La Russia avvinghiata all’Ucraina
L’operazione russa in Ucraina segna la fine del legame fra due popoli, di un equilibrio continentale, o può essere l’ultimo atto suicida di quanto rimane dello stato profondo dell’URSS? Una riflessione
Il presidente Putin deve andare a dormire. Questa la versione ufficiale, in termini spicci, dell’abbandono del campo al G20 di Vladimir Putin, che avrebbe accusato il bisogno di riposo prima del rientro al lavoro il lunedì mattina. Una nota quasi imbarazzante per una leadership che ha costruito la propria comunicazione politica su un’immagine di vigore fisico e machismo. Non che si vogliano liquidare gli impegni della presidenza e non solo della presidenza, in Russia, certo.
Un lunedì intenso, sicuramente. A Yekaterinburg – informa l’Itar Tass – “il blocco post sovietico discute la creazione di un sistema congiunto di difesa missilistica e aerea”. Non proprio, il blocco post-sovietico, semmai l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (OTCS), come viene precisato poi nell’articolo. Dei paesi dell’ex URSS dell’OTSC fanno parte in sei su quindici, e non c’è nessuno degli altri sette membri del fu Patto di Varsavia. L’ultimo abbandono dell’OTSC è quello dell’Uzbekistan, mentre richiederà ancora qualche mese per diventare effettivo quello dell’Ucraina da un’altra struttura dello spazio post sovietico, la Comunità degli Stati Indipendenti (CIS), che rimarranno quindi in dieci. Un processo di disgregazione cominciato con la fine dell’URSS e di cui Mosca non riesce a invertire la tendenza. Non paiono efficaci nemmeno i riconoscimenti di nuove entità post-sovietiche, come i casi di Abkhazia e Ossezia del Sud, che porterebbero a 17 il numero dei paesi ex-URSS, ma che non possono essere integrate in organizzazioni quali l’OTSC o il CIS poiché gli altri membri non le hanno mai riconosciute. Nel giorno in cui secondo l’Itar-Tass si pianifica la difesa dello spazio post sovietico, una parte di esso è a Bruxelles, un’altra parte sta attorno Mosca, ma non pienamente nella politica estera di Mosca, una parte pare starsene in silenzio, quanto più silenzio possibile. Quel silenzio inquietante in cui arrivano gli echi dei combattimenti nell’Ucraina orientale.
La retorica del bipolarismo, oggi
Il sistema bipolare non esiste più. E’ scomparso con l’URSS un quarto di secolo fa, è rimasto nel millennio scorso. E non sarà certo la crisi in Donbas a risuscitarlo. La retorica della contrapposizione Russia–Stati Uniti può tutt’al più dare una spolverata a un frasario retrò che descriveva un altro mondo. I due paesi non rappresentano più sistemi contrapposti. Il sistema socialista non esiste più né come realtà politico-economica, né come alleanza militare. Usa e Russia sono due paesi neo-liberisti e, volendo proprio guardare bene, la forbice sociale è più accentuata nella seconda che nel primo. Per quanto riguarda poi il rapporto di forza fra i due, il peso dei due paesi è incomparabile in termini di sviluppo, di economia, di demografia, di capacità militare (soprattutto per quanti riguarda le armi convenzionali), di rete di alleanze e di capacità di pressione, o – in una parola – di egemonia.
Questo non nega la possibilità di contrapposizione, anche in qualche modo ideologica, o di identità, fra la Russia di Putin e gli Stati Uniti di Obama. Ma forse se la Russia è un’alternativa a un modello di sviluppo, ha più senso restringere la lente a livello regionale, e descriverla come un percorso altro rispetto a quello imboccato da altri paesi ex socialisti, quali i Paesi Baltici, o gli ex stati satellite, che non a caso sono tra i promotori della risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu del marzo 2014 sull’integrità territoriale dell’Ucraina e sul non riconoscimento del referendum in Crimea. Il testo della risoluzione approvata per 100 voti contro 11 era stato presentato da Canada, Costa Rica, Germania, Polonia, Lituania e Ucraina. A livello globale un rapporto di voto di 10 a 1. Su sei paesi promotori, tre e mezzo (la fu Germania Democratica) ex membri del Patto di Varsavia. Se esiste un bipolarismo oggi è tutto continentale ed intestino fra gli ex alleati. E non sarà la crisi ucraina a migliorare la situazione.
Allo stato attuale – con un sistema multipolare ancora in via di evoluzione – la Russia potrebbe essere analizzata più in chiave di potere regionale (europea o asiatica, a seconda delle prospettive) che in quella di super-potere globale. Quella che – ironia della storia – una lettura neo marxista definirebbe un’economia periferica, perché sbilanciata verso l’esportazione di materie prime, rispetto a quelle di paesi avanzati ed egemoni. Ma oltre all’economia c’è l’assetto militare che contribuisce a proiettare l’attuale crisi a livello globale: l’arsenale non convenzionale, e in particolare il nucleare. Ma questo è un tema che meriterebbe di essere trattato separatamente.
De profundis
Dell’operazione in Ucraina è visibile solo la superficie. Ma quanto profonde siano le sue radici è difficile stabilirlo. Nell’ultimo anno alcuni processi in Russia hanno cominciato ad accelerare. Non fenomeni sparsi ma processi correlati, che paiono concorrere a creare un nuovo sistema di valori: dalla legge sulla propaganda dell’omosessualità (giugno 2013), a quella sulla sovranità digitale, alla nuova legge sui media (ottobre 2014), a quella sull’utilizzo di parole straniere (giugno 2014), sulle parolacce (luglio 2014), a quella sulla blasfemia, sulle ONG, sui blog (sempre lo scorso ottobre)… in un solo anno e mezzo, anche se la virata era evidente già dell’inizio del terzo mandato del presidente Putin.
Il tutto è stato interpretato da alcuni come la progressiva instaurazione di un sistema dispotico, mentre le misure sono state salutate positivamente da correnti conservatrici dentro e fuori la Russia: curiosamente anche in veste anti-occidentale, come se la riflessione sulla libertà o sui diritti non appartenesse alla cultura russa. Certo, una grossolana banalizzazione.
Al di là delle interpretazioni e dell’uso strumentale di questo processo, la questione che si solleva è chi stia esprimendo i bisogni che sottostanno a questa ondata liberticida, autoreferenziale e reazionaria.
Qui il quadro si fa ancora più fosco: è lo stato profondo, questo non trasparente nucleo governante che – al di là delle finalità politiche – sta esprimendo un quasi furibondo attaccamento alla mitopoiesi della “russità”? Quelle che arrivano in superficie e diventano operazioni frenetiche e misure che paiono in uno stato di continua reazione a emergenze forse più percepite che reali, sono le voci dall’abisso dei corridoi dell’ex KGB? Cosa scorre sotto i termini – al contrario – volutamente pacati anche nella più assurda e grottesca delle situazioni, quale di fatto è una guerra russi-ucraini?
Il De profundis è una orazione funebre. E si sta qui, in bilico, senza capire se questa crisi che avviluppa la Russia all’Ucraina segni il funerale di un territorio, di una parte di un popolo, del legame fra due popoli, di un equilibrio continentale, o se possa essere l’ultimo atto suicida di quanto rimane dello stato profondo dell’URSS, sempre più asserragliato in impenetrabili corridoi.
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