La guerra di un soldato in Cecenia
Nel suo libro Arkadij Babčenko offre una testimonianza di prima mano, scevra da rigurgiti ideologici e retorica militarista, di una persona che ha vissuto la guerra in Cecenia indossando la divisa dell’esercito russo. Maria Elena Murdaca, traduttrice del libro, lo racconta ai lettori di Osservatorio
Arkadij Babčenko, mettendo a disposizione la sua esperienza di soldato russo, ci fa un dono inestimabile: una testimonianza di prima mano, scevra da rigurgiti ideologici e retorica militarista, di chi la guerra l’ha combattuta indossando la divisa dell’esercito russo. Abbiamo avuto l’ineguagliabile copertura del conflitto in tutte le sue sfaccettature da parte di Anna Politkovskaja. Non sono mancati i racconti di denuncia di chi la guerra, da parte cecena, l’ha subita. La letteratura "giuridica" ha avuto il suo spazio con le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le immagini degli ostaggi della scuola di Beslan e del teatro Dubrovka a Mosca sono ancora vive nella memoria di tutti. I pamphlet ispirati allo slogan putiniano "annegheremo i ceceni nel cesso" si sono sprecati, sia in Russia sia in Occidente. La parte armata cecena, terroristi, indipendentisti, partigiani o comunque li si voglia chiamare, hanno avuto il loro punto di riferimento nei proclami del Kavkazcenter.
Ma mancava finora il racconto pulito e senza fronzoli di chi era stato in una trincea russa. Di chi poteva spiegarci che cosa succede quando sei in guerra. Di chi in guerra ci è finito per caso, ragazzino soldato di leva, senza che nessuno gliene dicesse il motivo, e poi ha deciso di tornarci come kontratnik, attratto da una forza misteriosa. In una video-intervista rilasciata alla Novaja Gazeta, Babčenko definisce la guerra come una droga potente che crea dipendenza, ed è alla luce di questa consapevolezza che si svolge la narrazione. Come Babčenko aveva raccontato in un’intervista ad Osservatorio, il movente primo della scrittura è stato terapeutico: "Quando ho iniziato a scrivere non l’ho fatto pensando a un libro. Non avevo in mente i diritti d’autore. Per me è stato un modo per affrontare un processo di riabilitazione, che non è previsto per chi ha combattuto. Siamo carne da cannone. Scrivere mi ha aiutato ad andare avanti. E per me è anche un modo per saldare il debito che ho con chi non è mai tornato."
Il libro è cruento. Non è facile leggerlo, va preso a piccole dosi. L’orrore descritto è tale da rendere difficile sopportare la lettura di più di due pagine per volta. Ma la potenza narrativa unita al desiderio di sapere cosa è successo, spinge ad andare avanti fino all’ultima pagina.
La guerra di un soldato in Cecenia si inserisce in quel filone della letteratura documentaria di guerra che da Tolstoj e Rilke approda a Svetlana Aleksievič (Ragazzi di zinco, raccolta di testimonianze di reduci sovietici dall’Afghanistan) o al più recente Ishmael Beah (Memorie di un soldato bambino sul conflitto in Sierra Leone). Ampio spazio è dedicato alla vita del militare russo, alla gerarchia interna, ai maltrattamenti, a quel nonnismo estremo, sadico e crudele che talvolta, ma non quanto basta a fermare il fenomeno, assurge alle pagine di cronaca. È questo ad esempio il caso di Andrej Sičev, il carrista di Čeljabinsk, cui gambe e genitali sono state amputate in seguito alle percosse ricevute dai "nonni". Lo stesso esercito di miserabili che Anna Politkovskaja racconta nelle prime pagine de La Russia di Putin. Un esercito che arruola criminali comuni perché, se qualcuno deve morire, tanto vale che siano i peggiori.
Il racconto è costellato di delicate figure femminili che qua e là addolciscono il fiele: la madre del soldato, che, senza dire una parola, misura al figlio le falangi prima che parta, per essere sicura di poterne riconoscere i resti; la "zia" che ti accoglie in casa e ti sfama, perché potresti essere suo figlio, anche se appartieni ad un’etnia diversa; l’infermiera immacolata di cui tutti si innamorano, che con la sola sua presenza ti ricorda che esiste un’altra vita; la ragazza rimasta a casa ad aspettare. Diversi sono gli episodi in cui ricorre la fame: la fame endemica di provviste che non arrivano mai in tempo, il cane che finisce in pentola, il pane rancido mangiato di gusto, il saccheggio delle abitazioni appena abbandonate dai ceceni per poter mangiare e arrivare al giorno dopo, il colpaccio della dispensa riservata ai gradi alti che si trattano bene. Il primo pestaggio. Il primo furto. La prima volta che vendi un’arma. La prima volta che uccidi. Il primo amico perso in guerra. Un battesimo di fuoco a ogni passo. Per molti versi, “La guerra di un soldato in Cecenia” può essere considerato un Bildungsroman, un romanzo di formazione.
Babčenko dedica alcune pagine anche ad aspetti che finora non sono stati approfonditi abbastanza, come la riduzione in schiavitù dei prigionieri di guerra russi, e la diserzione dei soldati che hanno combattuto a fianco dei ceceni, non tanto per convinzione quanto per codardia. O la consuetudine di far trasportare le bare dei compagni morti a soldati di leva russi che scontano così la loro colpa di essere vivi. Essere vivi. Perché tu no e io sì? Non dipende dall’essere migliori o più bravi, dal meritarselo oppure no. Da cosa, allora? Questo è forse l’interrogativo più alto posto dal libro.
Com’era in Cecenia? I soldati russi sono dei mostri? Com’è il rancio? Chi comanda l’esercito? Cosa pensano i soldati dei loro comandanti e dei loro governanti? Com’è il congedo? E il ritorno a casa? Cosa succede dopo? La vita continua? Queste sono solo alcune delle domande a cui Arkadij Babčenko risponde.
Tradurre il suo libro in italiano è stato per me un privilegio.
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