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La doppia commemorazione del centenario dell’attentato di Sarajevo

Il 2015 conclude la “stagione degli anniversari” per la Bosnia Erzegovina, il cui apice si è avuto forse con il centenario dell’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo

17/12/2015, Davide Denti -

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Il 2015 conclude la stagione degli anniversari per la Bosnia Erzegovina, il cui apice si è avuto forse con il centenario dell’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo, il 28 giugno 2014. Un evento la cui doppia commemorazione – a Sarajevo e a Višegrad – ha confermato la profonda divisione politica ancora presente in Bosnia, e la sua ricaduta sul significato dato alla memoria storica.

“La memoria storica è una presenza grezza e costante, incastonata a fondo nelle strutture e nelle pratiche della politica bosniaca”, scrivono Hariz Halilovich e Peter Phipps della RMIT University di Melbourne in un articolo sul tema per Communication, Politics & Culture. I due autori passano in rassegna gli eventi che hanno circondato il 28 giugno scorso in Bosnia, e a cui hanno preso parte in prima persona (così come chi scrive) in “un tentativo di comprendere il significato della memorializzazione”. E’ infatti impossibile parlare di Grande Guerra, in Bosnia, senza parlare allo stesso tempo di ciò che è venuto dopo: la ben più sanguinosa Seconda guerra mondiale, e l’ancora fresco conflitto degli anni ’90, con l’assedio della capitale bosniaca.

“Austria Felix” a Sarajevo

Il primo luogo dell’anniversario è Sarajevo. A causa dell’impasse politica all’interno del governo statale bosniaco, la commemorazione dell’anniversario non ha un calendario unico, ma è gestita in autonomia da vari attori. Al concerto formale, ospitato nella Vijećnica appena restaurata, fa seguito uno spettacolo all’aperto di performance teatrale e musica popolare (ospite principale è il cantautore Dino Merlin), incentrato sul Ponte Latino dell’attentato: uno “scorcio ottimistico e giovanile di ciò che potrebbero essere delle relazioni normali con i vicini nazionali e il proprio passato”, come scrivono Halilovic e Phipps.

Il trentennio di amministrazione asburgica, d’altronde, ha molteplici collegamenti con la situazione attuale della Bosnia-Erzegovina, semi-protettorato europeo ed internazionale – tanto più che l’attuale Alto Rappresentante internazionale, Valentin Inzko, quale austriaco di cultura slovena ha tutti i caratteri dell’homo habsburgicus. La missione austriaca di colonizzazione e modernizzazione – legittimazione dell’imperialismo in base al risultato benevolo – si nutriva anche della preservazione dell’eredità ottomana e dei supposti “caratteri nazionali” della Bosnia-Erzegovina, da cui la costruzione della Vijećnica in stile pseudo-moresco a fine ‘800. L’edificio, in seguito divenuto biblioteca nazionale, fu una delle prime vittime dell’“urbicidio” di Sarajevo durante il conflitto degli anni ’90 da parte dei paramilitari serbo-bosniaci. Ricostruita grazie a fondi UE e riaperta il 9 maggio, Giorno dell’Europa e Giorno della Vittoria sul nazifascismo in gran parte dei paesi europei, la Vijećnica è stata al centro anche delle commemorazioni del centenario, con il concerto dell’Orchestra Filarmonica di Vienna – su invito del sindaco di Sarajevo, Ivo Komšić, in assenza di una posizione comune del governo – che ovviamente ha suonato i classici dell’era asburgica.

Martirologio serbo a Višegrad

La commemorazione a Sarajevo, tuttavia, è stata boicottata dai principali media e partiti serbo-bosniaci, dimostrando una volta di più la salienza politica della storia nella Bosnia contemporanea. La contro-commemorazione principale – a parte l’erezione di una statua a Gavrilo Princip nei quartieri orientali di Sarajevo – si è tenuta a Višegrad, alla frontiera tra Bosnia e Serbia, organizzata da Emir Kusturica nel suo parco a tema etnonazionalista denominato Andrićgrad.

L’antica città ottomana di Višegrad, ambientazione del romanzo Il ponte sulla Drina per il quale Ivo Andrić venne insignito nel 1961 del Nobel, ha d’altronde una storia recente dolorosa. La Seconda guerra mondiale ne devastò la popolazione, anche per via della lotta condotta dalle milizie nazionaliste serbe (cetnici) del generale Draža Mihailović contro la popolazione bosniaco-musulmana e i partigiani comunisti di Tito, che infine lo arrestarono e condannarono a morte nel 1946. Negli anni ’90, la lotta contro i “turchi” descritti nel romanzo di Andrić da parte dei paramilitari serbo-bosniaci che si ispiravano a Draža Mihailović arrivò ad episodi di pura crudeltà, con esecuzioni di massa di civili sul famoso ponte, da lì gettati nelle acque del fiume. Višegrad vide la morte di più di 3.000 civili bosgnacchi, e l’esodo dei 25.000 abitanti della stessa etnia, di cui solo il 5% fece ritorno a fine conflitto, con la città rimasta all’interno dei confini dell’entità a maggioranza serba, la Republika Srpska.

Ciononostante, la città trovò spazio all’interno dell’immaginario nazionalista serbo e serbo-bosniaco, anche grazie all’azione di Emir Kusturica – lui stesso artista e regista jugoslavo, di famiglia di cultura bosniaco-musulmana, convertito alla causa nazionalista serba secondo un eccentrico percorso identitario. Kusturica comprese presto il potenziale di Višegrad per il suo giro d’affari che combina turismo, cinema, cultura folk e nazionalismo serbo, e grazie all’appoggio politico e finanziario della leadership della Srpska poté completare nel 2014 la costruzione del villaggio di Andrićgrad. Secondo Halilovich e Phipps, “l’obiettivo di Kusturica è stato quello di (ri)scrivere la storia, correggendola retrospettivamente per fornire continuità alla narrativa nazionalista serba”. Così, se l’occupazione ottomana ha impedito ai serbi di partecipare al Rinascimento europeo, ecco Andrićgrad come novella e anacronistica “città rinascimentale serba”, e un “Istituto Andrić” volto a produrre fatti che si conformino ai riciclati “odii antichi” della narrativa nazionalista.

L’inaugurazione di Andrićgrad, il 28 giugno 2014, si sovrapponeva così al centenario dell’attentato di Sarajevo e al giorno di San Vito – Vidovdan – che nella tradizione serba richiama lo stesso giorno della battaglia di Kosovo Polje del 1389, secondo ripetizioni di calendario interpretate come segni mistici della provvidenza divina. Alla giornata prendevano parte il premier serbo Aleksandar Vučić, il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik, il clero ortodosso serbo-bosniaco e l’ambasciatore russo a Belgrado, oltre ai discendenti della famiglia reale serba dei Karađorđević, arrivati da Londra. Nei propri discorsi, gli ospiti a Višegrad esprimevano una florida retorica nazionalista, che dipingeva i serbi come vittime di ingiustizie storiche sin dall’inizio – senza alcun riferimento ai recenti eventi bellici – e remixando storia e mito in un processo di ricordo e oblio selettivo. Così Gavrilo Princip, anarchico ateo e jugoslavista, veniva insignito del titolo religioso di “martire del Kosovo” e incensato da Milorad Dodik come fautore “dell’avvio dell’emancipazione dei serbi”, e allo stesso tempo dal suo atto “prende il via il pogrom e l’esodo dei serbi da Sarajevo, dalla Bosnia e dalla Serbia”. Ugualmente, la rappresentazione teatrale organizzata da Kusturica identificava gli attuali rappresentanti internazionali in Bosnia con la coppia arciducale asburgica, secondo “una tendenza mitopoietica di tutti gli ultranazionalismi, in cui le distinzioni temporali scolorano in un eterno presente di sofferenza e vittimismo nazionale, impervia ad ogni metodo storiografico o legale di prova e valutazione”, concludono Halilovich e Phipps.

Due rappresentazioni per due diversi immaginari

Le due antitetiche commemorazioni del centenario dell’attentato si basano entrambe su “una trama intessuta di memoria storica, immaginario etnico e tentativi di articolare una visione del mondo che proietti queste identità in un futuro possibile”, secondo Halilovich e Phipps.

Da una parte, l’immaginario di Sarajevo è quello di una città cosmopolita inserita nei circuiti politici e culturali europei – da cui l’ironia della nostalgia asburgica come rimando ed anticipazione dell’ingresso futuro nell’Unione europea. Dall’altra parte, l’etnonazionalismo serbo-bosniaco articola una visione politica all’interno dell’orbita protettiva di una risorgente Russia, secondo Halilovich e Phipps, pur glissando sull’effettiva direzione europeista presa invece dalla Serbia. In tal modo, eventi storici che a cent’anni di distanza potrebbero aver trovato una risoluzione continuano invece ad avere un significato politico per il presente e per il futuro.

Halilovich, H. and Phipps, P. (2015), ‘Atentat! Contested histories at the one hundredth anniversary of the Sarajevo assassination’, Communication, Politics & Culture, vol. 48, issue 3, pp. 29-40, CC BY-ND

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