La guerra, i crimini, le fotografie
I fotografi che hanno documentato le guerre nei Balcani hanno contribuito a modellare la memoria e, in alcuni casi, anche la storia di quegli eventi. Il destino di una fotografia, però, non è nelle mani del suo autore
Per vent’anni ero andata a fare tutte le mie fototessere dal fotografo “Đumišić” che ha tutt’ora un piccolo negozio nel centro di Sarajevo. L’avevo scelto per un motivo ben preciso. Lui modificava parecchio le fotografie, all’epoca si diceva che faceva il retusche, e sulle foto eravamo tutti belli e perfetti. Non si vedevano le rughe, sparivano i brufoli, il viso era liscio come la porcellana.
Ho ancora una di quelle fototessere, per il passaporto, l’immagine è talmente ritoccata che quasi non mi riconosco: sopracciglia sottili, capelli folti, occhi grandi, ciglia lunghe… Boh! Sembro una bambola!
Da noi, negli anni Sessanta, le macchine fotografiche erano ancora rare. Una ce l’aveva mio zio, un ingegnere che lavorava all’estero. Quando veniva a farci visita ci fotografava tutte, una per una, e noi dovevamo considerare questa cosa come un regalo o un evento speciale.
Una di queste mie foto era stata esposta, per un certo periodo, sul vetro della credenza. “Così puoi vedere come sei brutta quando sei accigliata”, aveva detto mio padre. Ero piccola, non mi piacevano questi sistemi di educazione, ma non ci potevo fare nulla. In seguito scelsi il fotografo “Đumišić”, che sulla foto mi rendeva perfetta.
Nel passato le foto personali e di famiglia si facevano raramente, al massimo una volta l’anno, oppure in casi particolari, come la nascita. Nella nostra famiglia questo voleva dire ogni due anni, quando arrivava una di noi sei sorelline. Per l’occasione si chiamava il fotografo locale a immortalare l’evento.
Degli anni Quaranta del secolo scorso mi mancano le foto dei miei genitori quando, durante la Seconda guerra mondiale, facevano i partigiani. Ad eccezione delle medaglie e di qualche ordine di un comandante, scritto a mano su un pezzo di carta sottile e ingiallita, non ci sono altre prove della loro partecipazione alla guerra. Peccato. Mi sarebbe piaciuto vedere ad esempio una foto di mia madre, quando da giovanissima partigiana si metteva nel centro del villaggio e cantava, cercando di far capire ai contadini che i partigiani non erano cattivi. Oppure di avere una foto di mio padre da partigiano che, fantasticavo, doveva essere più o meno come Che Guevara in quella sua famosa foto con il berretto.
Se anche altre famiglie, come la nostra, si facevano fotografare una o due volte all’anno, in casi rari e per occasioni eccezionali, come facevano i fotografi, mi domandavo, a guadagnarsi da vivere?
La risposta la ricevetti quando ormai non la cercavo più, e nel momento meno probabile. Durante l’ultima guerra in Bosnia Erzegovina.
L’archivio di Alija
Uno di questi fotografi, “che non sapevo come facesse a guadagnarsi da vivere”, della città bosniaca di Višegrad, disse al settimanale “Bosna” che, proprio facendo le fototessere e fotografando gli eventi importanti delle famiglie, riusciva ad arrivare alla fine del mese.
A dire la verità questo fotografo, Alija Akšamija, non era uno qualunque, era un vero maestro. Il suo sogno di fare una foto che diventasse un simbolo si è avverato. È proprio lui l’autore della famosa foto del premio Nobel Ivo Andrić, ritratto accanto al protagonista del suo romanzo, il ponte di Mehmed Pasha Sokolović a Višegrad.
Per decenni quella fotografia è stata riprodotta in tutto il mondo, è comparsa in antologie, monografie e riviste, ed è diventata l’immagine emblematica dello scrittore. Ciò nonostante, per molto tempo non si era saputo chi fosse l’autore di quell’immagine, finché un giorno non è apparsa la famosa foto con la firma di Alija Akšamija.
Scattata nel 1963, quella foto in bianco e nero è bella ancora oggi. Con il passare del tempo non ha perso nulla della sua forza, della sua vivacità e della sua poesia. Evoca ancora la forte simbiosi tra lo scrittore e il ponte sulla Drina. Anche se Akšamija non avesse fatto nessun’altra foto, sarebbe bastata quella per farlo considerare un artista.
Nei media bosniaci, però, Alija Akšamija è comparso per parlare di un’altra cosa derivata dal suo mestiere, utile ma inattesa.
Durante la guerra, Akšamija scappò da Višegrad e si rifugiò a Sarajevo. Nella sua città migliaia di musulmani bosniaci furono uccisi, violentati, messi al rogo, e sono ancora più di mille le persone scomparse.
I sopravvissuti parlano dei criminali, conoscono i nomi e i soprannomi degli assassini, li descrivono. Ma spesso non si riesce a dare un volto ai colpevoli, agli aguzzini, ai ladri, agli stupratori.
L’archivio fotografico che Akšamija aveva portato in salvo, scappando da Višegrad, si è mostrato utile perché, scrutando attentamente le sue pellicole, le sue foto, i suoi negativi, si è riusciti in certi casi ad abbinare i nomi ai volti dei colpevoli.
Talvolta non occorre cercare, né esaminare gli archivi fotografici o le foto segnaletiche in possesso delle autorità giudiziarie. Spesso i mostri, orgogliosi delle proprie nefandezze, si fanno fotografare accanto alle vittime, mentre stanno per compiere il crimine, nel momento in cui sparano per uccidere, mentre torturano, assaltano, distruggono.
Ne è un esempio la foto, diventata simbolo, che mostra il capo della polizia del Vietnam del Sud, il generale Nguyen Ngoc Loan, mentre giustizia per strada, sommariamente, un prigioniero Vietcong (sospettato), Nguyen Văn Lém, a Saigon, nel febbraio 1968.
Una foto quasi identica fu scattata durante la guerra in Bosnia, nell’aprile 1992. L’autore è il fotoreporter americano Ron Haviv, che documentava l’assalto alla città di Bijeljina da parte dei paramilitari serbi comandati dall’infame Željko Raznatović “Arkan”.
La foto mostra un civile terrorizzato che prega per la propria vita. La sua paura è quasi tangibile, il suo sguardo supplica pietà, le spalle abbassate (per proteggersi dai colpi?) e le mani (che tremavano?) alzate in alto. Guardo la foto e ogni volta mi stupisco e ho paura come se quello che è successo vent’anni fa stesse per succedere adesso. Mi pare di sentire il pianto e la voce della vittima. Guardo la foto e penso a come si sentisse l’uomo, consapevole di stare per essere giustiziato.
Molti infami criminali, quando arriva il momento di fare i conti con l’“eroismo” immortalato sulle foto, cercano di negare, di “spiegare il contesto”, parlano di “equivoco”, accusano i testimoni di aver interpretato male, di non aver visto bene, criticano gli altri per aver falsificato, minacciano…
Vedran nella Vijećnica
La parola pronunciata, anche davanti ai testimoni e in pubblico, può essere contraddetta, negata. La fotografia invece è spietata, è un documento imbattibile, una testimonianza solida.
Sono convinta che un tale Jelenko Mićević, alias Filaret, vescovo della Chiesa serbo ortodossa, darebbe tutto se oggi potesse far sparire la foto scattata nel 1991 sul fronte in Croazia, che lo ritrae davanti ad un carro armato con un kalashnikov in spalla. E non solo lui!
Nel 1992, a Belgrado, ero presente quando un gruppo di lobbisti per la causa serba discuteva se fare dei grandi manifesti di un mujaheddin che si era immortalato esibendo la testa tagliata a un serbo bosniaco durante la guerra in Bosnia.
Contrariamente a quello che si pensa o si crede, le immagini “intrise di sangue” non sono necessariamente anche quelle che ci scuotono di più. Di fronte alle immagini troppo crudeli giriamo lo sguardo dall’altra parte, non resistiamo. Il messaggio è: “Ho pietà di te, ma non posso sopportare di guardare”.
Per esempio le fotografie della strage di 22 persone in fila per il pane a Sarajevo nel 1992, dove tutto è bagnato di sangue, hanno avuto molto meno impatto sull’opinione pubblica della foto del violoncellista di Sarajevo, Vedran Smajlović. Vestito in smoking, noncurante dei bombardamenti e dei cecchini nella Sarajevo assediata, Vedran aveva suonato l’Adagio in sol minore di Tommaso Albinoni per ventidue giorni, un giorno per ogni vittima uccisa in fila per il pane. L’immagine del violoncellista è stata molto più esplicita, e descrittiva di quanto stava succedendo in Bosnia, rispetto a molte fotografie di orrori, morte, distruzione o sofferenze. “Un popolo sotto il fuoco d’artiglieria riesce a mantenere l’umanità”, con queste parole il “New York Times” aveva pubblicato la foto del violoncellista.
La fotografia diventata icona del tradimento di Srebrenica da parte di Europa, Stati Uniti e Nazioni Unite, e che infine ha cambiato la posizione americana nei confronti della guerra in Bosnia, è quella che raffigura la giovane donna bosniaca Ferida Osmanović, impiccatasi nel bosco dopo che la città era stata presa dai serbi. Questa foto fu mostrata durante il dibattito su Srebrenica nel congresso americano, ed ebbe un impatto decisivo sulla politica degli Stati Uniti in Bosnia.
A un primo sguardo non si coglie la tragedia di quell’immagine. Si vede solo una giovane donna in piedi nel verde del bosco, è quasi un’immagine idilliaca. Solo guardando più attentamente si notano i piedi che non poggiano a terra, e la sospensione del corpo.
Un’altra delle fotografie simbolo della guerra in Bosnia raffigura un paramilitare serbo che, nella città di Bijeljina, prende a calci la testa di una donna bosniaca, già morta, stesa a terra accanto ad altre due vittime.
L’autore è il fotoreporter americano Ron Haviv che, con il permesso del criminale Arkan, fotografava i membri dei paramilitari, le così dette “Tigri”, durante l’assalto alla città di Bijeljina.
Uno di loro è giovane, alto, snello, con il lanciarazzi a tracolla, nella mano destra un kalashnikov, nella sinistra una sigaretta accesa, un nero passamontagna sotto la spallina e occhiali da sole in cima alla testa.
Il giovane, a confronto dei rozzi colleghi “assetati di sangue” (giudicando dai loro sguardi), sembra un “cittadino”, una persona più fine. Ma è proprio lui con lo stivale nero destro alzato che sta per colpire la testa della donna morta.
Il contrasto tra quella figura fine e il gesto malvagio è da brividi. Lo fa con scioltezza, come si prende a calci una lattina vuota, un pallone che ci arriva all’improvviso mentre passeggiamo vicino a un parco. Inoltre il giovane “cittadino” lo fa sapendo di essere fotografato, lo testimonia l’autore dell’immagine Ron Haviv.
Per ogni foto una storia
Dietro ogni foto c’è una storia, scrive Susan Sontag nel suo famoso libro “Sulla fotografia”.
La testa mozzata con la quale si è fatto fotografare un mujaheddin apparteneva al soldato serbo bosniaco Blagoje Blagojević, che nel 1992 fu catturato in Bosnia centrale e decapitato. Il combattente islamico che si è fatto fotografare con la testa tagliata era un cittadino francese, Christopher Kaze, convertitosi all’islam, e che all’inizio della guerra era arrivato in Bosnia. Fu ucciso in uno scontro con la polizia belga.
La giovane donna di Srebrenica, Ferida Osmanović, si impiccò nei campi circostanti Tuzla l’11 luglio 1995, dopo il sequestro di suo marito da parte dei serbi bosniaci. Solo pochi giorni prima lo aveva convinto a rimanere con lei e i loro due figli invece di fuggire nel bosco. Fu sepolta come sconosciuta, e solo sei mesi dopo la morte fu identificata dai suoi figli dall’unica foto che avevano della madre.
Il civile che pregava per la propria vita si chiamava Hajrus Ziberi. Nell’aprile 1992 aveva ventiquattro anni, era sposato da soli tre mesi. Il giorno in cui fu scattata la foto stava andando a lavorare, fu catturato dalle “Tigri”, buttato giù da un palazzo, sopravvissuto, poi torturato e ucciso. Il suo corpo fu gettato nel fiume Drina, ripescato nella città serba di Sremska Mitrovica, sepolto come uno sconosciuto, esumato e identificato nel 2004, e infine sepolto nel suo paese d’origine in Macedonia.
La donna morta presa a calci si chiamava Tifa Šabanović. Fu uccisa davanti alla propria casa, insieme al marito e a un vicino.
A lungo non si è saputo chi fosse il “fine” paramilitare. Il suo volto era ignoto. Sulla foto è inquadrato di spalle. Dopo un arresto a Belgrado per droga e possesso di armi, si “scoprì” che si trattava di Srđan Golubović.
Dopo Bijeljina, Srđan Golubović non si era nascosto. Anzi, stava proprio sotto i riflettori della scena musicale di Belgrado. Il kalashnikov e il lanciarazzi li aveva sostituiti con il giradischi e il sintetizzatore. Il suo nome d’arte oggi è DJ Max. Negli ultimi vent’anni ha fatto carriera occupandosi di musica Trance e di “after party”. Dicono che le sue feste erano tra le migliori nella capitale serba.
Srđan Golubović, alias DJ Max “è uno di quelli che ci permettono, dopo ogni grande festa, di continuare a divertirci”. Così veniva reclamizzato il “fine” ragazzo, “il cittadino” che, dopo aver preso a calci la testa della donna morta, aveva continuato a divertirsi.
Vent’anni dopo lo scatto della famosa fotografia, Srđan Golubović è stato arrestato. Non per i crimini di guerra, però, ma per possesso di droga e armi non dichiarate. E poco tempo dopo è stato rilasciato.
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