La guerra secondo Mauro Covacich e Igor Pison
Uno spettacolo teatrale che ha l’ambizione di parlare in modo universale della tragedia della guerra. Ma che non vi riesce. Una recensione di "Anomalie" sul palco al Teatro Stabile di Trieste dal 28 febbraio al 18 marzo
Trieste, una sera di marzo. Un lungo applauso riempie la Sala Bartoli. È rivolto agli attori dello spettacolo Anomalie, ma anche all’autore del libro da cui è tratta la pièce, al suo regista e all’intera équipe impegnata nella sua realizzazione. Gli attori vengono chiamati più volte alla ribalta. Applaudo anch’io, con sincerità, ma solo gli attori. Hanno fatto il loro lavoro, i loro volti sono illuminati dal sollievo – hanno dovuto calarsi nella pelle altrui, alcuni anche cambiarla due volte (quattro attori, sette personaggi – bisogna, senz’altro, anche risparmiare). Ad essere onesto, anche la scenografia – lo dico da semplice spettatore – merita attenzione. In verità, tutto ciò che riguarda Anomalie del duo Covacich-Pison merita attenzione. Tutto, dai biglietti su cui c’è scritto Yugo/Anomalie (diversamente dal titolo ufficiale dello spettacolo), alle scelte programmatiche di questo teatro triestino.
Anomalie di Covacich-Pison
Il regista Igor Pison ha realizzato il suo allestimento di Anomalie partendo da tre racconti dell’omonima raccolta di Mauro Covacich (prima edizione del 1998): Un inizio, Un altro inizio e Una fine (Unplugged). Se non sbaglio, il regista, nel suo adattamento drammaturgico dei racconti, è rimasto sostanzialmente fedele ai dialoghi originali, senza apportarvi alcuna modifica. Anomalie propone una “riflessione universale” sul tema della guerra. Ciascuna delle parti di questo trittico “presenta una peculiarità estetica e poetica, perché viene filtrata dal personaggio che la racconta” (citazione tratta dalla scheda di presentazione dello spettacolo, a cura di Ilaria Luccari).
Come l’ho vissuto? Prima di dirvelo vi presento i personaggi di Covacich: un cecchino serbo, il suo capitano, due guardie carcerarie, due ragazzi – Vlado e Žarko, e una ragazza di nome Marijana. La “riflessione universale”? Nello spettacolo è stato investito un grande sforzo, del tutto inutile e vano, per far credere allo spettatore, almeno per un attimo, che le scene a cui assiste non siano ambientate nella Sarajevo assediata. Ed è per questo che in Anomalie ho riconosciuto solo uno sguardo diretto ai Balcani. Mai, o solo in rari momenti, universale. Quindi, uno sguardo incentrato esclusivamente sulla nostra tragedia, bosniaca ed ex jugoslava, che ancora oggi funge da paradigma di tutte le guerre.
Quel “in rari momenti” vale solo per il primo racconto che vede protagonista il cecchino. Un racconto relativamente convincente, che però suggerisce che solo le persone frustrate e perverse possano sparare sui civili, soprattutto su donne e bambini. Il resto? La seconda parte dello spettacolo, in cui, nonostante la guerra, i ragazzi continuano a giocare a basket su un piccolo campo, è una variazione patetica sul tema della guerra come un’anormalità a cui si contrappone il desiderio umano di sopravvivenza.
La terza parte racconta una tragica storia d’amore alla bosniaca. Il richiamo alla tragedia d’amore shakespeariana funziona sempre, e sembra funzionare anche nel dialogo degli amanti di Covacich-Pison, il quale tuttavia – e non ci vuole nessun particolare sforzo intellettuale per capirlo – non è altro che un guazzabuglio. Ma che sto dicendo? Ci sono anche dei colpi, ben riusciti, alle corde delle emozioni degli spettatori. Ma un guazzabuglio è quel che è, e in questo c’è di tutto: dalla “scoperta” che tra i giovani serbi di Sarajevo c’erano anche degli obiettori di coscienza e che anche le ragazze bosgnacche possono chiamarsi Marijana, ai riferimenti all’integralismo islamico. E funzionano, a quanto pare, anche le scelte musicali che “dicono molto degli anni di guerra”: i Bijelo Dugme, Balašević e Šerbedžija. Ma questo non è tutto.
Teatro e impegno “tematico”
Come e perché questo spettacolo ha trovato posto nel cartellone del Teatro Stabile di Trieste? Alla base di questa scelta, secondo quanto si legge nella scheda descrittiva dello spettacolo, sta una “dura presa di coscienza che il dolore, l’atrocità e l’insensatezza appartengono a ogni guerra, ad ogni tempo, e che non si tratta mai, purtroppo, di orizzonti lontani”. Non mi fermerei su quel “purtroppo”. Perché altrimenti mi servirebbe più di un foglio di carta. Come cittadino e spettatore, mi interessa sapere quanto è serio il richiamo al tema della guerra e della pace nel programma del Teatro Stabile di Trieste (ma anche di altri teatri d’Europa e del cosiddetto Primo mondo).
Se questo tema fosse stato affrontato davvero seriamente e considerato di fondamentale importanza, nel programma di questo teatro avrebbero trovato posto opere di maggiore profondità e autenticità semantica. Oppure – perché no? – sarebbe stato indetto un concorso pubblico per testi teatrali “a tema”. Un concorso anonimo, quindi trasparente, che avrebbe richiesto un certo impegno, piuttosto che nonchalance e routine. Così, invece, tutto risulta più facile: il “nostro autore” è colui che è figlio della nostra città.
Monologo: Trieste, sulla strada verso la stazione ferroviaria
Pioggia! Che piova pure! Che si abbattano anche i tuoni! Noi bosniaci, così come tutti gli ex jugoslavi – che oggi viviamo sparsi qua, là, ovunque nel mondo – , a prescindere che siamo scappati dalla guerra o ne abbiamo preso parte, che oggi ce ne pentiamo o no, a distanza di un quarto di secolo dal tutto ci meritiamo ancora Anomalie.
È vero, e dalla verità non si scappa. Visto che su di noi ha scritto chiunque abbia voluto farlo, in modo onesto o superficiale, che scriva anche Covacich. Il quale, diciamolo en passant, come se non si fosse accorto di quante guerre siano state, e continuano ad essere, combattute dall’anno della prima edizione delle sue Anomalie. Eppure, non c’è miglior esempio del conflitto jugoslavo! Il quale, ammettiamolo, è anche un segno della nostra miseria politica e culturale, caratterizzata da divisioni e discordie di ogni genere, da quelle più stupide, etniche, e così via; ne possiamo elencare quante ne vogliamo. La miseria rende chiunque debole, e i deboli sono sempre un buon tema su cui scrivere.
Non chiediamoci se l’autore e il regista di Anomalie hanno vissuto almeno un giorno là. Non chiediamoci nemmeno quanti “scostamenti liberi” hanno fatto ambientando il loro spettacolo là, dove, naturalmente, non c’è nient’altro che guerra. Non serve chiederselo, così come non serviva nemmeno nel caso di Angelina Jolie né della scrittrice Margaret Mazzantini. Possono filmare, mettere in scena, scrivere su di noi qualsiasi cosa venga loro in mente. Che scrivano pure, se non hanno nient’altro di cui scrivere. Non saremo di certo noi a impedirglielo. Che si faccia teatro, là e qua e ovunque. Non vogliamo certo che gli artisti, e quelli che si illudono di esserlo, all’improvviso si mettano a gridare: “E la licentia poetica? Siamo minacciati!” Lasciamoli fare, la colpa è nostra.
Ma è anche dei nostri figli e nipoti? Ha senso dire loro: “Sapete, figli, quella è stata l’unica e la più importante guerra della storia”? Vivo in questo paese da molto tempo e riconosco facilmente gli stranieri, e ancora più facilmente i miei compatrioti. Questa sera, nella Sala Bartoli c’erano anche degli ex jugoslavi. Sono stati i più silenziosi, sia all’ingresso che all’uscita dal teatro. Sia loro che i loro figli. E se parlassero, cosa mai direbbero?
E voi, italiani ed europei? Pensate davvero che il conflitto jugoslavo sia il paradigma di tutte le guerre? Voi, tutti voi che – fatte salve poche onorevoli eccezioni – non vi sforzate nemmeno di comprendere il meccanismo della guerra e pensate di non avere niente a che fare con nessuna delle guerre attualmente in corso. Sì, mi rivolgo anche a voi. Senza giudicare, solo chiedendovi: non pensate che tutti dovremmo porci domande più profonde sulla guerra? Come, ad esempio, quelle che pone Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità. È quello scrittore viennese che nella Grande guerra vide la premonizione della guerra eterna – Ewiger Kreig. Riflettendo anche sul funzionamento del sistema economico – che a tutt’oggi è rimasto sostanzialmente invariato – Kraus preannunciò tutte le guerre future. O preferireste, ad esempio, vedere un collage drammaturgico di testi degli autori che hanno cercato di penetrare nel meccanismo della guerra, da Euripide a Chomsky?
Sì, parlo di coloro che non hanno mai voluto limitarsi ad essere semplici illustratori delle conseguenze della guerra, pur essendo consapevoli della propria impotenza. Mi fermo qui. E non solo perché devo comprare un biglietto per Udine. Domani è domenica. Pace a tutti.
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