La fucina dei terroristi
Le recenti operazioni contro reti jihadiste in Bosnia Erzegovina e Kosovo allarmano il pubblico occidentale. Le statistiche sui combattenti stranieri in Iraq e Siria, però, mostrano che purtroppo i paesi balcanici sono paesi “normali”. Il dibattito nella regione
All’inizio di settembre, la polizia bosniaca ha arrestato 16 persone accusate di far parte di una rete volta a finanziare e organizzare l’invio di militanti islamici in Siria e Iraq. L’operazione antiterrorismo, denominata “Damasco”, è stata condotta in diverse località del paese e ha portato al ritrovamento di “una grande quantità di armi, munizioni e equipaggiamenti militari”, come dichiarato dalla funzionaria dei servizi di sicurezza Kristina Jozić. Tra gli arrestati c’è Hamdo Fojnica, padre di Emrah, una delle persone coinvolte nelle indagini seguite all’attacco portato da Mevlid Jašarević contro l’Ambasciata americana a Sarajevo nel 2011. Emrah, prosciolto dalle indagini, era poi partito per combattere in Iraq, dove secondo i media locali è recentemente morto compiendo un attentato suicida. L’inchiesta bosniaca ha interessato anche i media e il pubblico italiani per la presenza tra gli arrestati di un personaggio che aveva frequentato a più riprese l’Italia, Hussein «Bilal» Bosnić. Recentemente intervistato da Repubblica , Bosnić aveva parlato di un piano islamico volto a “conquistare il Vaticano”.
Il giorno dopo l’operazione, il quotidiano bosniaco Oslobođenje, tra gli altri, ha pubblicato una lista con nomi e fotografie dei cittadini bosniaci, circa 150, che avrebbero combattuto o starebbero combattendo in Iraq e Siria.
La regione
Nel marzo scorso, la polizia albanese aveva condotto un’operazione simile contro una rete jihadista che, a Tirana, organizzava la partenza di volontari per la guerra in Siria, arrestando 8 persone tra cui 2 imam.
In agosto, la polizia del Kosovo ha invece arrestato 40 presunti jihadisti, sospettati di aver preso parte alle guerre in Siria e Iraq, e scoperto depositi di armi. Una recente inchiesta di Paolo Fantauzzi pubblicata dal settimanale l’Espresso (I nuovi jihadisti vengono dal Kosovo ) parla di “centinaia di combattenti partiti per Iraq e Siria” e descrive l’ex provincia serba, a sei anni dall’indipendenza, come una “fucina di terroristi”. Secondo fonti investigative citate dall’Espresso, ci sarebbero nella regione “almeno 20 cellule terroristiche attive nel reclutamento e addestramento fra Serbia, Albania, Macedonia, Kosovo, Montenegro e Bosnia Erzegovina.”
In alcuni casi i combattenti porterebbero con sé anche le famiglie. L’Interpol sta cercando un bimbo di due anni, Ismail Mešinović, cittadino bosniaco, scomparso il 15 dicembre scorso a Belluno. Sarebbe stato condotto in Siria dal padre, Ismar Mešinović, morto in guerra. Nella regione ha fatto molto scalpore inoltre il caso di Erion, nove anni, del Kosovo, condotto in Siria dal padre Arben contro il volere della madre, Pranvera Abazi. All’inizio di luglio, invece di condurre il figlio per un week end nella Val Rugova, come aveva detto alla moglie, il padre sarebbe partito per la Siria. Immagini circolate su internet e diffuse dalle reti televisive kosovare mostrano il piccolo Erion in compagnia di combattenti dello Stato Islamico.
Questo preoccupante fenomeno non rappresenta una peculiarità dei paesi balcanici, ma si inserisce in un quadro globale nel cui contesto i Balcani rappresentano solo un elemento.
Il settimanale britannico Economist ha recentemente pubblicato una tabella che illustra i dati raccolti da diversi servizi di intelligence sui combattenti stranieri in Siria e Iraq. Secondo il Soufan Group , un centro studi citato dall’Economist, a maggio 2014 ci sarebbero stati in Siria 12.000 combattenti stranieri provenienti da 81 paesi diversi. La Siria infatti starebbe attraendo più militanti che qualsiasi altro conflitto in passato, incluso l’Afghanistan negli anni ’80 o l’Iraq dopo l’invasione americana del 2003, e la cifra di 12.000 – secondo Economist – è oggi da rivedere al rialzo.
I paesi dei Balcani però non sono neppure menzionati dal settimanale britannico, che segnala il primato della Tunisia (3.000), seguita da Arabia Saudita (2.500), Giordania, Marocco, Libano e poi dai paesi occidentali come Francia (700), Gran Bretagna (400) e Germania (270). Alla luce di queste statistiche, dunque, Bosnia Erzegovina e Kosovo andrebbero considerati come due paesi “normali”.
Balcanismi
Il rapporto (conflittuale) con le comunità islamiche locali, le recenti guerre nella regione e la presenza di strutture statali considerate come deboli, in particolare per alcuni paesi, rappresentano tuttavia innegabili elementi di specificità per i Balcani.
Le strutture ufficiali delle comunità islamiche, nei Balcani, appaiono da anni in una situazione di imbarazzo o difficoltà per la presenza dei competitori radicali che sono comparsi ed hanno cominciato a fare proseliti a partire dagli anni ’90. La ruvida dialettica esistente tra Islam locale e nuove forme attraversa da tempo il dibattito religioso nella regione, e verosimilmente verrà riaccesa dai recenti eventi.
La comunità islamica albanese, da poco guidata da Skender Burçaj, ha condannato la partecipazione di cittadini albanesi alla guerra in Siria e dichiarato che i due imam arrestati a marzo non facevano parte delle proprie strutture. Il segretario della comunità islamica del Kosovo, Resul Rexhepi, è recentemente intervenuto sulla questione dei bambini condotti in zone di combattimento dichiarando che “si tratta di qualcosa di inimmaginabile, che colpisce quanto c’è di più puro e prezioso, cioè i bambini […] condanno severamente simili follie.”
Il capo della comunità islamica bosniaca, il reisu-l-ulema Husein effendi Kavazović, il 5 settembre scorso ha fatto un pubblico appello allo Stato islamico chiedendo la liberazione dell’operatore umanitario britannico David Haines “in nome della solidarietà musulmana”, ricordando l’azione di Haines a favore dei ritornanti musulmani in Bosnia Erzegovina e affermando che “l’omicidio di una persona innocente equivale all’omicidio dell’intera umanità.”
Il quotidiano sarajevese Oslobodjenje ha pubblicato ieri una lunga intervista a Rešid Hafizović, professore alla Facoltà di Scienze islamiche della capitale bosniaca, che definisce l’ISIL come un "esercito privato di assassini".
Il grande numero di armi ritrovate nel corso di queste operazioni rappresenta un’ulteriore specificità balcanica. Si tratta verosimilmente di un’eredità del ciclo dei conflitti degli anni ’90 e, sotto questo profilo, le ripetute azioni di raccolta di armi e disarmo della popolazione, condotte ad esempio in Bosnia Erzegovina dopo la guerra ’92-’95 dalle forze internazionali, non hanno evidentemente dato i risultati attesi.
Per quanto riguarda infine la debolezza delle strutture di alcuni paesi della regione, in particolare Bosnia Erzegovina e Kosovo, le recenti operazioni sembrano indicare un’inversione di tendenza, almeno sotto il profilo della sicurezza. Inoltre in passato, soprattutto in Bosnia Erzegovina, operazioni fortemente mediatizzate avevano prodotto scarsi risultati e il rapido rilascio dei fermati. Il parlamento di Sarajevo ha tuttavia da poco approvato una legge che prevede fino a 10 anni di carcere per chi recluta o combatte all’estero, mentre in Kosovo è in discussione un provvedimento simile.
Altri commenti
Diversi commenti apparsi sui media della regione dopo le recenti operazioni antiterroristiche sottolineano la marginalizzazione come causa del radicalismo, gli spazi lasciati ai predicatori di violenza da una situazione di dissesto economico, in generale la debolezza delle istituzioni statali. Il teologo islamico Muhamed Jusić, ripreso dal portale informativo Buka, ha sostenuto che “tali ideologie, gruppi o movimenti non possono essere sconfitti solo con la repressione […] ma che la prevenzione del radicalismo si cura con l’inclusione dei giovani nelle nostre società.”
Il noto giornalista e scrittore Miljenko Jergović, da Zagabria, ha invece collegato queste operazioni alla recente morte di 5 minatori in Bosnia centrale, sottolineando amaramente come i media croati abbiano dedicato pochissimo spazio al disastro di Zenica, una città a sole 3 ore di macchina dalla capitale croata, come se si fosse trattato di un evento accaduto in Cina. Al contrario, sostiene Jergović, quando si tratta del pericolo islamico, la Bosnia diventa subito vicinissima.
Si tratta di un vizio che non appartiene solamente ai media croati, e che rischia di aprire la strada a forme di islamofobia. Perdendo di vista il fatto che la vera fucina di terroristi è la guerra che da ormai troppi anni lacera il Mediterraneo e il Medio Oriente.
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