La pallanuoto tra due mondi
Le storie di due generazioni di olimpionici della pallanuoto: i cambiamenti nello sport, i cambiamenti nella società
(Pubblicato originariamente da Balkan Insight il 27 novembre 2014, titolo originale Building Bridges Over Troubled Water)
Per lo scrittore francese Stendhal, che visitò Fiume nel gennaio del 1831, quando la città era ancora parte dell’Impero austro-ungarico, “il suo clima e la sua posizione sono magnifici”. Fiume era però anche “il punto ultimo della civilizzazione”.
Per Zdravko-Ćiro Kovačić questa città portuale croata è semplicemente il posto che ama. Se si decide di godersi il sole della mattina nel giardino vecchio stile dell’Hotel Continental si potrebbe anche incontrarlo. I suoi movimenti decisi cancellano i molti anni che al sua schiena leggermente ricurva porta. Si lamenta del male alle gambe. E le gambe sono un elemento fondamentale della pallanuoto, lo sport al quale ha dato così tanto. “Auguro a tutti di ricevere dallo sport quanto ho ricevuto io”, dice dolcemente.
Kovačić è uno dei due sopravvissuti della generazione che ha vinto la prima medaglia olimpica nella pallanuoto per la Jugoslavia nel 1952 ed è testimone di come il cambio di rotta nella politica dei Balcani abbia causato grandi mutamenti anche a livello sportivo. La storia della pallanuoto nella regione, una delle quali nel mondo è maggiormente seguito, è anche la storia di una rinascita sociale.
Kovačić è croato di nascita e cosmopolita per scelta. “Il nostro caro segnore Ćiro", lo chiamano i suoi concittadini, con termini da cui trapela l’influenza italiana in città. E’ tra gli olimpionici più anziani in vita nei Balcani. Le sue parole riportano in vita molte persone, posti, fatti avvenuti… Ha incrociato molte persone nei suoi 89 anni di vita. “Mi rende triste pensare a tutti i miei amici che non ci sono più…”, quasi sospira, con una lacrima che gli riga la guancia.
La pallanuoto era un chiodo fisso della scena sportiva balcanica per tutto il comunismo, durante le guerre nazionaliste degli anni ’90 e lo è tutt’ora, in un periodo in cui seppur lentamente stanno migliorando le relazioni tra gli stati sorti dalla disgregazione violenta della Jugoslavia. Lo scorso ottobre le squadre di club di Serbia, Croazia e Montenegro – le cui nazionali si sono classificate tra le prime quattro ai Giochi olimpici di Londra – hanno iniziato a competere in un campionato unitario, per la prima volta da decenni.
Dalla pallanuoto ad Apollo
Nonostante i drastici cambiamenti avvenuti negli anni,la relazione tra Kovačić e il suo ex compagno di squadra Dragoslav Šiljak è sempre stata forte, e non mutata dalla distanza. Šiljak si è trasferito negli Stati uniti a metà degli anni ’60 dove si affermò come ingegnere elettronico, con una brillante carriera accademica che lo portò a lavorare al missile Saturn V utilizzato nel programma spaziale Apollo: unico scienziato proveniente da un paese comunista a farlo. Serbo, nato a Belgrado 81 anni fa, Šiljak ora vive a Saratoga, California. Ricorda ancora molto bene quella generazione di fenomeni della pallanuoto di cui ha fatto parte. “Tutti loro avevano personalità molto forti. Ho grandi ricordi dei momenti passati con loro. Il capitano della squadra, Ćiro Kovačić, è ancora il mio capitano”, afferma Šiljak.
Si sono incontrati per la prima volta all’inizio degli anni ’50 ed entrambi vennero selezionati dall’allenatore della squadra jugoslava Božo Grkinić per le Olimpiadi del 1952 a Helsinki. Kovačić era un portiere di grande esperienza, il capitano della squadra. Šiljak, non ancora ventenne, era il giocatore più giovane. Era anche l’unico giocatore proveniente dalla Serbia in una squadra dominata da croati. “La Croazia ha una grande tradizione nella pallanuoto. Io mi presentai agli allenamenti determinato ad imparare a giocare meglio in quell’ambiente”, ricorda Šiljak per e-mail. E vi erano molte persone da cui imparare. Due anni prima la squadra jugoslava aveva vinto il bronzo ai campionati europei di Vienna.
Fratellanza ed unità
Lo sport era considerato, dopo la Seconda guerra mondiale, un’importante strumento per l’integrazione sociale della Jugoslavia, caratterizzata negli anni della guerra da una situazione complessa, con elementi di una rivoluzione comunista mescolati ad un brutale conflitto tra serbi e croati e all’interno anche delle singole comunità. “Gli sport di squadra in Jugoslavia servivano a dimostrare che era possibile creare una società multietnica e multiculturale di successo, basata sugli ideali del socialismo e che il concetto di fratellanza ed unità funzionava”, ricorda Ivan Djordjević, antropologo dell’Università di Belgrado.
‘Fratellanza e unità tra le nazioni e le minoranze nazionali’ era lo slogan del Partito comunista jugoslavo guidato da Josip Broz Tito. “Fratellanza e unità, ci sono parole più belle?” chiede Kovačić. "In essenza queste parole simbolizzano l’essenza dello sport in generale”.
Anche in quel periodo però, alcune tensioni arrivavano in superficie. Nei suoi primi gironi da unico componente serbo della squadra, racconta Šiljak, vi erano alcune “provocazioni nazionali”. “Ma io le ignoravo perché sempre mi è arrivato il sostegno della maggior parte dei giocatori. Più il tempo passava è più le relazioni sono migliorate e ora conservo solo memorie indimenticabili di quel periodo”, afferma.
La squadra che prese parte alle Olimpiadi di Helsinki nel 1952 era costituita da croati, un serbo ed un montenegrino. “Eravamo affamati di ogni cosa. Nel nostro paese non vi erano frutti tropicali, non vi erano dolci, non vi era cioccolata… niente”, ricorda Kovačić. "Bevevamo litri di succo d’arancia e ananas… La signora che lavorava in cucina ci avvertiva che non era poi così sano”. Ma il suo compagno di squadra Veljko Bakašun rispondeva: “Non si preoccupi signora. La Finlandia è nell’estremo nord, la Jugoslavia nell’estremo sud. Questi sono frutti del sud: a casa beviamo questi succhi come acqua”.
In piscina la squadra ottenne sei vittorie e due sconfitte ed ottenne la medaglia d’argento, la prima medaglia olimpica nella pallanuoto per la Jugoslavia. Assieme al canottaggio ed al calcio, questa disciplina fu l’unica in cui il paese ottenne medaglie a Helsinki.
Fu l’ultima volta in cui Kovačić e Šiljak giocarono assieme alle Olimpiadi. Quattro anni dopo, a Melbourne, Kovačić guidò la nazionale ad un’altra medaglia d’argento e si ritirò nel 1957. Šiljak, che mancò alle Olimpiadi in Australia per infortunio, giocò ancora a Roma 1960. dopodiché si dedicò alla scienza.
“La mia gente, il mio problema”
Io giocatori della sua generazione, comunque, mantennero relazioni strette. A partire dal 1983, su un’idea di Kovačić, si sono rincontrati ogni estate, assieme alle rispettive famiglie. Il loro ultimo incontro è avvenuto a Klagenfurt, in Austria, nel 1990. Si erano accordati per l’anno dopo di incontrarsi a Belgrado. Ma non è più stato così.
Mentre il muro di Berlino veniva abbattuto, i popoli della Jugoslavia iniziavano a costruire tra loro muri. Il 13 maggio del 1990, uno scontro nello stadio Maksimir di Zagabria tra i tifosi della Dinamo Zagabria e quelli della Stella Rossa di Begrado è stato interpretato come il funerale simbolico della Jugoslavia, u anticipo del brutale conflitto tra serbi e croati che sarebbe iniziato l’anno successivo per finire solo nel 1995. Lo sport, servito a costruire ponti, era ora sfruttato per scavare trincee. I politici estremisti abbracciarono gli hooligan. Gli spalti degli stadi divennero culle del nazionalismo.
“La nazionalizzazione dello spazio politico è stata così facilmente promossa e raggiunta attraverso uno strumento familiare a tutti”, afferma il professor Djordjević, dell’Università di Belgrado. L’osservazione di Churchll che i Balcani “producano più storia di quanta ne consumino” si fece terribile profezia. Anche al Bosnia e il Kosovo sprofondarono nel conflitto.
Sei anni dopo che la guerra tra Serbia e Croazia era finita, la città di Dubrovnik ospitò le ultime quattro partite della Champions league di pallanuoto. Kovačić era sopite d’onore alle semifinali tra la squadra locale, lo Jug, ed i campioni serbi del Bečej. Poco dopo l’inizio della partita i tifosi locali iniziarono ad intonare: “Ammazza il serbo!”. Kovačić si alzò immediatamente e se ne andò. In quel periodo, spiega Kovačić, i tifosi serbi erano soliti cantare “Uccidi l’Ustasa!", chiamando i croati con il nome del regime fascista che governò il paese durante la Seconda guerra mondiale. Ma per Kovačić, questa non è una scusa. “Vede, se qualcuno fa qualcosa di assurdo in un posto lontano non è un mio problema. Ma se è la mia gente a farlo, allora è un mio problema. E’ per questo che me ne sono andato”.
Storia di successo
Assieme al calcio ed al canottaggio, la pallanuoto è il più antico sport di squadra praticato alle Olimpiadi. Nasce in Gran Bretagna a metà del 19mo secolo ed ora è popolare quasi esclusivamente nell’Europa mediterranea, in Serbia e in Ungheria. Anche nei paesi dei Balcani, dove può essere considerato sport nazionale, non raccoglie certo grandi numeri di giocatori o masse di spettatori. La Croazia, che ha vinto l’oro alle ultime Olimpiadi, ha un numero di club 12 volte superiori a quelli di pallanuoto nella pesca sportiva… La Serbia, campione europeo, ha 46 squadre di pallanuoto, un dato modesto se si considerano le sue 2.096 squadre di calcio.
Ma questa disciplina ha una tradizione di successo e sono milioni le persone ad “accendersi” quando s’avvicina un importante evento internazionale. Le due squadre di pallanuoto detentrici del maggior numero di trofei internazionali, Mladost Zagabria e Partizan Belgrado, vengono, rispettivamente, da Croazia e Serbia.
Ma cosa rende la pallanuoto così popolare nei Balcani? Il successo porta successo. Una volta che la Jugoslavia ha iniziato a vincere titoli e medaglie, la gente nella regione ha voluto vincerne di più. Essere tra i migliori al mondo è utile per l’orgoglio nazionale e non importa quanto la disciplina in questione sia diffusa a livello globale. In Serbia, nel gennaio del 2012, furono 2.74 milioni gli spettatori della finale europea di Eindhoven dove la Serbia sconfisse il Montenegro, vale adire un terzo della popolazione. Lo stesso anno, in agosto, nelle piazze di Zagabria, Fiume e Dubrovnik, decine di migliaia di tifosi festeggiarono la grande vittoria della nazionale croata alle Olimpiadi di Londra.
Due compagni
Tra i 13 giocatori protagonisti della vittoria della Croazia vi era Damir Burić, 33 anni e due metri, originario della città di Pola. Quattro settimane dopo ha firmato un contratto con la Radnički, una squadra della città serba di Kragujevac. Era il primo giocatore di una nazionale croata a giocare per una squadra serba dalla dissoluzione della Jugoslavia. Un croato in Serbia? Potrebbe sembrare romantico come un americano a Parigi o sofisticato come un inglese a New York. Ma non era pericoloso, nonostante la storia del conflitto tra le due nazioni.
“Come ci si sente ad essere straniero in terra straniera? Dovrei sentirmi a disagio? Ma io qui non mi sento straniero” ha dichiarato Burić la scorsa estate. “Dopotutto, parliamo la stessa lingua”. Qualche linguista serbo o croato contesterebbe quest’affermazione ma le lingue sono così simili che Burić non ha bisogno di un interprete per comprendere le lodi nei suoi confronti che vengono da un suo compagno si squadra, Aleksandar Ćirić, in passato membro della squadra nazionale serba e vincitore di tre medaglie olimpiche. “Una persona eccellente e un eccellente giocatore”, dice il trentaseienne originario di Belgrado.
Ćirić, relativamente magro per essere un giocatore di pallanuoto, è un vero globetrotter dello sport. Ha giocato in sette squadre diverse in cinque paesi diversi. Mentre i due sorridono con le braccia appoggiate sulle spalle dell’altro per essere immortalati dai fotografi nella piscina di Kragujevac nessuno può immaginare che 11 anni prima giocavano uno opposto all’altro in una partita che ebbe una conclusione estremamente violenta, la più violente nella storia di questo sport. La Croazia affrontava la Serbia e Montenegro, una squadra dove giocavano in maggioranza giocatori serbi, nella finale per gli Europei 2013. Per aggiungere maggior peso simbolico all’evento, si giocava in un altro territorio ex jugoslavo, la Slovenia.
Fumo sull’acqua
Il campionato era iniziato senza particolari tensioni agli inizi di giugno. Le due squadre alloggiavano persino nello stesso hotel mentre si facevano largo verso la finale. “L’atmosfera generale e le relazioni tra i componenti delle due squadre erano normali”, ricorda Dejan Stevović, vice direttore del quotidiano sportivo di Belgrado Sportski Žurnal, che seguì il torneo.
Ma si stava preparando una tempesta. Nella città ospitante di Kranj viveva una considerevole comunità serba, di circa 2000 persone. E la capitale della Croazia Zagabria distava solo 170 chilometri e gli hooligan croati vi videro un’occasione per causare disordini. Gli organizzatori sloveni sottostimarono il pericolo.
Il 16 giugno, giorno della finale, circa 3000 croati, in maggioranza tifosi di calcio, arrivarono da Zagabria. “Persone a cui non interessava nulla la pallanuoto, non sapevano nulla di pallanuoto” ricorda Dean Bauer, giornalista del quotidiano sportivo di Zagabria Sportske Novosti, anche lui a Kranj quel giorno. “L’unica ragione per cui arrivarono quel giorno era per devastare, per distruggere mezza città e per scovare dei tifosi serbi con cui scontrarsi”. Incontrarono un centinaio di tifosi serbi all’esterno della piscina. Erano circa 2000 i tifosi all’interno del”impianto, mentre circa 1000 si erano radunati all’esterno. Il posto divenne una polveriera.
Dagli spalti arrivarono slogan nazionalisti, che usualmente accompagnano eventi sportivi nei Balcani, e circa 250 poliziotti a fatica riuscivano a contenere la tensione. In piscina, nonostante tutto, la situazione rimase calma. “Non vi erano problemi, nessun duello fisico o pugni. Niente al di fuori di una normale finale”, ricorda Burić. Ćirić conferma: “L’atteggiamento dei giocatori è rimasto all’interno dei limiti del fair play, nessun pugno o altre provocazioni”.
Burić è la sua squadra iniziarono l’ultimo quarto in vantaggio per 7 a 4. Ma poi subirono una drammatica rimonta da parte di Serbia e Montenegro che si impose 9 a 8 ai supplementari e si aggiudicò il titolo. Fu allora che i tifosi dei "Barracuda", così è chiamata la squadra croata, decisero di mostrare i denti. “Tutto scoppiò”, ricorda Stevović. "Iniziarono a tirare pietre e altri oggetti in piscina”.
Non solo pietre ma anche sedie, bottiglie, fumogeni… con tutto quel fumo tutte le persone in acqua stavano pesantemente rischiando. Tra loro c’era anche il ministro degli Esteri di Serbia e Montenegro Goran Svilanović, che accese ancor di più gli animi degli hooligan croati saltando in acqua per celebrare la vittoria. Una pietra colpì alla testa Nikola Kuljača, portiere della Serbia e Montenegro. Il sangue si sparse nell’acqua. Anche Ćirić fu vittima di quella violenza. "Nel caos, tentando di allontanarmi dalla folla, sono scivolato sul bordo piscina. Mi sono infortunato al legamento crociato ed ho dovuto operarmi”, ricorda. L’epilogo: 14 arresti e le medaglie consegnate in privato nell’hotel.
Reazioni
La controparte ricambiò in natura: nell’ “esultanza” per la vittoria i tifosi serbi a Novi Sad e Belgrado bruciarono bandiere croate e attaccarono l’ambasciata croata nella capitale serba. Il governo croato protestò vivacemente e il suo ministro degli Esteri cancellò una visita già in programma in Serbia e Montenegro.
Politika, il quotidiano con sede a Belgrado più antico di tutti i Balcani, pubblicò un lungo articolo sugli incidenti titolato: "Tanto balcanico quanto può essere”. “E’ lecito chiedersi se mai partite tra squadre di questi due stati potranno mai divenire solo tali: semplici eventi sportivi. Da dove stiamo ora, non scorgiamo grandi ragioni per essere ottimisti”, vi si scriveva in forma anonima.
Gli scontri vennero seguiti anche dal quotidiano italiano Corriere della Sera. “Se questo fosse accaduto qualche anno fa, rischiavamo di assistere alla prima ‘Guerra della pallanuoto’”, si scriveva in un commento. Ci si riferiva ad un breve conflitto tra El Salvador e Honduras conosciuto come la Guerra del calcio e avvenuto dopo unico scontro tra tifosi delle due squadre nazionali nel 1969. Ma la Serbia e la Croazia non imbracciarono nuovamente le armi a causa della pallanuoto. In tempi relativamente rapidi la furia venne rimpiazzata da toni molto più calmi. Arrivarono presto le scuse sia da parte corata che serba. Le due squadre si incontrarono un anno dopo, alle Olimpiadi di Atene e hanno giocato una partita in un’atmosfera cordiale, senza avvenisse un singolo incidente.
Acque più calme
Un decennio dopo sembra che quel momento che al commentatore di Politika sembrava così lontano sia arrivato e le partite tra Serbia e Croazia sono normali partite di pallanuoto. Il Mladost di Zagabria e il Radnički di Kragujevac hanno promosso una serie di amichevoli tra loro, nel maggio scorso, per prepararsi alla fase finale dei loro campionati nazionali.
Lo scorso ottobre poi tre squadre serbe, sette croate, tre montenegrine ed una slovena hanno creato la Lega adriatica. Per la prima volta in 23 anni squadre di Serbia e Croazia giocano in un campionato comune. Le squadre nazionali si incontrano spesso e, mettendola utilizzando parole di Burić, sono partite libere dell’”altra dimensione”. Burić fa addirittura una leggera pubblicità alla nazionale serba: “Molti dei suoi componenti sono miei amici e quindi è chiaro che io preferisca la loro squadra ad alcune delle altre”.
I trasferimenti di giocatori tra squadre serbe e corate stanno divenendo una questione di routine. Dopo due stagioni giocate con i Radnički di Kragujevac in Serbia, Burić è ritornato a giocare in Croazia, per il Primorje di Fiume. I Radnički hanno contrattualizzato un altro giocatore croato, Josip Vrlić.
In passato c’era fratellanza ed unità, ma adesso non c’è più. Dopo anni di turbolenze le relazioni tra le nazioni sorte dalla Jugoslavia si stanno però normalizzando, nonostante a volte avvengano dei ritorni al passato come negli scontri avvenuti ad ottobre in occasione della partita internazionale di calcio Serbia-Albania.
Perlomeno nella pallanuoto però, la cooperazione tra le persone si è spostata dal piano ideologico a quello concreto. “Lo sport, l’arte, la cultura, sono tre aspetti che ci hanno sempre accomunati. E continueranno a farlo”, dichiara Ćirić.
Branko Krivokapić è giornalista sportivo presso la TV Vijesti e Sportski Žurnal, quotidiano montenegrino. Quest’articolo è stato prodotto grazie al programma Balkan Fellowship for Journalistic Excellence sostenuto da ERSTE Foundation e Open Society Foundations, in cooperazione con Balkan Investigative Reporting Network.
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