La polvere del mondo: partire è come nascere un’altra volta
Una recensione che percorre l’impatto sensuale di "La polvere del mondo", capolavoro di Nicolas Bouvier da poco ripubblicato da Feltrinelli dopo essere uscito per la prima volta in Italia nel 2009 grazie a Diabasis
Non perdete tempo a leggere questa recensione, vi dico parafrasando Paolo Rumiz che come me è innamorato de La polvere del mondo. O invece sì, leggete questa, che non è una recensione ma una dichiarazione d’amore per L’usage du monde, traduzione dall’originale capolavoro di Nicolas Bouvier, del 1963, ripubblicato ora da Feltrinelli . Io l’ho nella prima traduzione italiana del 2009, bellissima anche editorialmente, per i tipi delle Edizioni Diabasis, che ha in copertina una riuscita elaborazione grafica di un disegno di Thierry Vernet, amico e compagno di viaggio dell’autore. Me la regalò, in un giorno ventoso d’autunno, Alessandro Scansani che, insieme a Giuliana Manfredi, di Diabasis erano gli illuminati anfitrioni. Con occhi scintillanti di gioia mi invitò a una lettura attenta e appassionata, senza aggiungere nient’altro, perché lui per primo riteneva che un libro del genere non avesse bisogno di presentazioni.
Ci si innamora subito, alla prima pagina, leggendo una lettera inviata all’autore da Travnik, in Bosnia, dall’amico pittore Thierry: «Stasera sono stato a bere un goccio sotto le acacie per ascoltare gli tzigani che, davvero, superano se stessi. Sulla via del ritorno ho comprato una grossa pasta di mandorle, rosa e oleosa. L’Oriente insomma!». Bouvier legge la lettera durante una sosta a Zagabria, e nelle due pagine successive sintetizza il come e il quando, il dove e il perché del viaggio, con efficace, felice scarsezza – annota la traduttrice Maria Teresa Giaveri.
Come? Con una Topolino revisionata per l’occasione. Quando? In due anni, tra il 1953 e il 1954, avendo soldi per soli quattro mesi. Dove? Attraversando Turchia, Iran, India «e forse ancora più in là…».
Circa il perché, lascio a lui la parola: «È la contemplazione silenziosa degli atlanti, a pancia in giù su un tappeto, tra i dieci e i tredici anni, che dà la voglia di piantar tutto. Pensate a regioni come il Banato, il Caspio, il Kashmir, alle musiche che vi risuonano, agli sguardi che vi si incrociano, alle idee che vi aspettano..».
Ma provo a rallentare, tra le pagine, a non farmi prendere ancora una volta dalla irrefrenabile voglia di rincorrere come un bambino quella Topolino che spesso arranca «con l’orribile canto del motore in seconda», su quelle terribili, primitive, magnifiche strade bianche che dai Balcani portavano a Alexandroupolis, Costantinopoli, Ankara, Trebisonda, Tabriz dove Bouvier si ferma per molto tempo, Teheran città colta, Persepoli città «che non era ancora stata terminata quando i greci la diedero alle fiamme»; Kerman con i suoi giardini e tappeti arabescati rosa e blu, Quetta, 1.800 metri, 80.000 anime, 20.000 cammelli; Kandahar, «fresca e sonora che traboccava di fichi e d’uva come un paniere»; Kabul, «cinta di pioppi, le montagne viola fumiganti d’un sottile stato di neve e gli aquiloni che si librano nel cielo autunnale sopra il bazar» fino all’Hindukush che separa due mondi.
Immaginando Belgrado
Oggi invece, rileggendolo, m’aggiro con passo da flâneur per le strade di Belgrado, lì dove Bouvier fa incominciare il racconto del viaggio, in direzione del cuore dell’Asia. Non da Ginevra da dove era partito nel giugno del 1953, ma da 1300 chilometri più a est, da Belgrado. Non dalle tranquille e limpide acque del Lago Lemano, ma da quelle fluenti del Danubio, lì dove il fiume s’accoppia con la terrosa Sava, dove acque e culture mitteleuropee si mescolano definitivamente a quelle slave. Bouvier non lo scrive, ma io lo leggo a chiare lettere: Belgrado era ed è la porta principale di collegamento terrestre tra Europa e Asia, città-frontiera tra due mondi. Belgrado è per il viaggiatore terrestre quello che Venezia è per quello marino. Porta e porto d’Oriente.
In una Belgrado ancora segnata dagli anni neri dell’occupazione e della guerra civile, Bouvier scopre un mondo frugale e ospitale, povero e regale. I serbi «non sono soltanto d’una generosità meravigliosa, ma hanno inoltre conservato l’antico senso del banchetto; una festa gioiosa che ha valore d’esorcismo». Per quanto leggere o pesanti siano le situazioni, l’uomo «lo si riconforta con delle formidabili bevute, lo si circonda di calore, gli si riempie la testa di musica mirabile».
Sono proprio le musiche, i sapori e gli odori che tengono vivo negli anni il mio innamoramento per questo libro. È un piacere innanzitutto carnale che vado cercando e che trovo tutte le volte che lo riapro. Con Nicolas e Thierry faccio scorpacciate di melanzane, spiedini, meloni, a Belgrado «in oscure cucine, in salottini di fraterna bruttezza», mentre a Kragujevac, «birra per stuzzicare l’appetito, salame, crostata di formaggio ricoperta di crema acida», circondati da amici musicisti che girano intorno al tavolo facendo volare dita quadrate sui tasti della fisarmonica. Poi «cotolette impanate, rissoles di carne, vino bianco», mentre tra i tavoli impazza il «kolo, il ballo in cerchio che fa girare tutta la Iugoslavia, dalla Macedonia alla frontiera ungherese». Infine «lardo, crêpe alla marmellata, liquore di prugne distillato due volte», seduti a tavola fino alle quattro del pomeriggio.
Ripartire
Se questo è solo un appetitoso, pasticciato, assaggio del libro, non sarebbe giusto non accennare alle acute osservazioni di Bouvier sul paesaggio geografico e culturale. Mi limito a trascrivere due righe, che risuonano alle mie orecchie di italiano come un avviso ai naviganti, in un pelago oscuro e affascinante: «La Francia può ben essere – come i serbi amavano ripeterci – il cervello dell’Europa, ma i Balcani ne sono il cuore, di cui mai abbastanza ci si servirà.»
Ma questa mattina i cieli e le acque adriatiche sono plumbei e non è questo che cerco tra le pagine. Voglio invece commuovermi ascoltando le canzoni sevda di Bosnia, per poi ridere bevendo šljivovica e chiacchierando ai tavoli sotto i platani di Sarajevo, con gli tzigani dell’orchestra nei loro completi consumati, che si danno un «gran da fare con i loro strumenti come se bisognasse liberare al più presto il mondo da un peso intollerabile».
Rileggendolo in queste ormai lunghe settimane di isolamento, c’è un altro aforisma di Bouvier che risuona potente come un sutra: «Partire è come nascere un’altra volta.». Ho una voglia matta di partire.
Tutti i vagabondi hanno un gran bisogno della polvere del mondo, quella che respiriamo camminando e pedalando, quella che sogniamo andando con Bouvier fino al passo di Khyber sulla frontiera afghana, «indimenticabile, soprattutto la luce… o le dimensioni… o forse l’eco, ma come spiegarlo?».
In questa fredda, grigia, piovosa, domenica di gennaio, quando ancora una volta qualche pagina de “La polvere del mondo” ha lenito le mie malinconie nomadi, voglio ricordare il maestro e l’amico Alessandro Scansani che mi fece questo prezioso regalo. Lo faccio condividendo il suo invito al viaggio, il suo haiku operaio in forma di colophon, con cui ogni volta, come editore, suggellava i libri prima della stampa. Per Bouvier ha scritto: «Poema / dello sguardo / e dell’anima aperti / alla polvere del mondo / con l’innocenza e l’umiltà / di cui lo scrittore nomade è capace / questo libro vede la luce della stampa …».
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