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L’Abkhazia va alla guerra

L’Abkhazia va alla guerra, anzi alle guerre. Da un lato c’è la partecipazione diretta al conflitto in Ucraina, dall’altro c’è quella meno cruenta ma reale per la propria indipendenza (da Mosca), messa in forse da un contesto che diventa sempre più imprevedibile

05/04/2022, Marilisa Lorusso -

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Gli abkhazi stanno combattendo in Ucraina: fra i circa 2000 soldati convogliati dal Caucaso del sud al fronte ucraino ci sono abkhazi veterani della guerra in Donbas, come Akhra Avidzba, che aveva poi capitalizzato l’esperienza militare nella vita politica della piccola repubblica secessionista, sia nuove leve. Qualche caduto è già segnalato , sia fra gli abkhazi che fra gli ossetini. Il ritorno dal fronte di circa 300 soldati da Tskhinvali che si sono rifiutati di combattere indica che l’inserimento di questo contingente non sta avvenendo con facilità.

Ma oltre alle perdite in guerra e alle perdite di guarnigioni militari russe sul proprio territorio, l’Abkhazia freme per il rischio della propria indipendenza.

Il Presidente della repubblica de facto dell’Ossezia del Sud ha annunciato che – dopo le elezioni presidenziali locali del 10 aprile – si potrebbe indire un referendum per richiedere l’annessione alla Russia. Non è una proposta nuova, la vera novità è che adesso Mosca appare ben disposta a un nuovo giro di annessioni a cominciare appunto dall’Ossezia del Sud, che verrebbe probabilmente integrata in un’unica Repubblica federata con l’Ossezia del Nord. È il secondo giro di annessioni dopo quello della Crimea del 2014 a scapito dell’integrità territoriale ucraina, e qualche politico russo ha pensato bene di includere nel conteggio dei pezzi nuovi di federazione anche l’Abkhazia.

Ma Sukhumi non è Tskhinvali. Per gli abkhazi la secessione dalla Georgia significa solo volontà di indipendenza: l’hanno scritto a chiare lettere nella costituzione i cui articoli sono stati subito richiamati dopo che sono emerse le voci di annessione. Carta costituzionale che rappresenta una tutela legale molto flebile: la tempesta di fuoco infuria sul Mar Nero e sulle sue sponde, la piccola Abkhazia, si aggrappa al suo quadro normativo non riconosciuto. Anche il nuovo parlamento, eletto a marzo, si deve confrontare con un rischio crescente di essere travolto da processi su cui non ha alcun controllo.

Il voto

In Abkhazia si è votato per il parlamento a marzo. La registrazione delle candidature si è chiusa il 2 marzo. Si sono presentati alle urne 123 candidati di cui 16 donne, per 118 iniziative e 5 partiti. I seggi del parlamento de facto abkhazo sono 35, per una popolazione di meno di 250.000 persone. La legge elettorale prevede un sistema maggioritario puro, con secondo turno in caso nessuno dei candidati superi il 50% dei voti.

Già dal primo turno, il 12 marzo, il quadro politico che stava emergendo era chiaro: 17 i candidati passati subito, 15 dei quali vicini al governo del presidente Aslan Bzhania. La maggior parte si sono presentati come indipendenti ma le affiliazioni politiche nella piccola repubblica secessionista sono note. Ha la popolazione di una città di provincia, si sa chi sta con chi. Il secondo turno, il 26 marzo, ha confermato questi esiti politici, con solo 6 o 7 seggi andati a persone che non sono più o meno affiliate al presidente. Non i numeri comunque per incidere sul processo legislativo in modo consistente. Anche per la maggioranza rafforzata bastano 24 voti.

È una situazione inusitata per Sukhumi, che ha visto in passato grossi scontri fra il parlamento e il presidente, con il parlamento pronto a bloccare le iniziative presidenziali che urtavano l’elettorato. Anzi, proprio il parlamento uscente era entrato in scontro diretto con Bzhania e aveva chiesto di rimandare le elezioni per poter votare un impeachment.

Le conseguenze

Se da una parte la frattura parlamento-presidenza ha reso difficile implementare alcune politiche, dall’altro è stata anche l’alibi per non perseguirne altre. Bzhania si è sempre dichiarato favorevole a cedere su uno dei più spinosi temi dei rapporti Russia-Abkhazia, cioè l’acquisto di immobili nella repubblica da parte di stranieri. La legge attuale tutela i cittadini abkhazi impedendo a chi non lo è di comprar casa nella regione.

La paura da parte degli abkhazi è che i russi, che hanno un ben più elevato potere d’acquisto, entrino nel mercato alterandone completamente i prezzi e diventando di fatto potenti detentori di immobili. Finora questo processo, nonostante appunto le pressioni di Mosca e il favore della presidenza a Sukhumi, era stato arginato scaricando la responsabilità su un parlamento ostile e inamovibile, espressione della pancia dell’elettorato. Ora questo alibi comincia a scricchiolare.

I turisti russi – impossibilitati a viaggiare in molti paesi e a corto di valuta straniera – si riverseranno con ogni probabilità in Abkhazia in estate. Se il mercato immobiliare si apre per allora, sicuramente in una località di mare non in prossimità di aree di conflitto il mattone fa più gola che tenere i rubli fermi, alla mercé delle intemperanze finanziare e del periodico deprezzamento, in banche che faticano e che potrebbero non fornire garanzia di tenuta nel lungo termine.

E questo è solo uno dei volti del cambiamento in corso. Le ricadute economiche della crisi ucraina non sono poche per l’Abkhazia. A un paio di settimane dall’inizio dell’aggressione in Ucraina da Mosca sono cominciati ad arrivare i primi segnali del vento che sta girando: il contributo economico che la Russia è disposta a versare per il mantenimento dell’Abkhazia si assottiglia.

La Russia – sotto pressione economica dell’esodo di catene che contribuiscono a capitoli importanti del fisco, nonché sotto quello delle sanzioni e della contrazione economica data dalla riduzione degli interscambi – fa presente a Sukhumi che è ora di camminare sulle proprie gambe. I sussidi diretti russi costituiscono metà del budget della piccola repubblica secessionista, ed è impensabile che questa possa dall’oggi al domani diventarne indipendente. L’Abkhazia è poi esclusa anche per il suo non-riconoscimento da parte delle organizzazioni capeggiate dalla Russia come l’Unione Euroasiatica, dove le economie integrate con quella russa cercano un meccanismo di coordinamento per arginare l’onda lunga delle sanzioni.

Sukhumi deve cercare altre fonti di reddito. O altri partner. Ma di nuovo: il non riconoscimento è un ostacolo per attirare investimenti diretti trasparenti, interventi di stati. E certo non si può fare affidamento su grandi esborsi da parte dei paesi che la riconoscono attualmente: Nauru, Venezuela, Nicaragua e Siria.

Una fonte di reddito sarebbe il petrolio che in una certa quantità si trova nei suoi fondali, ma fino ad ora la perforazione era stata impedita da considerazioni di impatto sull’ambiente e sull’industria turistica. Oltre a questo, è una industria che ha basso livello occupazionale e tende a generare dinamiche oligarchiche che si muovono in senso contrario al bisogno di innalzare il livello medio della vita della popolazione. Le opzioni da scegliere si stanno però drammaticamente assotigliando.

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