La fragilità del confine azero-daghestano
Il governo di Baku ha deciso di prolungare la chiusura dei confini dopo un drastico aumento dei contagi da Covid19. A farne le spese sono gli azerbaijani residenti in Russia, tutt’oggi bloccati al confine tra Daghestan e Azerbaijan
Al confine tra l’Azerbaijan e il Daghestan, gli scontri tra lavoratori azerbaijani residenti in Russia e la polizia locale rischiano di creare tensioni e provocare la riapertura di vecchie ferite. In passato, le relazioni tra i due stati sono state spesso incrinate dal sorgere di questioni, sia di tipo economico che identitario e tutt’oggi c’è il rischio che i rancori sedimentati risorgano al sopraggiungere di una crisi di qualsiasi natura.
La più recente controversia nasce dalla decisione del governo dell’Azerbaijan di mantenere i confini chiusi ai cittadini azerbaijani residenti all’estero, al fine di prevenire un aumento di casi di coronavirus, ed alla scelta di alcuni lavoratori azerbaijani di far comunque ritorno a casa in seguito alla chiusura delle attività in Russia a causa dell’epidemia. Lo scorso 21 giugno, l’Azerbaijan ha annunciato un prolungamento della chiusura dei confini, dopo un aumento vertiginoso dei casi di contagio.
Lavoratori bloccati al confine
La questione è sorta diversi mesi fa, quando centinaia di lavoratori sono stati fermati presso il villaggio daghestano di Kullar, al confine con l’Azerbaijan, in attesa di poter finalmente attraversare il confine. Il desiderio di far ritorno a casa si è trasformato presto in frustrazione, dopo che i lavoratori si sono sistemati in accampamenti improvvisati, nella lunga e stremante attesa del via libera da Baku. Nel mentre, nessuna misura di tutela è stata presa nei loro confronti e nuovi flussi di azerbaijani hanno continuato a confluire dalla Russia ogni settimana, sovraffollando le temporanee tendopoli e peggiorando le condizioni di salute della nuova comunità di migranti, soprattutto di donne e bambini.
Il governo dell’Azerbaijan ha assicurato che i cittadini verranno man mano rimpatriati, per non sovraffollare i centri per la quarantena. Ha poi aggiunto che i cittadini residenti all’estero erano stati avvertiti di non fare ritorno in Azerbaijan. La posizione ferrea del governo ha sorprendentemente creato delle spaccature in Parlamento, che è solito abbracciare una posizione omogenea. Erkin Gadirli , unico parlamentare del partito REAL, semi-indipendente, ha definito la decisione del governo una violazione della Costituzione.
Il tre giugno , un gruppo di lavoratori ha indetto uno sciopero della fame, terminato con la decisione del governo dell’Azerbaijan di riaprire il confine ad alcuni di loro. Il processo discontinuo di apertura dei confini non ha seguito fino ad oggi regole certe né una logica. È piuttosto guidato da decisioni estemporanee del governo, che spesso danno adito a trattamenti ineguali. Ai lavoratori viene permesso di attraversare il confine alcuni gruppi alla volta , ma ad alcuni di loro, seppur arrivati in un secondo momento, viene data la precedenza rispetto a chi è rimasto in attesa da più tempo. Secondo alcune testimonianze, le autorità al confine sono state corrotte. Queste vicende, insieme all’annuncio di nuovi arrivi dalla Russia, ha provocato una nuova protesta nella giornata del 15 giugno. Una decina di persone ha tentato di bloccare il passaggio lungo l’autostrada e alcuni di loro hanno lanciato delle pietre contro le forze dell’ordine russe, che hanno reagito con lacrimogeni, manganelli e spari in aria. Alcuni agenti sono rimasti feriti e diversi veicoli sono rimasti danneggiati. Quasi un centinaio di cittadini azerbaijani sono stati arrestati ed è stata aperta un’investigazione per i reati di aggressione alla polizia.
Secondo quanto riportato da un membro del Parlamento del Daghestan, una delegazione di ufficiali azerbaijani avrebbe visitato l’area, ma senza mostrare una reale preoccupazione per la situazione dei diritti dei lavoratori fermi al confine. Ad avere maggior peso sono state le telefonate tra i rispettivi presidenti Vladimir Putin e Ilham Aliyev. In seguito alle conversazioni private tra i due leader, avvenute lo scorso maggio, è stato permesso di attraversare il confine ad un gruppo di 700 persone. Di nuovo, il 17 e il 18 giugno , i due leader si sono scambiati opinioni sulla situazione al confine, nella speranza di raggiungere un accordo.
Geopolitica, risorse e minoranze
Non è una novità che le relazioni tra Azerbaijan e Daghestan dipendano da accordi tra i vertici di Mosca e Baku. Ma soprattutto che la necessità ai vertici di superare l’impasse nasca perlopiù dalla volontà di salvaguardare equilibri geostrategici più che le condizioni di salute delle persone. A complicare il raggiungimento di un’armonia duratura nell’area sono le relazioni tra Daghestan e Azerbaijan, che da anni proseguono su un cammino tortuoso. Mosca ha interesse a spegnere ogni fonte di una possibile crisi tra il governo daghestano e quello dell’Azerbaijan. Mantenere la cooperazione tra Baku e Makhachkala è necessario sia per prevenire la diffusione dell’islamismo di stampo salafita nel Caucaso che per garantire il passaggio del gas nei territori a sud della Federazione. Il gasdotto Baku-Novorossyski attraversa i territori daghestani e una destabilizzazione dei rapporti con Makhachkala metterebbe a rischio l’approvvigionamento energetico della Russia meridionale. Il Cremlino ha dunque interesse a garantire la salvaguardia di tali infrastrutture, in quanto trasportare il gas in queste regioni direttamente dal centro della Federazione sarebbe più costoso che comprare il gas direttamente dall’Azerbaijan. Mentre quest’ultimo non vuole perdere la posizione di hub centrale per la fornitura del gas nel Caucaso del Nord.
Le regioni periferiche lungo il confine sono una polveriera che può facilmente prendere fuoco, sia per questioni identitarie che economiche. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, ed il conseguente rafforzamento delle identità etniche, il Caucaso si è trasformato in un terreno fertile per il nascere di nazionalismi e la minaccia separatista. Nel nord dell’Azerbaijan, la minoranza daghestana dei Lezgins, minoranza sunnita in un paese sciita, ha più volte manifestato la volontà di formare una repubblica autonoma. Il governo azerbaijano dal canto suo, non ha creato le basi per una forte integrazione della minoranza. All’integrazione è stata preferita una politica di assimilazione all’identità azera. Il disconoscimento dei diritti dei Lezgins nel in parlamento è aumentato con il passaggio da un sistema proporzionale ad uno maggioritario nel 2005. Al fine di tarpare il desiderio di indipendenza, il governo dell’Azerbaijan ha appoggiato il governo di Mosca nella guerra contro le Repubbliche separatiste di Cecenia e Daghestan, condividendo con Mosca il timore di un’infiltrazione nei rispettivi territori dei separatisti appartenenti alla corrente salafita islamica, di stampo radicale.
Al di là delle questioni identitarie, la condivisione di un confine lungo quasi 300 km ha permesso il fiorire di rapporti commerciali tra Daghestan e Azerbaijan. Tuttavia, l’equilibrio è minato dal problema dell’approvvigionamento delle acque del fiume Samur, che nasce in Daghestan e che per 38 km separa l’Azerbaijan dalla Russia. Dal 2010, il controllo è stato spartito in parti eque tra Mosca e Baku, non senza causare qualche tensione tra Baku e Makhachkala nel 2016, quando le acque del Samur si sono prosciugate, lasciando gli abitanti delle rispettive periferie senza risorse per irrigare i propri campi di cotone. In quell’occasione, Baku non ha previsto alcuna soluzione per le minoranze residenti nel nord del paese.
Alla luce delle passate controversie, mai del tutto risolte, è facile dunque intuire come gli scontri di questi giorni tra la polizia e i cittadini azerbaijani possano facilmente costituire l’occasione per rinvangare malcontenti del passato mai sopiti, relativi soprattutto alla negligenza con cui le autorità azerbaijane hanno gestito l’integrazione delle minoranze daghestane nel nord del paese e all’appoggio a Mosca nelle guerre cecene.
In quest’occasione però non sono solo i rapporti tra Azerbaijan e Daghestan a minare l’immagine del primo. Ancora una volta Baku ha dimostrato scarsa attenzione verso la tutela dei diritti dei propri cittadini, in questo caso dei lavoratori residenti all’estero. La vicenda d’altronde di inserisce in un dibattito più ampio, che vede il governo di Baku oggetto di rinnovate accuse da parte dei membri del Consiglio d’Europa relativamente ai noti bassi standard di tutela dei diritti umani. In risposta l’Azerbaijan ha minacciato il ritiro dall’organizzazione, peraltro accusando questa di faziosità a vantaggio del vicino armeno. È importante precisare che un ritiro dell’Azerbaijan comporterebbe conseguenze non di scarsa importanza per i propri cittadini, che possono ancora ricorrere in ultima istanza alla Corte di Strasburgo per far valere i propri diritti. In tale contesto, le recenti vicende lungo il confine settentrionale potrebbero alimentare le già esistenti discordie tra Baku e Strasburgo.
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