La guerra in casa ci riguarda ancora
È in libreria una nuova edizione di “La guerra in casa”, fondamentale libro sulla guerra degli anni ’90 a firma di Luca Rastello che fu il primo direttore della testata giornalistica www.balcanicaucaso.org. Ne ha curato l’edizione Mauro Ravarino, che abbiamo incontrato
Sono tanti i motivi per cui un libro come "La guerra in casa" di Luca Rastello, “pietra angolare” della non-fiction italiana e della narrazione dei conflitti dei Balcani abbia ancora molto da dire. Una nuova edizione di Einaudi con aggiornamenti e interviste inedite è uscita in libreria lo scorso 22 settembre, riprendendo in mano le questioni lasciate in sospeso dalla prima edizione del 1998. Mauro Ravarino, giornalista e scrittore, che ne ha curato l’aggiornamento, ha raccontato, nella nostra intervista, delle difficoltà di confrontarsi con un lavoro così importante e di tutti i temi affrontati da questo libro che ancora contano.
Esce questo aggiornamento, dopo 22 anni. Perché adesso?
Per la sua estrema attualità sotto vari aspetti; pensiamo, prima di tutto, al tema dell’accoglienza, sviscerato da Luca Rastello negli aspetti più umani – essendo stato vissuto in prima persona dall’autore – e in quelli giuridici – è inevitabile un parallelo con i giorni nostri dove il diritto d’asilo ha raggiunto il suo minimum umanitario, addirittura deportato sulle coste libiche – ma anche nelle contraddizioni e ombre del terzo settore. L’attualità del libro attesta il valore letterario del lavoro di Rastello, che, liberandosi dall’inganno etnico, che offuscava le categorie interpretative sul conflitto jugoslavo, ha restituito la complessità del reale in tutte le sfaccettature politiche ed economiche. È stato, poi, in grado di anticipare questioni delicate come quella relativa all’economia parallela degli aiuti umanitari e di sperimentare un nuovo stile, che ha consacrato "La guerra in casa" come uno dei capolavori della letteratura di non-fiction. Oltre a tutto questo, dopo venti anni dalla sua uscita, era necessaria, dal punto di vista editoriale, una nuova edizione del libro, la cui lettura resta illuminante.
Dal perché al come: come ha approcciato questo compito? Quali fonti ha usato e quale processo ha seguito?
Monica Bardi, la moglie di Luca, che mi aveva chiesto di occuparmi della nuova edizione, mi ha consegnato una scatola con i libri, i dossier e gli appunti raccolti da lui per lavorare sul tema. Successivamente, ho cercato di riannodare i fili del tempo, dall’anno di uscita del libro (1998) a oggi, attraverso testi, documentari, articoli di giornale e web, archivi online. E tutto ciò è stato essenziale per gli aggiornamenti storici di ogni capitolo (per esempio sugli sviluppi dei vari processi al Tribunale dell’Aja). Nel frattempo, ho provato a mettere in luce gli argomenti che rendono quest’opera necessaria, per la lettura storica di un periodo vicino e complesso, per lo sguardo rivolto al futuro su tematiche che ci avrebbero accompagnato per anni e per il suo ibrido stilistico: non è un diario, né un saggio, né un romanzo, né un reportage. È un po’ tutto questo in una nuova forma che Rastello incominciò a codificare con il suo esordio letterario. Ho, inoltre, deciso, in appendice, di intervistare alcuni protagonisti del libro (Luisa Mondo, Lorenzo Trucco, Agostino Zanotti) a vent’anni di distanza per analizzare il passato e ricostruire insieme i diversi percorsi di vita. Tutte queste sono state le mie fonti.
Immagino anche che mettere le mani su un lavoro così importante e al tempo stesso personale come quello di Rastello abbia implicato molti dubbi di sorta, vista la sua eredità… qual è stato l’aspetto più difficile nell’affrontare questo lavoro?
Premetto che "La guerra in casa" è stato un libro fondamentale per la mia formazione, davvero una pietra angolare che mi ha fornito nuove lenti per guardare il mondo. Quindi, avvicinarmici con il compito di curarne la nuova edizione non è stato facile. Da un lato il timore, dall’altro l’emozione. La volontà è stata quella di non scalfire il contenuto ma di aggiungere delle appendici di senso (postfazione, aggiornamenti storici e interviste) per aggiornare alcuni aspetti e sottolinearne il valore. Trovare questo equilibrio e trovarne il senso è stato l’aspetto più complicato del mio intervento, avendo a che fare con un libro denso e complesso, che d’altronde è stata un’opera di formazione anche per Luca. E questo lo svela quel processo di presa di consapevolezza dello sguardo – destinato a perdere gradualmente l’innocenza originaria a mano a mano che progredisce la vicenda del coinvolgimento nelle attività umanitarie in ex Jugoslavia – che ne costituisce la struttura.
Lei nel libro parla del burn out bosniaco di Rastello e nelle interviste da lei realizzate a corredo emerge la stessa difficoltà in molti protagonisti della cooperazione coinvolti. Cos’è rimasto di quella guerra oggi negli italiani?
La battuta sul burn out – quella sorta di distacco postumo dalla vicenda – non era un vezzo ma il modo tutto suo di dar voce alla fatica, alla difficoltà di affrontare un compito così arduo (grazie al Comitato accoglienza furono salvate 500 persone). Su cosa sia rimasto di quella guerra negli italiani è difficile rispondere. Contestualizzando, c’è sicuramente un gruppo, anche consistente, che ha vissuto direttamente quelle vicende o ha offerto il proprio contributo nell’accoglienza o se ne è interessato, magari per motivi anagrafici, successivamente, e per cui conflitti balcanici sono stati un passaggio indelebile, un tunnel immersivo, perché parlavano a noi e di noi più di quanto raccontassero i media. Le istanze del pacifismo, maturate e rimodulate in quella esperienza forte e traumatica, di coloro che sono andati oltre alla lettura dei blocchi contrapposti, sono confluite nel movimento altermondialista di Seattle e Genova e nelle manifestazioni contro la guerra degli anni appena dopo. Una partecipazione che per quantità e qualità sembra, guardandola oggi, remota. In senso più lato, nel discorso pubblico e nella rappresentazione mediatica, di questa guerra a due passi da casa è rimasto un interesse limitato. Sarebbe, invece, utile affrontare molti nodi irrisolti.
La guerra in casa è un testo che ha molto influenzato la successiva interpretazione delle forze geopolitiche che intervenivano sulla Bosnia Erzegovina. Cosa lo rende un documento ancora così importante?
Rastello lo definì nella premessa “un libro di storie, non di storia”, ma è innegabile il suo contributo storiografico e geopolitico. Ha il merito di aver ricostruito la lunga incubazione del conflitto, di aver messo in fila i fatti e, come sottolineavo prima, di disvelare l’inganno etnico, ovvero la tesi semplificatoria che non approfondiva le questioni politiche ed economiche. La guerra in casa resta un documento importante per l’ampiezza di sguardo, per l’originalità dell’approccio e perché fu chiarificatore di molti aspetti nebulosi. E perché fu in grado di rispondere a domande ma allo stesso tempo di porre dubbi, che sono i tasselli della verità. Opposto e distante da qualsiasi instant book, è un libro fondamentale per capire cosa è successo non solo a due passi da casa ma anche in casa nostra, con tanti temi e interrogativi tuttora d’attualità.
Tra le tesi più significative lasciate dal libro vi è anche il ruolo, tante volte ambiguo, delle organizzazioni non governative di cooperazione. Le giro la domanda che ha posto ad Agostino Zanotti quando parla di accoglienza – e lui risponde comparando i migranti dell’ex Jugoslavia a quelli che arrivano oggi in Europa dal mare o dalla rotta balcanica. Come sono cambiate le cose?
Una delle qualità di Luca Rastello è stata quella di mettere in discussione, oltre al mondo che lo circondava, anche se stesso. Nelle sue pagine, a tratti ruvide, non trovate un dito giudicante, ma una riflessione complessa e collettiva, che disvela retoriche e ipocrisie pure della propria parte. Uno scrittore scomodo, certo, ma che per la profondità del pensiero e la capacità di interrogarsi, per non lasciarsi imbrigliare in qualche etichetta di comodo, ha acquisito un’autorevolezza diffusa e riconosciuta. Lo spiega bene Agostino Zanotti, nell’intervista che gli ho fatto, dicendo che “Luca aveva la capacità di mettere in fila le nostre contraddizioni non per insegnare la via maestra ma perché riuscissimo a rappresentarci per quello che siamo e per costruire progetti coerenti”. Agostino Zanotti, Luisa Mondo e Lorenzo Trucco sono tuttora impegnati sui temi dell’accoglienza e delle migrazioni e lo continuano a fare in prima persona come cooperante, medico e avvocato. Chi sulle Alpi, chi direttamente lungo la rotta balcanica, che non si è mai interrotta. Nell’ex Jugoslavia i muri si sono rialzati e i confini militarizzati per allontanare chi arriva da un altrove che un tempo era l’”altrove balcanico” e ora ha il nome di Siria o Afghanistan. Le condizioni dei profughi dal punto di vista normativo sono peggiori ora più che un tempo: il dispositivo d’asilo è stato falcidiato dalla politica dei muri e dei blocchi.
Il 2020 è stato anche il 25esimo anniversario del genocidio di Srebrenica, con cui Rastello chiude il libro, il passaggio più doloroso ma anche necessario. In Italia oggi rimane sempre un argomento di sfondo, trattato per dovere della memoria, ma è un tema ancora assolutamente vivo. Mi viene in mente per esempio il libro Metodo Srebrenica di Đikić, che è un concentrato sui fatti minuziosi e sui responsabili. Che storie si possono ancora raccontare su Srebrenica?
Se avessi la possibilità di raccontare qualcosa di Srebrenica mi piacerebbe affrontare storie del presente, non per eludere il drammatico passato – il più grande massacro dopo la Seconda guerra mondiale – ma proprio perché è un tema assolutamente vivo. Partendo dalla fine, dall’eredità di un lavoro che non è scritto ma visivo ed è il film documentario di Daniele Gaglianone "Rata néce biti " (Non ci sarà la guerra, 2009), che mi piacque molto, dedicato alle conseguenze e all’eredità della guerra e della pulizia etnica in Bosnia Erzegovina. Un viaggio che va da Sarajevo a Srebrenica.
Come avrebbe accolto Rastello l’opportunità di aggiornare questo testo?
È una domanda che mi sono posto ed era forse fonte di un mio timore iniziale. A lui piaceva “l’immagine dell’eschimese sorpreso dalla primavera sui ghiacci, che si salva saltellando di continuo da un pezzo di ghiaccio all’altro” per evitare che le azioni politiche si ossificassero in vuoti e contraddittori virtuosismi. Vent’anni dopo l’uscita del libro, Luca, che aveva rifuggito l’etichetta di balcanologo, sarebbe risaltato su questa lastra di ghiaccio. Mi piace pensarla così.
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