La rotta balcanica non si ferma
Prosegue il transito sulla rotta balcanica nonostante la presunta chiusura a marzo. Le proteste dei migranti nella capitale serba e la situazione in Ungheria
Da quando la rotta balcanica è stata dichiarata chiusa a marzo, Belgrado è diventata una tappa obbligatoria per coloro che, provenienti da Macedonia e Bulgaria, continuano a tentare di entrare in Europa. Molti sono infatti i migranti rimasti bloccati in Serbia senza possibilità di proseguire il loro viaggio, la maggior parte delle volte dopo essere stati respinti dalle autorità ungheresi in territorio serbo.
A fine luglio la situazione nella capitale appariva particolarmente tesa: il termometro segnava 38 gradi, molti migranti cercavano riparo e refrigerio nei parchi di fronte alla stazione, progressivamente recintati dalle autorità cittadine. In risposta alla recinzione dei parchi di Belgrado, e alle restrizioni all’entrata in Europa, alcuni di coloro che stazionavano nei parchi hanno deciso di far sentire la loro voce con un atto di protesta.
La marcia della speranza
Il 22 luglio, un gruppo di migranti bloccati a Belgrado ha organizzato una protesta contro la chiusura dei confini. Dopo aver rifiutato il cibo offerto dai volontari, hanno sigillato le loro bocche con del nastro adesivo, ed esposto striscioni che dicevano: “Se volete fermare i rifugiati fermate le guerre” e “Scappare non è un crimine”. La sera stessa centinaia di uomini provenienti da Pakistan, Afghanistan e Iraq, hanno cominciato a camminare diretti verso il confine con l’Ungheria. In alcuni giorni hanno percorso i 200 km che separano Belgrado da Horgoš, al confine ungherese. Una volta arrivati, hanno cominciato uno sciopero della fame, che è proseguito per alcuni giorni nonostante i ricoveri in ospedale per molti di loro, stremati da caldo, fatica e mancanza di cibo. Dopo cinque giorni di sciopero della fame, in circa 120 sono stati portati dalla polizia in un centro di accoglienza vicino al confine con la Bosnia Erzegovina.
Da quando anche la Croazia ha chiuso le frontiere, l’Ungheria rimane l’unica opzione per poter entrare in Europa. Chi varca il confine illegalmente lo fa affidandosi agli smugglers, i trafficanti che bazzicano in particolare i parchi di Belgrado. Molti di coloro che tentano di entrare legalmente nel paese sono ospitati nei dintorni della città di Subotica, in un campo attrezzato gestito dalle autorità statali serbe. Qui hanno accesso a docce, servizi igienici ed elettricità, ma a causa del sovraffollamento, da fine luglio molte persone si trovavano costrette a dormire in tende al di fuori della struttura di accoglienza. Ad affollare il centro, assieme ai nuovi arrivati, i molti respinti dalle autorità ungheresi in Serbia. I respingimenti dall’Ungheria sono sempre più frequenti: in base ad una recente modifica alla legge sull’immigrazione, le autorità ungheresi hanno il diritto di respingere in Serbia chiunque abbia attraversato il confine illegalmente e venga catturato nei primi 8 chilometri di territorio ungherese.
Horgoš, la nuova Idomeni
Il modo per poter attraversare legalmente la frontiera è attraverso le due zone di transito al confine con la Serbia: Kelebija e Horgoš. Qui ci sono due campi improvvisati, auto-organizzati e praticamente auto-gestiti. Il campo di Horgoš si trova in un terreno situato lungo il filo spinato che separa la Serbia dall’Ungheria. La zona appartiene di fatto al territorio ungherese, dato che la recinzione che separa i due stati si trova cinque metri all’interno del territorio ungherese. Il campo è lungo l’autostrada, vicino al confine ufficiale di Röskze-Horgoš. I migranti devono percorrere l’autostrada per circa un’ora e mezza per poter raggiungere il primo supermercato. Il campo di Kelebija è di più facile accesso ed il supermercato dove poter ricaricare i telefoni e comprare generi di prima necessità è più vicino. Eppure, riporta il sito Moving Europe, anche a Kelebija mancano le infrastrutture, cibo e materiale igienico di base, mentre sacchi di spazzatura si accumulano vicino alle tende dove dormono i migranti in attesa di varcare il confine.
Non ci sono docce né a Kelebija né ad Horgoš, e per dormire ci si organizza in tende o in alloggi di fortuna, non essendoci altri mezzi a disposizione per potersi mettere al riparo dal caldo e dalle intemperie. Dato che le autorità ungheresi vietano di distribuire tende, queste passano di famiglia in famiglia, mentre alcune sono state portate da Belgrado. Durante il giorno UNHCR, IOM e alcune organizzazioni non governative distribuiscono coperte e vestiti, mentre volontari indipendenti quotidianamente si recano nei campi per distribuire alimenti e beni di prima necessità. La newsletter dell’organizzazione croata «Are you Syrious?», creata per offrire supporto ai rifugiati che transitano lungo la rotta balcanica, ha diffuso in questi giorni l’appello di alcuni volontari alla ricerca di un furgone per poter continuare la distribuzione auto-organizzata di viveri nel campo di Horgoš.
Le autorità ungheresi accettano solamente 30 persone al giorno: 15 dal campo di Kelebija, altrettante da quello di Horgoš. Di questi, 14 sono membri di famiglie, mentre un unico maschio che viaggia solo è ammesso. L’attesa per poter attraversare la frontiera varia da due settimane a più di un mese, ma i tempi si allungano per gli individui di sesso maschile che compongono la maggioranza delle persone in transito. I dati forniti dal New Internationalist Magazine riportano al momento più di 400 persone ferme ad Horgoš e circa 200 a Kelebija, anche se il numero continua ad aumentare ed è destinato a crescere a causa dei continui arrivi da Belgrado.
Una sorta di capo-comunità gestisce la lista di attesa in ogni campo, in cui sono riportati i nomi in ordine di arrivo. La lista viene consegnata ogni mattina alle autorità ungheresi. A Kelebija si trovano soprattutto migranti di lingua araba o curda, mentre ad Horgoš si parla prevalentemente farsi.
Gli invisibili di Belgrado
Mentre centinaia di migranti si trovano al confine con l’Ungheria, a Belgrado, dopo la quasi totale recinzione dei parchi, molti di loro sono diventati invisibili. Si vedono nei parchi durante la distribuzione dei pasti, mentre di notte si trovano costretti a dormire in depositi abbandonati, in piccoli gruppi o da soli per non dare troppo nell’occhio. Questo li espone a rischi ulteriori di essere derubati, maltrattati e, nel caso particolare delle donne, esposte a violenze. Se prima i migranti erano relegati alla periferia della capitale, ora si trovano ancora di più ai margini.
A Belgrado chiedo ad un operatore umanitario che coordina i volontari che visitano ogni giorno i parchi per portare viveri, fornire assistenza medica o supporto psicologico ai migranti come sia cambiata la situazione dall’estate precedente, quando l’emergenza rifugiati lungo la rotta balcanica occupava le prime pagine dei giornali. Mi guarda sconsolato e risponde: "È peggio di prima. Nonostante le frontiere siano chiuse, il flusso di migranti non si arresta. Le persone non smettono di scappare da guerre e fame, né di tentare di passare le frontiere. Il punto è che, un anno dopo, siamo di nuovo al punto di partenza".
*Chiara Milan è dottoranda presso l’Istituto Universitario Europeo e ricercatrice della Scuola Normale Superiore nell’ambito del progetto Collective action and the refugee crisis , che si occupa di studiare mobilitazioni, iniziative di solidarietà e supporto ai rifugiati organizzate dalle comunità ed attivisti locali lungo la rotta balcanica.
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