La musica tradizionale di Ulaş Özdemir
Il suo ultimo lavoro è stato realizzato con i Forabandit, ensemble musicale che contamina la musica tradizionale turca con l’esperienza lirica e musicale dei troubadour provenzali e i ritmi persiani. Abbiamo incontrato Ulaş Özdemir
Nato nel 1976 a Maras, in Turchia, Ulaş Özdemir ha studiato etnomusicologia presso la Yildiz Technical University, a Istanbul. Laureatosi, ha ottenuto un master nello stesso istituto e suonato in moltissimi paesi, collaborando con alcune fra le figure più carismatiche del panorama world mondiale: Ali Akbar Moradi, Kayhan Kalhor, Sussan Deyh Io, Azam Ali, sono solo alcuni dei nomi coi quali ha stretto un rapporto professionale.
Ha registrato vari dischi solisti, a partire dal 1998, e composto musiche per film. La sua evoluzione musicale dipende strettamente dalla cultura alevita, alla quale appartiene socialmente e religiosamente: gli aleviti rappresentano la più grande minoranza religiosa della Turchia; si rifanno a un credo particolare derivante dall’islam sciita, ma è debitore anche di aspetti legati alla cristianità orientale e alle credenze anatoliche preislamiche, riconducibili, per esempio, al tengrismo dell’Asia centrale.
Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita di Port, album registrato nel febbraio 2014 con i Forabandit (con lui ci sono il francese Sam Karpienia e l’iraniano Bijan Chemirani), ensemble musicale che mischia un certo tipo di musica tradizionale turca, con l’esperienza lirica e musicale dei troubadour provenzali, e i ritmi persiani. C’è, infatti, la volontà di coniugare il misticismo di due mondi che non si sono mai incontrati (per ovvie disparità temporali), ma che hanno patito lo stesso genere di sofferenza, dovuta a costumi religiosi differenti e mal compresi dai rispettivi connazionali: da una parte gli aleviti, dall’altra i catari albigesi della Francia meridionale.
Buongiorno Ulas, cominciamo con il libro di Eliot Bates, Music in Turkey, Experiencing Music, Expressing Culture. Cosa ci fai in copertina?
Eliot è un amico e collega. Gli ho dato una mano per il suo dottorato. Quando ha scritto il libro sulla musica turca, ha pensato di mettere in evidenza un musicista che conosceva bene.
Ti sei ritrovato in copertina senza sapere niente?
Me l’ha proposto, e per me è stata una bella sorpresa.
In realtà avete avuto esperienze anche in campo prettamente musicale.
Nelle sue ricerche ha, infatti, considerato alcune mie esperienze artistiche e ha registrato, missato e masterizzato, "Bu Dem", mio disco solista.
E proprio da quelle session è scaturita la foto per il libro.
Proprio così.
Anche tu ti occupi di etnomusicologia. E puoi, di fatto, essere considerato fra i migliori intenditori di musica turca. L’argomento è molto vasto, ma attraverso quali paradigmi è possibile distinguere la musica anatolica, da quella occidentale o delle regioni limitrofe?
E’ un dibattito ancora aperto. Direi impossibile da risolvere in un pomeriggio.
Per quale motivo?
La musica turca non può essere ricondotta a un paradigma, ma a tanti contesti storici e sociali. Ci sarebbe da chiedersi cosa sia la musica turca, in relazione a specifiche aree anatoliche o di confine.
Con te nei Forabandit c’è anche Bijan Chemirani, di origine persiana. In che modo la musica turca è influenzata da quella iraniana e viceversa?
C’è sempre stata molta reciprocità fra la cultura musicale turca e quella iraniana, anche per via dei numerosi scambi commerciali che i due paesi hanno intessuto nei secoli.
Tu stesso, peraltro, sei portavoce di questo connubio artistico.
Da dieci anni lavoro con musicisti iraniani, indubbiamente i più vicini al mio modo di fare musica.
Che differenze ci sono fra una scala musicale occidentale e una turca?
Domanda spinosa. Andrebbero valutati singoli aspetti della musica anatolica (ma anche occidentale). Esistono in ogni caso i cosiddetti "quarti di tono".
Con essi la musica mediorientale risulta più ricca di espressioni e modulazioni melodiche.
Probabilmente sì.
Chi ha scritto i testi dell’ultimo disco dei Forabandit?
Io ho scritto i brani in turco, Sam quelli in occitano. I testi curdi, invece, sono opera di un grande poeta curdo vissuto nel diciassettesimo secolo, Ehmede Xani.
Di cosa parlano?
Il porto è il filo conduttore e da lì partono tutti nostri voli pindarici.
E a lì ritornano parafrasando la parabola artistica di veri e propri giganti della cultura mondiale.
C’è, in effetti, un bel modo di interfacciarsi con il pensiero di figure come Charles Baudelaire, Auguste Blanqui (rivoluzionario francese dell’Ottocento, nda), Walter Banjamin, Friedrich Nietzsche, Susan Sontag, Omar Khayyam (antico poeta e filosofo persiano, nda), Devran Baba (poeta turco del Novecento, nda), Neset Ertas (folk singer turco, nda).
Una sorta di concept album.
Esattamente. Con riferimenti esoterici ed essoterici.
Laddove essoterismo ed esoterismo si incontrano.
Diciamo di sì, con l’immagine del porto, della risacca, che è in pratica il vero filo conduttore dell’opera.
Al di là di questo contesto simbolico, perché proprio il porto?
Perché per molti anni abbiamo fatto la spola fra due grandi porti, quello di Istanbul e quello di Marsiglia. Forabandit, significa, peraltro, essere in viaggio da un porto all’altro.
Tutto torna.
E tutto assume significati precisi nei porti: gente, mare, stelle.
Come hai incontrato Sam Karpienia e Bijan Chemirani?
E’ accaduto nel 2009 in occasione di Sublimes Portes, organizzato a Marsiglia da un amico comune, Nil Deniz.
Di cosa si tratta?
Di un progetto per mettere in contatto realtà musicali fra loro distanti, come quella dei trovatori europei e degli asik turchi.
Chi sono gli asik?
Performer musicali particolarmente cari all’immaginario collettivo anatolico. Davano corpo a realtà sociali altrimenti destinate all’oblio. Canti di sofferenza, ma anche gioia, solidarietà, cronaca. Con essi si sono preservate notizie, storie, sentimenti.
Così è nata la band nella quale suoni attualmente.
Così nascono i Forabandit.
"Dil" è a mio parere una canzone molto potente. Siete in tre, ma sembra di sentire un’orchestra.
E’ frutto dell’approccio più deciso al secondo album, in generale più potente ed energico del primo. Più "groovy", direi.
Avete sovrainciso delle parti?
Sì, certo, ma la vera "potenza", dal mio punto di vista, deriva dalle numerose sensazioni vissute visitando luoghi di mare tanto diversi fra loro, eppure paradossalmente perfettamente in linea con le nostre sensibilità.
Quali, oltre a Marsiglia e Istanbul?
Algeri e Beirut.
Come è nata la tua collaborazione con Kayhan Kalhor, virtuoso compositore iraniano?
Anche Kayhan è un amico, conosciuto tramite Ali Akbar Moradi (musicista e compositore curdo, nda) in Iran, nel 2004. Siamo stati anche in tour insieme. Io stesso ho lavorato in un album di Kalhor ed Erdal Erzican (folk singer turco, nda).
Vi sentite ancora?
Certamente.
Tornando all’etnomusicologia, potresti darmi qualche ragguaglio in più sul saz?
In persiano "saz" significa strumento, ed è il nome comune con cui vengono tradizionalmente designati gli strumenti musicali. La consuetudine, in particolare, assimila il saz al banglama.
Mi dici qualcosa del banglama?
Ne esistono di tipi molto diversi, per dimensione e accordatura. Il più comune è quello a collo corto.
Tu usi, però, quello a collo lungo.
Sì, ha anche le corde più spesse ed è l’ideale per accompagnare i brani dei Forabandit. Ma da solista utilizzo un vecchio "dedesazi" (il più piccolo strumento della famiglia dei banglama, nda).
Cosa suoni con il "dedesazi"?
Principalmente brani della musica tradizionale alevita, a cui appartengo culturalmente e religiosamente.
Che relazione c’è fra musica alevita e asik?
E’ una relazione stretta, poiché gli asik proseguono nell’attività degli antichi menestrelli, poeti, e musici, che non potevano prescindere dai classici paradigmi dell’alevismo.
E’ vero che il saz piccolo, viste le due dimensioni, è il preferito dagli artisti di strada?
Non so, ci sono in realtà "busker" che usano strumenti anche molto ingombranti.
Come è andata con "Uzun Hikaye" (2012), di Osman Sinay?
Compongo musica per film da una decina d’anni, e credo che la mia migliore esperienza sia stata proprio "Uzun Hikaye" (qui uno spezzone).
Un film di successo.
Musica e film, senza dubbio.
Il tuo primo lavoro discografico risale, invece, al lontano 1998, con "Ummanda/Maras Senemilli Deyisleri".
Ero molto giovane e molto entusiasta di dare alle stampe il mio primo lavoro (qui si può ascoltare un brano). In parte registrato dal vivo in studio.
Già nell’ottica del concept album.
Certamente, un tributo alla musica alevita e alle tradizioni pentagrammate di Maras (capoluogo della provincia omonima, situata nell’Anatolia centrale, nda).
C’entrano anche specifiche realtà antropologiche?
Sicuramente quelle che contornano la città, in primis i sinemilli, tribù presenti nel distretto di Kahramanmaras.
Chi è Erdal Akkaya?
Un talentuoso musicista, esperto di banglama. Mi ha aiutato nel mio primo disco. Dopo la nostra esperienza in comune, ha registrato nuovi lavori, talvolta sperimentali, unendo per esempio la tradizione turca al flamenco.
Che musica ascolti in questo periodo?
Di tutto, come sempre. Ho a casa migliaia di dischi che alterno con piacere. Ogni giorno, ogni ora ascolto qualcosa di diverso. In questi giorni che sto dedicando alla mia tesi di dottorato mi lascio facilmente travolgere dalle vibrazioni positive del reggae.
Il migliore album di sempre?
Ah, ce ne sono davvero troppi, tantissimi, portavoce di tradizioni lontanissime e diversissime fra loro. Impossibile fare un elenco su due piedi.
E il tuo rapporto con la musica rock?
E’ stata per me grande fonte di ispirazione in ogni momento della vita e ancora adesso è molto importante.
In questo caso, puoi fare qualche nome?
Soprattutto i cantautori, Bob Dylan, Tom Waits, Lou Reed, Nick Cave, Patti Smith.
Qualche aneddoto su Kahramanmaras?
Maras è la mia città natale. Ogni nota che scrivo, ogni parola che pronuncio, deriva da lì. Ancora adesso ci vive la mia famiglia di origine, e benché sia quasi sempre in giro per il mondo, torno spesso e volentieri a farle visita. E’ per me un punto di riferimento fondamentale per le mie radici musicali.
Progetti futuri?
Mi piacerebbe continuare a suonare con i Forabandit. Contemporaneamente sto elaborando un progetto con un caro amico, Mustafa Kilcik (qui insieme in un live del 2013): di base la musica alevita, ma pensata in forma sperimentale, con vari banglama e due voci. E non mi dispiacerebbe tornare a lavorare con Akbar Moradi.
Si è nuovamente inasprito il conflitto arabo-israeliano. Come credi sia possibile uscire da questa crisi senza fine?
Temo che nel prossimo futuro non si otterranno grandi risultati e che, in ogni caso, non sarà grazie a interventi esterni che la pace verrà raggiunta. Dipenderà dal popolo israeliano, dalla gente comune, svincolata dai propri leader.
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