La nave dolce
Esce l’8 novembre nelle sale italiane il documentario "La nave dolce". La vicenda della nave Vlora, arrivata a Bari l’8 agosto del 1991, raccontata da Daniele Vicari. Un’intervista al regista
Fu il primo grande sbarco di stranieri in Italia. Non profughi o migranti, ma esseri umani in cerca di un futuro migliore o curiosi di una terra divisa da un breve braccio di mare dalla loro. È la vicenda della nave Vlora, arrivata a Bari l’8 agosto 1991, raccontata da Daniele Vicari nell’ottimo documentario “La nave dolce”, nelle sale dall’8 novembre dopo il passaggio fuori concorso alla Mostra di Venezia.
Un film costruito intervistando al giorno d’oggi alcuni dei protagonisti di quelle giornate e con tanti materiali d’archivio, soprattutto riprese dei cameraman delle tv locali pugliesi.
Quelli furono pochi giorni che segnarono la fine dell’età dell’innocenza del nostro Paese per ciò che riguarda l’immigrazione. Non era il primo sbarco massiccio di stranieri e c’erano già stati parecchi viaggi della speranza finiti male, per terra o nelle acque del Mediterraneo. In quelle giornate d’agosto avvennero però fatti nuovi. L’Italia si trovò impreparata e divisa tra l’accoglienza (del Comune di Bari, di molti cittadini) e la durezza (stringe lo stomaco e fa vergognare il comportamento del Presidente Cossiga in visita in Puglia). Alla fine, dopo giornate di passione, di sofferenze, sogni andati in fumo, scorribande di criminali, fughe rocambolesche, gran parte di coloro che avevano tentato l’avventura in Italia furono rimpatriati con la forza.
Vicari parte dal mercantile che attraccò a Durazzo carico di zucchero proveniente da Cuba e che venne assaltato dalla folla. L’imbarcazione stipata all’inverosimile, senza cibo e senza acqua, fu costretta a prendere il largo verso l’Italia, per approdare, con il motore principale in avaria, al porto di Bari. Seguono le scene rimaste nell’immaginario per le foto (anche di Luca Turi, tra i testimoni del film) e le immagini di persone che si buttavano dai parapetti. Riuniti sul molo, i circa 20.000 albanesi (un numero preciso non esiste) furono trasferiti (chi non riuscì a scappare e far perdere le proprie tracce) nello stadio San Nicola e là rinchiusi in uno stato d’emergenza.
Vicari alterna le immagini di allora alle interviste al giorno d’oggi, utilizzando l’accorgimento di filmare tutti davanti a uno sfondo bianco e non spiegare chi siano: la loro storia e il loro ruolo allora emerge dal racconto, che si tratti di un ragazzino albanese, di un assessore comunale o di un ispettore di polizia. Tra loro spiccano Kledi Kadiu, allora giovane studente di danza e ora volto noto della televisione che fu rimpatriato e riuscì a tornare in Italia pochi anni più tardi, e il regista Robert Budina.
Un film che racconta della transizione dell’Albania ma anche molto dell’Italia: fa sorridere, commuovere e indignare. Il regista collega quei fatti all’oggi ma senza inutili moralismi e sottolineature. Un documentario forte, solido, avvincente e da vedere, che ci aiuta a rimettere insieme tasselli di memoria e riflettere su chi siamo e come ci poniamo rispetto agli stranieri che arrivano.
“Siamo abituati alla tv del dolore, a sapere che fine fanno i protagonisti – ci ha raccontato a Venezia Daniele Vicari – questa vicenda non ha né lieto fine né un epilogo tragico, è ancora in atto. I testimoni non avevano bisogno di sottopancia o scritte che spiegassero chi sono. Contano le loro emozioni. E quella nave è una metafora senza tempo. Là sopra sarei potuto essere pure io che al tempo ero uno studente universitario e seguivo da lontano gli eventi. C’erano esseri umani sulla nave, non profughi, disperati o clandestini, semplicemente esseri umani che cercavano di cogliere un’opportunità”.
Come è nato il progetto?
Nel settembre 2010 alcuni produttori italiani e albanesi mi parlarono dell’avvicinarsi del ventennale e mi proposero un film sull’accoglienza in Puglia. Ho trovato tanti materiali, mi sono innamorato della vicenda e del suo aspetto metaforico. È una vicenda che si ripete ogni giorno da qualche parte del mondo e spesso in Italia. Allora non eravamo preparati, bisognava avere un atteggiamento di maggior accoglienza e umanità.
Come ha scelto i testimoni?
Non ho fatto delle interviste vere e proprie. Li ho messi tutti su un set con uno sfondo bianco per astrarre un po’ le loro testimonianze. E li ho lasciati parlare per ore. Hanno ricordato cose che loro stessi avevano dimenticato e si sono lasciati andare. Ho montato tutte le persone filmate, ma prima la mia cosceneggiatrice Antonella Gaeta ne aveva contattati e incontrati molti di più. Non abbiamo scelto quelli con le storie più interessanti, ma quelli più capaci di mettersi a nudo”.
E per le immagini di repertorio?
Ho cercato di conservare le emozioni e anche lo stupore degli operatori che per otto giorni a Bari cercarono di filmare quello che accadeva. Fu un momento di inconscio collettivo, ma gli operatori dimostrarono una grande capacità di narrare quei fatti, non solo testimoniare ma anche elaborare gli avvenimenti e realizzare immagini simboliche come la ripresa della bambolina che ho usato per il finale del film.
Ha pensato a film come “Lamerica” di Gianni Amelio o quelli più recenti di Emanuele Crialese mentre lavorava al film?
No, mi sono fatto prendere la mano dai materiali e dalle emozioni che mi hanno provocato. In ogni caso Amelio e “Lamerica” sono un punto di riferimento per me, hanno rivitalizzato il cinema italiano e sono contento che ora i registi della mia generazione siano tornati a raccontare la realtà.
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