Tipologia: Intervista

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La doppia assenza dei migranti albanesi in Grecia

Dove seppellire i propri cari? Dove vivere una volta anziani? L’antropologa Gerda Dalipaj studia la comunità albanese immigrata in Grecia e il suo senso di "dimora". L’abbiamo incontrata

11/03/2013, Marjola Rukaj -

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La crisi greca ha cambiato il rapporto dei migranti albanesi in Grecia con il loro paese d’origine, l’Albania?

Qualche tempo fa nel corso di una visita ad Atene, ho notato che tutti gli albanesi avevano il decoder Digitalb, o seguivano quello che accade in Albania via internet. Parlavano sempre di politica albanese, basandosi su quello che seguivano alla tv o nei forum di internet, pur essendo qualcosa di molto lontano dalla loro quotidianità in Grecia. La crisi in Grecia negli ultimi anni ha fatto sì che i rapporti con l’Albania diventassero più intensi.

Non si esclude nemmeno di ritornare nel luogo d’origine?

Per molti, penso, sia molto complesso definire il proprio luogo d’origine. È qualcosa di molto soggettivo. Quale sarebbe l’origine di quei bambini che sono cresciuti in Grecia, o che vi sono addirittura nati? Nel caso di dover rientrare in Albania, dove poter ritornare? Molti studi sulle migrazioni hanno dimostrato che l’emigrazione verso l’estero ha stimolato anche le migrazioni interne all’Albania, dalle zone rurali a quelle urbane, dai centri urbani meno sviluppati, verso quelli con più prospettive di sviluppo. Questo è un processo che ha avuto anche un costo emotivo alto.

In che senso l’emigrazione all’estero ha contribuito alle migrazioni interne?

Prendiamo l’esempio di un migrante che si è allontanato dal suo villaggio quando aveva 15 anni, ha lavorato 20 anni in Grecia, ha investito tutto nella costruzione di una casa nella periferia di una città albanese, ha portato i suoi genitori dal villaggio a vivere nella nuova casa, non ha più una famiglia nel luogo da dove è partito, ma nella periferia urbana, e nel luogo dove è emigrato. Sicuramente se dovesse rientrare in Albania per sempre, non andrebbe più a vivere nel suo villaggio, ma nella periferia urbana in cui ha investito. Vi sono anche alcuni casi in cui i migranti costruiscono nuove abitazioni nei loro villaggi di partenza, grazie anche ad alcune sovvenzioni del governo, come quella per la coltivazione degli ulivi, però per lo più le considerano come una seconda casa, o come un rifugio immaginario dalla vita urbana nel futuro. Altri invece hanno comprato appartamenti anche in Grecia.

Quindi ritornare in Albania sarebbe un po’ una seconda emigrazione?

Certamente. Inoltre vivendo all’estero si crea un’immagine dell’Albania che ha poco a che vedere con la realtà del paese. Negli studi sulle migrazioni vi è un dibattito in corso tra quelli che affermano la doppia presenza del migrante, nel suo luogo di partenza e in quello di accoglienza, e ci sono altri, come lo studioso Abdelmalek Sayad, che parlano invece di una doppia assenza. Uno potrebbe pensare che un migrante che acquista un’abitazione in Grecia e una in Albania sia parte di entrambe le società. Ma ad esempio le abitazioni nelle periferie urbane in Albania spesso non sono legalizzate e in molti sono in attesa di regolarizzarsi presso l’ALUIZNI (Agenzia della legalizzazione dell’inurbamento e dell’integrazione delle zone informali). D’altro canto in Grecia aver acquistato un’abitazione implica un mutuo pluriennale e un legame costante con le banche. Quindi la loro doppia presenza, assomiglia di più a uno sforzo a essere presenti, pagando le tasse, ma non essendo rappresentati politicamente da nessuno. Inoltre non si può essere presenti allo stesso modo in due paesi contemporaneamente, nonostante le possibilità garantite oggi giorno dai mezzi di trasporto e di comunicazione.

Qual è la percezione che gli albanesi in Albania hanno di quelli emigrati in Grecia?

In Albania, attualmente, e più marcatamente 3-4 anni fa, era molto presente il dispregiativo “Jorgo” per i migranti venuti dalla Grecia. E’ un mero disprezzo nei confronti di quegli albanesi emigrati in Grecia che si supponeva avessero cambiato il nome, facendosi chiamare con un nome greco. “Guarda questo Jorgo come guida male”, “Guarda che grande casa ha costruito qua questo Jorgo”. La percezione dei migranti nella società albanese è ambivalente. Per un verso cantiamo canzoni eroiche ai migranti che attraversano il confine per un pezzo di pane per le loro famiglie, d’altro canto però li disprezziamo e li escludiamo, come stranieri, come portatori di strani costumi,  come un gruppo estraneo alla nostra società.

Sarebbe molto interessante osservare dove preferiscono far seppellire i parenti morti… 

Penso che generalmente la prima generazione dei migranti albanesi in Grecia abbia conservato intatta l’idea di un futuro ritorno in Albania. Di solito sono convinti che devono farsi seppellire in Albania. In questo senso i servizi funerari albanesi e greci collaborano regolarmente tra di loro. Ma nel caso in cui i genitori perdono i figli, senza che abbiano un progetto di voler tornare in Albania, cercano di seppellire le salme in Grecia, nei luoghi dove vivono. Nel corso delle mie ricerche ho rilevato che le madri migranti cui sono morti i figli in Grecia preferiscono avere le tombe dei figli lì, per potervisi recare regolarmente. Quindi si potrebbe dire che la destinazione finale dei resti degli albanesi morti è la destinazione percepita delle loro famiglie.

C’è un legame politico tra il corpo e il territorio etnico? Nei Balcani si parla spesso di cimiteri e tombe come denominazione del territorio in termini etnici e come appartenenza del corpo al territorio.

Penso che siano due registri diversi. Non penso che oggi questo sia prioritario per i migranti. A livello scientifico le teorie della demarcazione del territorio etnico con le tombe e i cimiteri non vengono più prese sul serio. Ma anche quando erano prese in considerazione si riferivano al passato, che doveva legittimare il territorio attuale, supponendo un legame indissolubile tra il corpo, il sangue e la terra: il corpo come portatore di una determinata cultura, il sangue come vettore di trasmissione, e la terra come definizione territoriale di quella cultura.

Politicizzando i corpi, si finisce per privare i vivi di alcuni diritti su un determinato territorio. Alcune forme di esclusione ci seguono anche dopo la morte, come l’impossibilità dei migranti di accedere a un cimitero. Anche se legalmente tutti i residenti hanno il diritto di essere seppelliti, nei cimiteri greci si può rimanere sepolti al massimo 3 anni. Poi il corpo viene riesumato, le ossa vengono pulite e riposte nell’ossario. Qui c’è uno scontro tra la mentalità albanese e quella greca. Gli albanesi per almeno 7 anni non riesumano il corpo. Vi era presso gli albanesi ortodossi un rito simile a quello dei greci, ma anche gli albanesi ortodossi non usano più riesumare i corpi dopo tre anni. In Albania, siamo convinti che siamo proprietari della terra dove veniamo sepolti, e questo si nota nei modi di dire, ad esempio: “solo due pugni di terra ci prenderemo via in questo mondo”. In Grecia invece la mentalità è diversa.

Chiaramente molte di queste morti non sono delle morti naturali, ma sono una conseguenza di condizioni di lavoro disumane, di violenza, di morti al confine ecc. Ci sono delle morti dolorose, in seguito a un vissuto doloroso. Poi per molte famiglie restano le difficoltà burocratiche per trasportare un corpo morto oltre il confine. Ho sentito alcuni migranti addirittura raccontare di come hanno trasportato illegalmente in Albania dei morti fingendo che fossero dei parenti che dormivano.

Come si presenta quest’aspetto nell’ambito delle migrazioni interne in Albania?

I cimiteri urbani in città come Tirana sono totalmente impreparati ad affrontare il ritorno dei corpi dei migranti, che si sono spostati internamente dalle zone rurali alle periferie della città. Se l’esclusione di ieri era più o meno: “Non potete vivere qui perché i vostri morti non sono seppelliti qui” ora è “non avete diritto a una tomba, anche se vivete qui”.

Come stanno reagendo gli albanesi in Grecia alla crisi attuale?

E’ ovvio che la crisi colpisca per primi i più deboli. In molti hanno perso il lavoro, devono far fronte a una serie di ingiustizie sui versamenti dei contributi ecc. E poi essendo parte della società greca anche su di loro pesano l’inflazione, le tasse, e la corruzione. Lo scorso capodanno quando ho chiamato degli amici ad Atene per fare loro gli auguri, mi hanno detto che non potevano permettersi il riscaldamento nel loro nuovo appartamento.

Cosa pensa del fenomeno di ritorno dei migranti in Albania?

Il passaggio dal ritorno immaginato a quello reale non è per niente facile. Il ritorno in Albania viene percepito come una sconfitta, un fallimento personale e familiare. Comunque in molti sono ritornati. In particolar modo quelli che erano soli. E’ invece più difficile per coloro che hanno intrapreso una migrazione familiare e che magari hanno comprato un appartamento in Grecia. In particolar modo nel 2005-2007 in tanti hanno acquistato degli appartamenti in Grecia, agevolati da mutui per un periodo di 20-30 anni. Per loro la crisi è un grande dramma quotidiano. Ma anche rientrare in Albania non è tutto rose e fiori, economicamente e socialmente, in particolar modo per le seconde generazioni, che hanno molti problemi con la lingua albanese.

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