappresenta ormai un lago di protezione, e a volte un cimitero per migliaia di clandestini che tentano di raggiungere il ricco
occidente.

 
Anche se il 9 gennaio 2004, 21 candidati all’emigrazione clandestina sono annegati nel corso del naufragio di un gommone al largo delle coste albanesi, in questi ultimi anni nel mare Adriatico si muore di meno. Nei Balcani la spinta a partire si è allentata quando i conflitti iugoslavi hanno ceduto il passo a un difficile dopo guerra. Il centro d’accoglienza Regina Pacis, creato nel 1997, si erge con la sua pesante carcassa di cemento sovrastata dal ferro spinato su una spiaggia del sud della Puglia, vicino al paesino di San Foca, a circa venti chilometri dalla città barocca di Lecce.

Centro di permanenza temporanea, è l’unico la cui gestione sia stata delegata dallo stato alla diocesi cattolica. «Da alcuni anni i percorsi dell’emigrazione clandestina si sono decisamente spostati – spiega il direttore don Cesare Lodeserto. – Adesso la maggior parte dei clandestini che arrivano in Italia vengono dalla Libia in Sicilia. Altri invece raggiungono i porti adriatici di Bari o Brindisi nascondendosi nei camion o nei containers imbarcati in Turchia».

Nel 1998, il governo italiano (di centrosinistra) ha costituito dei centri di permanenza chiusi, e il Regina Pacis ha accettato questa radicale modifica del suo statuto. Don Cesare comunque non risparmia critiche alla legge Bossi Fini che nel 2002 ha inasprito ancora di più le condizioni di accoglienza degli stranieri. «La legge dovrebbe conciliare accoglienza e legalità. Invece, al contrario, fa dell’illegalità un fattore di criminalizzazione – spiega. – È aberrante fare una legge per difendersi dall’immigrazione, perché nonostante tutto i flussi migratori continueranno».

Circa 250 stranieri vengono sistemati qui in detenzione amministrativa per un periodo massimo di sessanta giorni, nel corso dei quali devono inoltrare la propria richiesta di soggiorno prima di diventare passibili di espulsione. Coabitano con alcune decine di clandestini ospitati a titolo privato da don Cesare. Questi ultimi possono uscire e ogni giorno salutano i carabinieri che sorvegliano gli ingressi… Il centro accoglie anche circa sessanta giovani donne albanesi e rumene vittime di tratta che vivono lì da molti anni. Alcune hanno avuto dei figli, che ora crescono tra la spiaggia e il filo spinato.

In Albania, per gran parte della popolazione, la partenza resta l’unica prospettiva. Dopo il censimento del 2001 – il primo organizzato a dieci anni dalla caduta del comunismo – la popolazione si è nettamente abbassata nonostante tassi di natalità sempre elevati (1).

Se don Cesare parla di una «svista» per quanto riguarda gli albanesi annegati il 9 gennaio, l’eco non è molto diversa dall’altra parte del mare, nel porto albanese di Valona. Baluardo delle rivolte del marzo 1997 (2), questa città annidata in fondo a un magnifico golfo, ha la pessima reputazione di crocevia della droga e della tratta di esseri umani.

I traffici transadriatici hanno una lunga storia. Durante la dittatura staliniana di Enver Hoxha, l’Albania, nonostante fosse un paese chiuso, traeva buona parte delle sue magre risorse in valuta dal traffico di sigarette, che venivano stoccate a Valona prima di riprendere la via dell’Italia. Migliaia di coscritti hanno trascorso il loro servizio militare a trasportare montagne di sigarette americane, allora introvabili, nei chioschi albanesi. Poi, durante le rivolte, la città è diventata la base degli insorti e di numerose reti criminali, che servivano da centro propulsore verso l’Italia. Ogni notte decine di veloci motoscafi approdavano sulle coste pugliesi con carichi misti di droga, sigarette e candidati all’emigrazione.

Dal suo arrivo al potere nel 1997, il governo socialista di Fatos Nano ha fatto sua priorità la lotta contro gli aspetti più eclatanti del crimine organizzato. Le grandi arterie stradali del paese sono di nuovo sicure, e città come Valona non sono più zone di illegalità.

Una brigata militare italo-albanese rimane di base nella piccola isola di Sazan che chiude il golfo di Valona – una posizione strategica, emblema del valore di questo «chiavistello» dell’Adriatico, un tempo possedimento veneziano.

Rami Isufi, proprietario dell’Hotel Bologna è categorico: «Non parte più nessuna barca per l’Italia. Non c’è neanche più bisogno di controlli in mare, perché dalla riva tutti possono vedere se in acqua
c’è un fuoribordo e chiamare la polizia». E la tragedia del 9 gennaio? «Quella sera il mare era brutto e il gommone non sarebbe dovuto partire. I trafficanti sono venuti dall’Italia e hanno tentato di
ripartire con gente pronta a rischiare tutto. Qui nessuno avrebbe corso un rischio simile».

Tanto che nell’aprile 2003, il governo albanese ha accordato alla compagnia La Petrolifera italo rumena di costruirvi e di sfruttare una base petrolifera. In cambio dei lavori di sistemazione, la compagnia italiana otterrebbe una concessione esclusiva di trent’anni e sgravi fiscali. Ma i deputati hanno provvisoriamente bloccato questo progetto, su cui gravano forti sospetti di corruzione (3). Tirana, per molto tempo orientata verso la Grecia, non vede che l’Italia, con Valona che
può svolgere il ruolo di vetrina di questa apertura.

La costa meridionale dell’Albania comincia a esplorare il turismo, finora trascurato. Da Valona fino a Saranda sulla frontiera greca, la costa alterna spiagge deserte di sabbia fine e vecchi villaggi quasi
abbandonati. I nuovi ricchi possiedono ville che si affacciano sulle cale deserte e da qualche anno si interessa al luogo il presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi: nel 2002, aveva percorso la costa in compagnia dell’architetto Giancarlo Ragazzi, specialista di progetti turistici di lusso.

La strada che collega Saranda e Himara è una pista sconnessa, dove pezzi di asfalto rievocano vecchi progetti di sviluppo, ma le due città sono ormai degli immensi cantieri. Da alcuni anni, i turisti kosovari stanno scoprendo le spiagge del sud della «madrepatria» dove si moltiplicano pensioni, alberghi e ristoranti.

La popolazione ha però poche possibilità di approfittare delle ricadute economiche del turismo. Nei villaggi costieri, essa è in maggioranza greca, come attestano i graffiti alla gloria dell’ellenismo che ornano quasi tutti i monumenti ai partigiani ereditati dal regime comunista.

Per gli abitanti del sud del paese, greci «etnici» o albanesi diconfessione ortodossa, resta prioritaria l’emigrazione in Grecia (4).

Lottizzazione selvaggia nelle antiche città

Le conseguenze del conflitto greco-albanese della seconda guerra mondiale sono comunque sempre presenti: i due paesi non hanno ancora messo ufficialmente fine al loro stato di guerra. Dopo il 1945, le autorità greche hanno espulso in maniera massiccia i Cam – albanesi dell’Epiro – accusati collettivamente di collaborazione con gli occupanti italiani e tedeschi. L’8 aprile 2004 il parlamento di Tirana si è rifiutato – temendo ritorsioni – di esaminare il progetto di risoluzione che chiedeva la restituzione dei patrimoni privati albanesi confiscati in Grecia.

Proveniente da una famiglia originaria di Cameria, Isufi spiega: «I miei genitori non hanno mai più potuto rivedere il proprio villaggio natale, sulla costa greca a nord di Igumenitsa. È là, di fronte a
Corfù, che l’Adriatico è più bello» afferma per poi denunciare il «ricatto greco. Ancora una volta Atene ha minacciato di espellere i lavoratori albanesi, e il nostro governo si è spaventato. Quest’anno però non potevano liquidare i clandestini di qui: chi altro lavora su cantieri degli impianti olimpici?».

Il Montenegro e la Croazia sperimentano ormai da alcuni anni il turismo di massa. Il Montenegro è ancora ampiamente ignorato dai turisti occidentali per via delle sanzioni internazionali degli anni ’90 contro la Federazione jugoslava, di cui faceva parte insieme alla Serbia. La maggior parte dei villeggianti viene dalla Serbia o dal Kosovo, anche se ora compaiono anche turisti russi e ucraini. Villeggianti serbi dal debole potere di acquisto e i nuovi ricchi russi costituiscono quindi la base della clientela della città di Budva, un tempo perla dell’Adriatico.

Con quasi 100.000 abitanti, questa vecchia città fortificata soffre – come Sveti Stefan – di un’urbanizzazione anarchica. Vi si costruiscono palazzi di molti piani di fronte all’isoletta interamente trasformata in un albergo mitico, un tempo frequentato dai divi del cinema italiano.

I camion trasportano materiali di costruzione sulla spiaggia e i nuovi edifici, sprovvisti di qualsiasi permesso di costruzione, fanno correre grossi rischi a tutta la zona, soprattutto per l’emersione delle fosse biologiche.

Anche in Croazia esiste questa «lottizzazione selvaggia» del litorale. Anche le case più piccole offrono camere in affitto. In un paese dove la disoccupazione tocca quasi un terzo della popolazione attiva, molti dalmati praticano un’economia di sopravvivenza piuttosto prospera, riuscendo a vivere tutto l’anno grazie al sostegno sociale e all’affitto di qualche camera nei mesi estivi. Il governo ormai si batte per ottenere la dichiarazione fiscale di questi proventi, ma le conseguenze ambientali non vengono quasi per nulla prese in considerazione.

A Budva quest’inverno è scoppiato un nuovo scandalo. Dopo il fallimento di una prima asta pubblica l’albergo Avala è stato ceduto a una compagnia britannica per 3,2 milioni di euro – meno della metà del valore stimato. L’irregolarità dell’asta pone anche un altro problema visto che la
rappresentante in Montenegro della compagnia britannica non è altro che… Ana Kolarevic, sorella del primo ministro Milo Djukanovic e membro della Corte suprema (5)… Inoltre il 20 maggio 2004, il nuovo governo croato ha messo fine alla lunga telenovela della privatizzazione del complesso Suncani Hvar, che possiede gli alberghi dell’isola di Hvar. Alla fine il complesso turistico è stato ceduto a Quaestus, un fondo di investimento apparentemente legato all’Unione democratica croata (Hdz), tornata al potere dopo le elezioni del novembre 2003 (6).

Montenegro stato ecologico
È possibile immaginare lo sviluppo di un altro turismo concepito sulle basi di una crescita durevole? Denis Ivosevic assessore al turismo della zupanija (dipartimento) d’Istria, è ben consapevole del problema: «Se puntiamo solo su un’offerta a buon mercato, i turisti scompariranno
presto dalle nostre regioni, perché le offerte a poco prezzo si generalizzeranno ancora più in fretta con l’abbassamento delle tariffe del trasporto aereo». Il suo piano decennale propone di privilegiare
l’alloggio rurale e il turismo di qualità, per tentare di arginare la «cementificazione» della costa istriana.

All’inizio degli anni ’90, il Montenegro si è autoproclamato «stato ecologico» nel preambolo della sua costituzione. Questa dichiarazione non ha però mai avuto la benché minima applicazione concreta. Nell’estate del 2003, il paese ha conosciuto la sua più grave crisi dei rifiuti. Il governo ha stanziato un credito di 1,3 milioni di dollari della Banca mondiale per risistemare la discarica selvaggia di Lovanja, situata a un centinaio di metri dalle piste dell’aeroporto, nelle Bocche di Cattaro. Fiordo più meridionale d’Europa, le Bocche di Cattaro rappresenta un prestigioso sito naturale posto sotto la protezione dell’Unesco. La discarica veniva utilizzata dalle comunità di Tivat, Cattaro e Budva. La discarica, riorganizzata, doveva essere usata per tre anni in attesa
che fosse identificato un sito più adatto ma i cittadini sospettano, e a ragione, la perpetuazione di questa soluzione provvisoria. La rabbia degli abitanti delle coste delle Bocche è culminata nel luglio 2003, con il blocco durato diversi giorni degli accessi alla discarica. Segretario del vescovado cattolico di Cattaro, don Branko Sbutega ha preso la direzione del movimento di disobbedienza. Il padre gesuita non riesce a trovare parole abbastanza dure per denunciare la gestione della situazione. «A Budva esisteva un sito molto più adatto, ma in un baluardo pro-serbo i cui abitanti hanno tirato fuori i fucili appena hanno saputo del progetto. Il governo preferisce organizzare la
discarica a Tivat, che ha la principale comunità cattolica croata del Montenegro. La maggior parte dei campi appartiene a proprietari privati, che il governo depreda. È disgustoso che la Banca mondiale si faccia garante di una tale negazione di giustizia e di una tale mostruosità ambientale. Questa situazione rivela la mediocrità dei dirigenti montenegrini. I comunisti di altri tempi avrebbero almeno dato prova di un po’ più di dignità» conclude il gesuita.

Dall’Albania alla Slovenia, la geografia riduce il cordone litoraneo a un sottile passaggio sovrastato da montagne spesso invalicabili. Il Montenegro si è così formato dando le spalle al mare. Tra la gente della costa e la gente di montagna, l’incomprensione è spesso la norma, tanto più che gli sconvolgimenti politici del XX secolo, hanno spesso portato con sé rilevanti cambiamenti demografici. Nelle Bocche di Cattaro, i discendenti delle vecchie comunità locali sono diventati una
minoranza rispetto ai nuovi venuti originari di altre regioni. Così la diocesi cattolica di Cattaro non conta più che 9.000 fedeli. E la città di Herceg Novi, all’ingresso delle Bocche, dà rifugio a
numerosi rifugiati serbi della Croazia e della Bosnia Herzegovina.

I «vecchi» abitanti delle Bocche rimpiangono una civiltà interamente fondata sul mare, che associano al ricordo della lunga dominazione veneziana. Meglio che da qualsiasi altra parte questo rimpianto si può percepire al piccolo museo marittimo di Perast, paese di capitani della flotta della Serenissima. Un documento vi ricorda che il capitano Jozo Viskovic non abbassò lo stendardo con il leone di San Marco fino al 23 agosto 1797, mentre la Repubblica di Venezia era scomparsa già il 12 maggio di quello stesso anno. La facoltà marittima di Cattaro eredita questa lunga tradizione.
In questa regione esistono piccole scuole di navigazione dal XVI secolo. Alla fine del XVII secolo, una delle più celebri fu quella del capitano Marko Martinovic, a cui vennero mandati i cadetti della flotta russa in corso di formazione dallo zar Pietro il Grande. Attualmente quasi 400 studenti seguono le lezioni di navigazione o di meccanica. «Siamo un popolo di marinai senza navi», spiega il professor Milorad Raskovic. Titolare della cattedra di navigazione, egli stesso un ex
capitano, è autore di un trattato su cui gli studenti studiano con passione. La Facoltà non ha più barche scuola – gli studenti imparano la navigazione attraverso dei simulatori – ma nonostante questo gode di una buona reputazione.

Per molti anni, la sorte di Cattaro dipendeva da quella di Jugooceanija, una delle principali compagnie di navigazione jugoslave, per cui le sanzioni internazionali degli anni ’90 sono state fatali. Bloccate nei porti, le sue ventiquattro navi sono state svendute per pagare i debiti. Ciò nonostante, la compagnia, messa in liquidazione nel 2003, deve ancora pagare mesi, se non addirittura anni, di salari arretrati ai suoi ex-dipendenti – i quali nel maggio 2003 avevano
intrapreso lo sciopero della fame (7).

«I nostri allievi troveranno lavoro solo se accetteranno condizioni salariali ingiuste, spesso sui 400 o 500 dollari per un ufficiale agli inizi, al di sotto delle norme fissate dalle organizzazioni sindacali
internazionali, spiega il capitano Raskovic. È così che funziona ormai la marina mercantile: una bandiera di comodo, un armatore greco, marinai cinesi o filippini e ogni tanto, degli ufficiali
montenegrini…».

Al nord dell’Albania, anche il porto di Shengjin è immerso nella desolazione più totale. Portuali caricano con indifferenza una vecchia nave destinata al cabotaggio, mentre qualche
peschereccio finisce di arrugginirsi. La pesca è ormai solo un ricordo in questo vecchio porto che ruotava intorno alla pesca delle sardine. Tuttavia navi greche e italiane vengono regolarmente a sfruttare le riserve ittiche del paese. Un’azienda italiana ha anche rilevato una fabbrica per la conservazione del pesce. Quando arriva un carico, i salari alla giornata equivalgono a tre o quattro euro. E il pesce trattato riparte immediatamente per l’Italia.

Viene dalla pianura padana la minaccia ambientale
Il mare può far ancora vivere le popolazioni costiere? Le coste orientali dell’Adriatico rimangono molto pescose, nonostante le razzie della «pesca troppo intensiva» e l’assenza di qualsiasi gestione
coordinata delle risorse. Un vecchio contenzioso ha a lungo contrapposto la Croazia alla Slovenia
nel golfo di Pirano (8), poiché i 37 chilometri di litorale sloveno sono completamente isolati in fondo al golfo di Trieste, sebbene l’applicazione dei principi di diritto marittimo mettano il limite
delle acque croate a due miglia dai porti di Trieste (Italia) e di Koper, l’antica Capodistria (Slovenia). Nel 2001 è stato finalmente trovato un accordo: esso prevede un corridoio sloveno che faccia uscire dall’isolamento Koper. La posta in gioco, sia da una parte che dall’altra, sembra più simbolica che altro. Ora questo accordo viene rimesso in causa dalla Croazia, che il 3 ottobre 2003 si è dotata di una zona di protezione ecologica e di pesca nell’Adriatico. Essa ha così esteso la propria giurisdizione in alto mare, al di là delle proprie acque territoriali – come consente il
diritto marittimo. Secondo le autorità croate, si tratta di assicurare una migliore protezione degli ambienti marini e una gestione più rigorosa delle risorse ittiche. Ma questa decisione si spiega
innanzitutto attraverso la possibile costruzione dell’oleodotto Druzba-Adria, che porterebbe il petrolio russo da Samara fino al terminal di Omislj, sull’isola croata di Krk. Per sorvegliare le
superpetroliere che poi porterebbero il petrolio verso il resto del Mediterraneo ed evitare una catastrofe ecologica gigantesca, Zagabria ritiene indispensabile assicurarsi una giurisdizione sul mare. Scottata da questi progetti, Lubiana invoca la ripresa del dialogo regionale e conta sull’arbitraggio finale di Bruxelles.

Le coste dell’Adriatico contano già altre bombe ambientali a scoppio ritardato. Come il sito di Porto Romano, vicino a Durazzo, in Albania: questa antica fabbrica di pesticidi e di prodotti chimici è stata abbandonata nel 1990 e distrutta durante le rivolte del 1997. Diverse migliaia di occupanti si sono installati sul posto, pericolosamente inquinato. Il programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) e la Banca mondiale tentano di ottenere il loro collocamento in nuovi
alloggi ma questa piccola comunità non ha voglia di andar via senza solide garanzie di una casa.
In termini di minaccia ambientale, il rapporto tra le due rive del mare rimane fortemente squilibrato. Le grandi città della pianura padana rimangono le principali fonti di inquinamento (9), sebbene le regole della depurazione dell’acqua che vengono applicate siano più severe che in Albania o in Croazia. La sua caratteristica di mare semichiuso e la sua poca profondità, in particolare nella parte settentrionale, espongono in particolar modo l’Adriatico a fenomeni come eutrofizzazione (10). Il meccanismo generale delle correnti marine trascina questo inquinamento dal nord al sud, lungo la costa occidentale. L’Italia ha più da temere. I progetti di terminal petroliferi fanno correre seri pericoli, soprattutto per via dello scarico delle acque delle zavorre delle petroliere, che porta allo
sviluppo di specie esogene che mettono in pericolo l’equilibrio dei biotopi mediterranei.

La vera rinascita che si afferma in Istria contrasta con la disillusione che domina le Bocche di Cattaro. «Le Bocche muoiono dalla caduta di Venezia – dichiara senza timore don Branko Sbutega, anch’egli proveniente da una lunga stirpe di doganieri veneziani, trasferitisi lì dal XVI secolo – . La gente delle Bocche non è mai stata padrona del proprio destino, ma ormai è la loro stessa sopravvivenza a essere minacciata». I cambiamenti sociologici e demografici e le conseguenze delle guerre hanno profondamente modificato le strutture della popolazione del sottile cordone litoraneo della costa orientale dell’Adriatico. Allo stesso tempo, il turismo di massa e l’inquinamento fanno aleggiare nuovi rischi su questi fragili ecosistemi.

Mare interno o frontiera dell’Europa ricca?
L’Adriatico è sempre stato una frontiera e una via di passaggio. La guerra per mare oppose per secoli i marinai turchi e veneziani, così come gli Uskoks, i pirati cristiani di Dalmazia e i pirati ottomani di Ulcinj in Montenegro (11). Alla fine del XV secolo migliaia di albanesi fuggirono la conquista turca raggiungendo l’Italia, formando comunità in Calabria, Basilicata e Sicilia che hanno conservato l’uso della lingua albanese (12). Tali Arbëresh sono sempre stati un ponte tra le
due rive del Mediterraneo. Dal crollo del regime comunista, numerosi emigranti albanesi sono andati a vivere in questi paesi arbëresh, dove in genere vengono integrati facilmente, e che al momento della crisi del Kosovo, si mobilitarono a favore dei rifugiati. «Chi sa quanti albanesi sono rimasti in mare dopo cinque secoli?», si chiede il professor Donato Mazzeo, pilastro della rinascita culturale arbëresh. Per sviluppare una politica coerente ed efficace di protezione degli ambienti naturali e di prevenzione dei rischi ambientali, per preservare la fragile identità delle società costiere, bisognerebbe che l’Adriatico smettesse di essere una frontiera e diventasse completamente un mare interno europeo. L’adesione della Slovenia all’Unione europea il primo maggio scorso e quella, dalla scadenza ancora non definita, della Croazia, vanno in questa direzione, a meno
che non si continui a dare all’Adriatico una funzione di frontiera dell’Europa dei benestanti.

note:

 

(1) Vedi The Population of Albania in 2001, Tirana, Instituti i statistikës, 2001.

(2) Vedi Paolo Raffone, «L’Europe peut-elle oublier l’Albanie?», Le Monde diplomatique, settembre 1997.

(3) Vedi «Industrie pétrolière: monopole exorbitant pour une société italienne en Albanie», www.balkans.eu.org/article 4380.html.

(4) Su queste migrazioni si può leggere la bella rievocazione romanzata di Virion Graçi, Le Paradis des fous, tradotto dall’albanese da Christiane Montécot, éditions de l’Aube, La Tour-d’Aigues, 1998.

(5) Vedi «Monténégro: privatisation en famille des plus beaux hôtels», www.balkans.eu.org/article4340.html.

(6) Vedi «Croatie : la privatisation d’un hôtel pourrait faire tomber le gouvernement», www.balkans.eu.org/article2163.html, e Goran Borkovic, «Suncani Hvar-De-Ze», Feral Tribune, Split, 21 maggio 2004.

(7) Vedi «Monténégro: les galériens de Jugooceanija en grève de la faim», www.balkans.eu.org/article3223.html.

(8) Vedi Joseph Krulic, «Le problème de la délimitation des frontières slovéno-croates dans le Golfe de Piran», in Balkanologie, Parigi, VI, 1-2, 2002, pp. 69-73.

(9) Vedi i contributi riuniti in The Adriatic Sea. A Sea at Risk, a Unity of Purpose, Atene, Religion, Science Environment, 2003, in particolare lo studio di David G. Smith, «The overall environmental situation in the Adriatic Sea».

(10) Sviluppo delle specie vegetali che riducono il tasso di ossigeno dell’acqua.

(11) Vedi Pierre Cabanes (a cura di), Histoire de l’Adriatique, Seuil, Parigi, 2001.

(12) Vedi Alain Ducellier e al., Les Chemins de l’exil. Bouleversement de l’Est européen et migrations vers l’Ouest à la fin du Moyen Age, Armand Colin, Parigi,1992.

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