La rivolta per i beni comuni
Da Maribor a Taksim, passando per Sarajevo, un’ondata di proteste scuote i paesi della periferia mediterranea. Al centro della rivolta ci sono i beni comuni e la necessità di proteggerli di fronte al fallimento del neoliberismo e dei processi di democratizzazione
(Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul Council for European Studies della Columbia University)
Da Maribor a Istanbul, proteste e movimenti sociali hanno scosso il sistema politico dei paesi del sud-est Europa negli ultimi anni. Questi movimenti eterogenei sono parte di una grande ondata di movimenti sociali che hanno attraversato la regione mediterranea. Infatti, per quanto le proteste abbiano avuto luogo a livello globale, da “Occupy Wall Street” a Maidan Square in Ucraina, il cuore della protesta è stata l’area mediterranea, basti bensare alla "Primavera Araba" o allo scontento manifestato da molti cittadini dei paesi democratici della sponda settentrionale del Mediterraneo. Osservando questi movimenti nel più ampio contesto regionale, è possibile identificare dei tratti in comune che vanno oltre un particolare tipo di regime politico. Così come è osservabile che le diverse proteste utilizzano schemi simili e sono in contatto tra loro.
Le proteste in Europa sud-orientale sono la manifestazione di un fenomeno più ampio che interessa paesi che condividono (formalmente) sistemi politici democratici e che risultano particolarmente colpiti dalla crisi economica e dalle sue conseguenze. Condividono anche il fatto di svolgersi alla periferia europea, dove la sensazione di impotenza è aggravata da élite irresponsabili e da una (percepita) assenza di capacità di intervento sui processi socio-economici.
Il processo di europeizzazione (l’adozione di norme e regole dell’UE) e di ricezione delle politiche europee ha condotto a numerose riforme negli ultimi decenni. Allo stesso tempo, questo processo è stato presentato dalle élite locali come senza alternative, ed è quindi servito come uno strumento per avanzare il perseguimento di interessi particolari. E’ per questo motivo che i movimenti sociali hanno cercato di rivendicare capacità di azione e di scelta.
La necessità dei beni comuni
I movimenti sociali hanno toccato una serie di questioni e preoccupazioni, dall’austerità alla privatizzazione dello spazio pubblico, dalla debolezza dei sistemi di welfare alla privatizzazione dei servizi pubblici, ma anche povertà, corruzione, inefficienza burocratica, questione ambientale e tendenze autoritarie.
Praticamente ogni paese della regione ha avuto proteste di massa. Se i movimenti anti-austerità in Grecia e l’opposizione popolare alla trasformazione di Gezy Park ad Istanbul (ed i relativi tentativi del governo di contenere violentemente le manifestazioni) sono stati i più eclatanti, nessun paese è stato risparmiato dall’emergere dei nuovi movimenti sociali.
Molte proteste si sono concentrate su questioni specifiche e concrete, come gli spazi pubblici, le multe ingiustificate o i progetti di estrazione mineraria, ma le manifestazioni hanno spesso veicolato un più ampio scontento politico e sociale, mobilitando i cittadini per chiedere fondamentali trasformazioni socio-politiche.
Le proteste hanno contribuito alla caduta del governo in Slovenia, alle dimissioni del primo ministro bulgaro Boyko Borisov e all’abbandono di politiche e pratiche impopolari come la legge sulla sanità in Romania. Forse in modo significativo stanno portando alla creazione di attori politici e sociali dinamici e nuovi, e a un riallineamento nello spazio politico.
La tragedia dei beni comuni
Nel 1968 Garret Hardin, nel suo influente saggio "The Tragedy of the Commons", sosteneva che i beni comuni sono facilmente dilapidati da individui che cercano di massimizzare il proprio interesse di breve termine a detrimento del bene comune. La risposta moderna a questo problema di azione collettiva è lo stato, entità che può regolamentare i beni comuni e prevenirne l’esaurimento.
Le proteste che hanno scosso i governi in Europa sud-orientale portano alla nostra attenzione una nuova tragedia dei beni comuni: cosa succede se lo stato non ha la volontà o la capacità di proteggere i beni comuni? Il dilemma non è nuovo, e l’abuso dei beni comuni a vantaggio di pochi è stato a lungo una caratteristica dei sistemi politici nel mondo intero. Tuttavia, questa dinamica non è stata così centrale per i movimenti sociali fino ad ora. Le ondate di protesta degli anni ’70 e ’80, culminate nel 1989, erano rivolte a contestare i regimi autoritari e totalitari, mentre le recenti proteste prendono di mira sia democrazie che regimi autoritari. Entrambi condividono élite percepite come indifferenti ai beni comuni e favorevoli agli interessi di gruppi ristretti.
Le recenti proteste sono infatti esplose per difendere i beni comuni dagli interessi privati, spesso commerciali. Si pensi alla trasformazione di Gezi Park ad Istanbul in uno shopping center e a ciò che ha innescato, oppure al caso di Picin Park, che ha scatenato proteste simili a quelle turche nella seconda città più grande della Bosnia, Banja Luka, o ancora al caso di un progetto simile a Tirana. Tutto questo mentre nella vicina Skopje, capitale della Macedonia, gli studenti di architettura ed i cittadini protestano contro la trasformazione del centro della città voluta dal governo e dal grande progetto "Skopje 2014". A Maribor, in Slovenia, non c’era un parco al centro dell’attenzione quando nel novembre 2012 sono iniziate le proteste, dopo che il sindaco Franc Kangler ha firmato una partnership con un’azienda privata per un sistema di gestione del traffico. Mentre l’azienda intascava gran parte dei profitti, però, i cittadini ricevevano multe ingiustificate. In Romania, il bene comune è il territorio. Qui il progetto di estrazione mineraria a Roșia Montană minaccia di deturpare il paesaggio con miniere d’oro a cielo aperto.
La sconfitta dei beni comuni
Un’altra dimensione della “sconfitta” è stata l’incapacità delle élite politiche di agire a tutela dei beni comuni. Nella capitale bosniaca, Sarajevo, i manifestanti hanno bloccato il Parlamento nel giugno del 2013 perché non riusciva ad approvare una legge per uscire dall’impasse del numero identificativo, che impedisce ai nuovi nati di ottenere documenti di identità e quindi passaporti per l’espatrio. Questione che può essere di importanza vitale per i bambini che hanno bisogno di cure all’estero.
In Bulgaria, due ondate di proteste hanno segnato la politica del paese nel 2013. Le prime, da gennaio a marzo 2013, erano rivolte a contestare i prezzi troppo alti dell’elettricità, e più in generale l’élite politica incapace di rappresentare gli interessi dei cittadini. Dopo le elezioni anticipate il nuovo governo ha nominato un controverso magnate dei media alla guida della sicurezza del paese, generando una seconda ondata di proteste. Si è trattato anche in questo caso di proteste che hanno preso di mire le élite politiche e la loro incapacità di pensare al bene comune contro gli interessi particolari. Anche la Grecia ha assistito ad ondate multiple di proteste, soprattutto dal 2010 al 2012, contro le misure di austerità del governo.
Queste proteste condividono molte caratteristiche con altri movimenti in tutto il mondo, in particolare nella regione mediterranea, dalla Spagna all’Egitto. Mentre nel mondo arabo ad essere presi di mira sono stati i governi autoritari, nei paesi a nord del Mediterraneo i manifestanti hanno espresso la loro frustrazione per i governi democraticamente eletti. Tutti condividono un sentimento di ingiustizia nei confronti del modo in cui le autorità amministrano la cosa pubblica, lo spazio pubblico, e lo stato.
L’aspetto sicuramente più caratteristico delle proteste che stanno avendo luogo nei paesi dell’Europa sud-orientale è che esse interessano democrazie che hanno vissuto profonde trasformazioni a partire dagli anni Novanta. Le rivendicazioni espresse nelle proteste evidenziano l’inadeguatezza delle transizioni democratiche. L’introduzione della democrazia rappresentativa e dell’economia di mercato non ha portato all’istituzione di efficienti sistemi di governance basati sui beni comuni. Se in alcuni casi le proteste esprimono differenze ideologiche sul ruolo dello stato e la misura in cui i beni pubblici dovrebbero essere privatizzati, molto spesso lo scontento dei cittadini è meno ideologico e si concentra sull’evidente "accaparramento dello stato" da parte di élite politiche predatrici.
Network informali di interessi privati hanno dominato i partiti e, per estensione lo stato, nei paesi post-comunisti della regione. Il ricorso al discorso dell’europeizzazione e la rappresentazione di interessi formulati in termini etno-nazionali sono stati usati per mascherare interessi particolari e portare ad un indebolimento dello stato. Questa dinamica è stata rafforzata dalle riforme neoliberiste e da una lettura social-democratica dello stato da parte della maggioranza dei cittadini nella regione.
A partire dal 2008 la crisi economica globale è stata portatrice di proteste contro le difficoltà socio-economiche e l’austerità. Di conseguenza, il successo delle proteste non può essere misurato dalle dimissioni di un governo o dal semplice accoglimento di una richiesta particolare perché, se questi fossero gli standard di riferimento, molte manifestazioni avrebbero avuto successo. Ad essere sfidato è il più ampio paradigma della transizione democratica ed economica, ma manca un’alternativa chiara.
L’UE ed il processo di integrazione non hanno dato una risposta alla questione di come controllare le élite politiche e fare in modo che agiscano nell’interesse del bene comune. Questo in parte è vero perché l’allargamento dell’Unione ha fallito nel trasformare sufficientemente il sistema politico dei paesi dell’area, e manca di meccanismi di monitoraggio della governance una volta che un paese è membro dell’Unione.
Quale Europa?
Il discorso dell’europeizzazione e dell’integrazione europea è diventato così onnipresente da essere condiviso dal governo turco di Recep Tayyip Erdoğan e dai manifestanti di piazza Taksim, dalle élite etnonazionaliste in Bosnia e da chi si oppone ad esse, dai governi così come dagli oppositori di quei governi. Un consenso così ampio non fa altro che indebolire la capacità trasformativa dell’Unione europea.
I gruppi di sinistra, espressi in alcuni segmenti della protesta e dal più importante dei nuovi partiti di sinistra nell’area (Syriza in Grecia), cercano di mettere in discussione il modello di Unione presentando modelli economici e politici alternativi. Ma questo tentativo è ancora assai vago e molta parte del dibattito rimane incentrato più su quello a cui questi gruppi si oppongono che su quali possono essere le alternative. Essi ignorano anche il fatto che l’economia di mercato e la democrazia rappresentativa non sono un problema in sé, come è dimostrato in Europa ed in altre parti del mondo.
Il cuore del problema sono le istituzioni deboli, facile preda di partiti mossi da interessi ristretti. Ma è difficile trasformare il panorama istituzionale e creare alternative politiche che possano rompere questi schemi. Per questo le proteste si sono calmate nell’intera regione, anche se molte rivendicazioni resistono. E la nuova tragedia dei beni comuni resta e riguarda il modo in cui lo stato definisce e protegge i beni comuni.
Oltre il paradigma del post-Comunismo
La ricerca su questi nuovi movimenti sociali riflette molti dei dilemmi che interessano i movimenti stessi. Da un lato i ricercatori che adottano una prospettiva neo-marxista sono scettici nei confronti delle politiche neo-liberiste e delle conseguenze della crisi economica globale. Dall’altro lato gli studiosi dei processi di democratizzazione si concentrano più sulle inadeguatezze della democrazia e dello stato di diritto nei paesi attraversati dai movimenti di massa. Queste diverse letture portano a visioni divergenti sul fatto che l’Unione europea e il processo di integrazione sia causa delle ingiustizie sociali causate dalle riforme neoliberiste o strumento per rimediare alle inadeguatezze delle democrazie non consolidate.
Piuttosto che vedere questi due approcci come alternative non conciliabili, è importante evidenziarne le caratteristiche in comune. La critica alle politiche neoliberiste aiuta a capire come le trasformazioni economiche e politiche non siano riuscite a rendere gli stati capaci di rispondere ai bisogni dei cittadini e a proteggerli da élite predatrici. L’enfasi sulla democratizzazione e sullo stato di diritto evidenzia perché alcune economie liberal-democratiche sono state capaci di mitigare gli effetti della crisi economica e restare attente ai bisogni delle persone. Dunque un’agenda di ricerca feconda deve riflettere una pluralità di approcci, piuttosto che ridursi ad abbracciarne uno solo.
Il fatto che le proteste abbiano attraversato sia i paesi post-comunisti che le democrazie che non hanno vissuto l’esperienza del comunismo e della transizione, suggerisce la necessità di riconsiderare la categoria del post-comunismo come paradigma analitico per studiare l’Europa sud-orientale e di guardare, piuttosto, alla regione nel suo complesso, includendo anche la Grecia e la Turchia.
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