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La Pristina del cemento selvaggio

Dal punto di vista architettonico Pristina è un vaso di Pandora riempito di edifici abusivi. Molti infatti degli edifici successivi al 1999 sarebbero stati costruiti senza i permessi. Anche perché, dalla fine della guerra al 2005, era impossibile ottenere licenze edilizie

02/09/2014, Adem Ferizaj -

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(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 il 15 luglio 2014 e selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e Osservatorio Balcani e Caucaso)

Se si risalgono sino in cima le squallide scalinate di Arbëri, il distretto delle ambasciate di Pristina, si è premiati da una vista panoramica sulla capitale del Kosovo. Lo stadio, proprio di fronte ai vostri occhi, col suo prato sembra essere l’unico polmone verde della città. Tutto il resto che scorgerete attorno al campo da calcio è cemento: facciate al grezzo in mattoni, affiancate da condomini del periodo socialista dai colori ormai sbiaditi e, in mezzo a loro, sfolgoranti edifici in stile moderno azzurro-verdi. Dalla collina di Arbëri sembra che gli edifici di Pristina siano impilati uno sull’altro.

L’anarchia edilizia di Pristina risulta dalla debole, se non assente, presenza regolatrice delle istituzioni statali dopo la fine della guerra nel 1999. A quel tempo i profughi che si erano riparati nel mondo intero e kosovari di altre città del paese si concentrarono in massa su Pristina. Di conseguenza la domanda di case aumentò considerevolmente e venne dato avvio ad un vero e proprio boom edilizio.

Kai Vöckler è direttore del dipartimento Sud-est Europa dell’Ong Archis Interventions, che si occupa di pianificazione urbana. Le sue prime impressioni, quando ha conosciuto Pristina nel 2005, furono di “un’attività edilizia deregolata che sembra aver colpito questa città in un modo e con un’intensità che non ho mai visto prima”.

Nei primi sei anni succeduti alla guerra del resto non vi era alcuna possibilità: l’attività edilizia non poteva che essere illegale e deregolata non essendo possibile ottenere una licenza edilizia in Kosovo. E’ comunque stupefacente che si siano impiegati sei anni a rendere operativa la concessione di licenze edilizie.

Secondo Visar Geci, architetto kosovaro e tra i fondatori di Archis Interventions, la maggior ragione di quanto accaduto è legato alla corruzione: “Un ispettore tollerava l’inizio dei lavori e assicurava ulteriori visite. Poi un altro ispettore scopriva l’abuso e intascava un’altra mazzetta. Il giochino veniva ripetuto più volte durante l’attività di costruzione. Nessuno di questi edifici è stato finito se non pagando qualche migliaio di euro di questi ‘costi extra’”.

Dopo la sua elezione, nel dicembre 2013, l’attuale sindaco di Pristina, Shpend Ahmeti (del partito Vetëvendosje) ha dichiarato guerra agli abusi edilizi. “Vi è il crimine organizzato collegato al mondo dell’edilizia. Vi troviamo riciclaggio di denaro sporco, nepotismo e corruzione” ha dichiarato il sindaco al quotidiano inglese The Guardian “tutto questo tocca il culmine nel settore del mattone… e quindi è una priorità dare proprio qui un segnale relativo allo stato di diritto”.

La capitale kosovara è sopravvissuta alla guerra, almeno dal punto di vista dell’architettura. Ciononostante, nel processo di ristrutturazione post-guerra, a Pristina si è distrutto circa il 75% della struttura preesistente, inclusi grandi fette della città storica. Da questa prospettiva lo stesso nome Pristina, che contiene la parola albanese me prish (distruggere), è divenuta una profezia che si è poi realizzata.

Lo sviluppo incontrollato di Pristina è risultato, secondo Kai Vöckler , in uno stile-libero “vittoriano-classicista-orientale-americano”. “L’architettura è tutto” ha detto Geci a Kosovo 2.0. E la mania edilizia del dopoguerra di Pristina è, in effetti, un fenomeno che ha coinvolto l’intera società: da famiglie che si costruiscono da sole la casa a uomini d’affari in cerca di spazio per le proprie imprese.

Le forze motrici dello sviluppo urbano in Kosovo – come ovunque nel sud-est Europa – sono i gruppi famigliari. Da questo punto di vista la società kosovara rappresenta un caso estremo, come una ricerca dell’ESI ha già ben evidenziato nel 2006: è la famiglia estesa patriarcale, una delle istituzioni sociali più antiche in Europa, l’essenza del Kosovo. In questa luce il panorama sconnesso e sconcertante dell’architettura di Pristina – data anche dall’essenza di fatto degli architetti nelle fasi della costruzione degli edifici – è emblematico del modello sociale obsoleto che domina in Kosovo.

E’ stupefacente invece constatare come gli edifici in gran parte non progettati da professionisti non rappresentino però un pericolo. Kai Vöckler scrive in una sua ricerca titolata Turbo-Urbanismus. Stadtentwicklung in Postkonfliktsituationen (Turbo-Urbanismo. Sviluppo urbano nelle aree di post conflitto), pubblicato nel 2008: “[…] non vi sono veri e propri problemi legati alla sicurezza, se si tralascia alcuni difetti di sicurezza elementari come la mancanza di vie di fuga anti-incendio”.

Dal punto di vista architettonico Pristina è un vaso di Pandora aperto, pieno di costruzioni abusive. E quindi, molto è il lavoro che deve essere fatto. Il mito greco del Vaso di Pandora contiene però un elemento positivo: la speranza.

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