La figlia che vorrei
Una narrazione che rende i sapori del Carso e del mare. E che racconta della capacità di riconoscere l’amore. Una recensione
Si respira il Carso e, a tratti, l’aria di mare che spira dal golfo di Trieste nel romanzo, edito da La nave di Teseo, “La figlia che vorrei” di Tatjana Rojc, scrittrice della minoranza slovena in Italia. Un romanzo che, nelle immagini che la scrittura sa suscitare, alterna i campi lunghi dell’altopiano ai primi piani degli interni; dai piccoli villaggi sparsi, con i refoli della bora che agitano la bassa vegetazione tra le rocce, gli orti, i muretti di sassi, agli ambienti illuminati da una luce di neve, con i tavoli dalla tovaglia a quadretti, piccole librerie, le figure silenziose, uomini e donne di poche parole. Si avverte la frontiera vicina da una certa atmosfera che aleggia tra le pagine.
C’è una donna al centro di tutto questo, una donna che potrebbe appartenere ad ogni tempo, anche se la storia converge sui nostri giorni. Si chiama Sanja e, appoggiata al davanzale della finestra, lascia scorrere la memoria. È l’incipit di una storia che si dipana senza seguire una trama lineare ma per contrappunti dettati dalla memoria che la morte della zia Nora ha improvvisamente avviato. È come se la sua morte, così inestricabilmente legata alla sua vita, avesse costretto Sanja a ripercorrerla come una matassa ingarbugliata dalla quale trarre il filo che le consenta di riprendere il cammino che quel triste evento ha interrotto. Non una resa dei conti con se stessa, ma un guardare avanti facendo ormai affidamento sulle sole proprie forze.
Sanja, nonostante tutto, comunque sa di non essere sola. E di aver imparato dai propri errori, forse anche colpe. Un primo matrimonio ancora giovanissima con l’uomo sbagliato, un aborto segreto, ma poi la capacità di riconoscere ancora l’amore vero, al di là della precoce delusione, con un uomo di trent’anni più vecchio di lei, Leone, che saprà darle quell’equilibrio di cui aveva bisogno dopo l’esperienza negativa, seppur a prezzo di una bonaria gelosia da parte dell’uomo. E, insieme a Leone, un altro uomo ancora, Boris, uno scrittore la cui esistenza, che ha conosciuto terribili avversità, non si è mai piegata allo sconforto per aver saputo imprimere ad essa quella fiducia nel futuro che gli ha consentito di realizzarsi come uomo e, anche, come scrittore.
Non è difficile individuare nella figura di Boris lo scrittore Boris Pahor, di cui Tatjana Rojc è amica, studiosa e coautrice della biografia di lui “Così ho vissuto”, edito nel 2013 da Bompiani. E, se non altro per empatia, se non come identità, intuire in Tatjana il personaggio di Sanja, alla quale l’autrice presta i sentimenti che animano i suoi rapporti con Boris, importanti nel romanzo dove in questo modo le storie personali si aprono a squarci di storia più grande.
Tutto il romanzo è affidato alla scrittura che si nutre di chiaroscuri, talvolta attraversata da una luce più vivida, quella del sole, quando la narrazione dal petroso altopiano del Carso si sposta sul mare, del quale l’autrice traccia pagine bellissime, ricche di poesia nel rincorrersi dei ricordi. E del desiderio. Come nel capitolo “Un divenire”. A proposito: il susseguirsi dei capitoli, ciascuno contraddistinto da una parola “Nora”, “Inverno”, “Memorie” e così via aprono lunghi flash che illuminano squarci di vita, paesaggi, sensazioni, emozioni, ricordi, fantasie, visioni che restituiscono un polittico policromo, sostenuto da un lirismo che traduce l’emozione, la voce interiore dell’autrice, così dando unità all’intero romanzo che non viene mai meno.
In questo caso non contrasta nemmeno quella che in un testo scritto direttamente in italiano potrebbe suonare come una stonatura, e cioè chiamare le località del Carso o del litorale triestino nella dizione slovena, Devin per Duino, Prosek per Prosecco, Šempolaj per San Pelagio, come sarebbe altrettanto una stonatura in un testo in italiano scrivere Paris invece di Parigi o London al posto di Londra, così disorientando il lettore. E questo tanto più vale per una scrittura così consapevole e lucida come quella che compone questo romanzo di un’autrice della minoranza slovena in Italia che fa pendant, o se si vuole contraltare, con quella della minoranza italiana in Istria e a Fiume, per cui i luoghi portano il nome del cuore e non della toponomastica.
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