La nuova Serbia
L’arresto di Mladić apre una pagina nuova per la Serbia e per l’intera regione. Nel ventennale dell’inizio della dissoluzione della Jugoslavia, il segnale che la lunga transizione dell’ex Paese socialista è arrivata a termine. Dopo migliaia di vittime. Nostro commento
La Serbia volta pagina. Con l’arresto di Ratko Mladić, il presidente Tadić ha dimostrato di essere alla guida di un Paese normale. Un Paese nel quale le autorità civili hanno il controllo sui militari e sui servizi segreti. Ci saranno reazioni dure, parate di nostalgici, contestazioni. Ma non cambierà il significato storico di questa giornata. La lunga transizione iniziata dopo l’89, la fine di un sistema socialista diventato criminale, l’affermazione di nuove regole del gioco da oggi diventano un dato di fatto. In mezzo ci sono stati 10 anni di guerre, decine di migliaia di vittime, milioni di profughi. 10 anni di lutti per i quali la vecchia Serbia ha pesanti responsabilità.
Tadić
Nessuno metteva in dubbio la sincerità di Tadić e del suo partito nel lasciarsi alle spalle il passato, proseguendo con decisione nel percorso europeo. Il presidente ha affrontato diverse prove, non facili. Il Kosovo, ad esempio. Equilibrio tra una posizione di netto rifiuto della secessione ma, al tempo stesso, dialogo e presenza al tavolo negoziale. Oppure gli sforzi fatti in direzione di una riconciliazione a livello regionale, come partecipare alle commemorazioni dell’11 luglio a Srebrenica o incontrare il presidente croato Josipović a Vukovar. Recentemente, le dichiarazioni fatte a sostegno dell’integrità territoriale della Bosnia Erzegovina durante la grave crisi del “malato di Dayton”. Però tutto questo non bastava. Mancava Mladić. Mancava la prova che quello stato profondo serbo, fatto di collusione tra ambienti militari, servizi segreti e criminalità organizzata, responsabile dell’assassinio di Đinđić nel 2003, e della fine di quella breve stagione della democrazia serba, fosse stato sconfitto.
Il generale
Consegnare un generale non è una scelta facile, per nessun governo. Loro sono il simbolo della sovranità a cui nessuno Stato vorrebbe rinunciare, custodiscono i segreti più reconditi dell’apparato. Durante la guerra in Bosnia, Mladić era un ospite fisso alle riunioni del Consiglio Supremo di Difesa serbo, a Belgrado. Per i militari, Mladić non era Karadžić. Era uno di loro. Anche per questo lo proteggevano. In questi 15 anni di latitanza il generale ha avuto molti amici. Anche internazionali. Nei primi anni dopo la fine della guerra, in Bosnia c’erano decine di migliaia di truppe della SFOR. Perché non l’hanno arrestato? Per il timore di una possibile reazione da parte dei serbo bosniaci, certo. O forse per le complicità di cui godeva. In Serbia, fino alla caduta di Milošević, ha potuto vivere tranquillo. Anche andarsene allo stadio a guardare una partita di calcio. Dopo il 2000, però, le cose sono cominciate a cambiare. Il generale stava nelle caserme (Topčider, a Dedinje) e usciva più discretamente. Tra il 2003 e il 2006 si ritiene abitasse a Novi Beograd. Ma la svolta è avvenuta nel maggio 2007, con l’arresto di Zdravko Tolimir, ex responsabile della sicurezza dell’esercito serbo bosniaco, “collega” di Mladić a Srebrenica nel luglio ’95 e ritenuto l’artefice della rete di protezione del latitante. Da allora, per Mladić, le cose sono andate sempre peggio. Prima la vittoria di Tadić (maggio 2008), poi l’arresto di Karadžić, due mesi più tardi. Eppure, le protezioni continuavano. Lo “stato profondo” resisteva. Ed era una spada di Damocle appesa non solo sulla Serbia, ma sull’intera regione. Se Tadić lo voleva consegnare, perché non lo faceva? Il dubbio era che fosse troppo debole per affrontare gli apparati, che quegli apparati fossero ancora troppo pericolosi.
Oggi il presidente ha deciso di assumersi il rischio. Si apre una nuova primavera, non solo per la Serbia, ma per l’intera regione. Speriamo che non sia di breve durata.
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