La crisi della solidarietà europea: questioni legali
Una rassegna di alcune problematiche che dividono gli Stati membri alle prese con la crisi dei rifugiati. Intervista a Irene Wieczorek, ricercatrice all’Istituto per gli Studi Europei
Nel corso dell’ultimo anno ci sono state molte sospensioni degli accordi di Schengen. Episodi di questo genere si erano già verificati in passato, ma ora sembrano intensificarsi drasticamente. È così?
Secondo le regole UE, “i confini interni possono essere attraversati in qualsiasi punto senza alcun controllo di frontiera alle persone, independentemente dalla loro nazionalità”. Si veda l’Articolo 22 del cosiddetto “Codice frontiere Schengen”, che stabilisce un Codice comunitario a governo dei movimenti delle persone attraverso i confini.
Il Codice frontiere Schengen prevede tuttavia alcune eccezioni in caso di rischi per le politiche pubbliche o la sicurezza interna. Se uno Stato membro desidera reintrodurre tali controlli, deve seguire una specifica procedura che impone di informare la Commissione e reintrodurre controlli sistematici solo nella misura necessaria ad affrontare tali rischi, senza misure sproporzionate. La Commissione ha il compito di valutare se le decisioni sono proporzionate e se i controlli alla frontiera sono eseguiti in conformità con la legge, in particolare per quanto concerne il rispetto dei diritti umani.
In passato, gli Stati membri hanno reintrodotto i controlli di frontiera in pochissime circostanze, ad esempio in occasione di eventi come incontri fra Capi di stato (G7 in Germania), visite di presidenti stranieri (come quella del presidente USA in Estonia) e grandi eventi sportivi (Europei di calcio 2012 in Polonia). Le sospensioni sono tuttavia drammaticamente aumentate negli ultimi due anni in seguito alla crisi dei rifugiati. Dai dati forniti da un documento ufficiale della Direzione Generale Migrazione e Affari Interni (HOME) emerge che i controlli temporanei sono stati introdotti 3 volte nel 2006, 3 volte nel 2007, 3 volte nel 2008, 7 volte nel 2009, 5 volte nel 2010, 4 volte nel 2011, 3 volte nel 2012, 1 volta nel 2013 e 4 volte nel 2014, sempre in corrispondenza di specifici eventi di rilievo. Poi, in meno di un anno, ovvero da settembre 2015 ad oggi, si sono registrate 17 sospensioni in vari Stati membri, tutte giustificate in base a grandi flussi di migranti e persone necessitanti protezione internazionale, ovvero richiedenti asilo o, secondo i media, “rifugiati” (tecnicamente, le persone acquisiscono lo status di rifugiato/a dopo l’effettivo ottenimento dell’asilo).
Questo ci dice che l’eccezione è diventata quasi la regola. Tutte questi provvedimenti sono stati messi in atto nel rispetto della legge, ovvero rispettando le procedure. Questo significa che gli Stati membri non hanno deciso di agire unilateralmente fuori dal sistema, ma hanno rispettato le leggi UE. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, ci dice anche che, nella pratica, queste misure hanno tradito la sostanza degli accordi di Schengen, ovvero il libero movimento delle persone nell’UE.
In questo campo, sono stati raggiunti alcuni accordi intergovernativi fra gli Stati membri, il più importante la coalizione a guida austriaca per chiudere il confine greco-macedone. Come interpreti questa situazione?
Possiamo fare una distinzione fra gli accordi intergovernativi, che sono casi di legislazione internazionale, e le leggi UE, che sono in gran parte esempi di "legge sovranazionale". I primi sono accordi che due o più stati sovrani intraprendono liberamente, ciascuno con piena facoltà di determinarne i contenuti. Le norme e direttive UE sono invece approvate da una maggioranza qualificata, il che significa che sono vincolanti anche per i governi che non le hanno votate. In alcuni casi (i regolamenti, ma non le direttive), il testo è automaticamente vincolante, senza bisogno di essere trasformato in legge dai parlamenti nazionali.
Gli accordi intergovernativi lasciano molto più spazio agli stati nazionali, che agiscono come entità separate e indipendenti. La legge UE è l’espressione di una filosofia diversa, che implica l’esistenza di una comunità che condivide gli stessi valori e obiettivi, in cui le decisioni sono prese democraticamente da una maggioranza qualificata e sono valide per tutti.
Ora, il fatto che gli Stati membri facciano sempre più ricorso agli accordi internazionali, invece che incontrarsi a Bruxelles e concordare nuove norme europee, ci dice molto sulla loro idea di gestione delle crisi. Non si fidano l’uno dell’altro e preferiscono agire da soli o cooperare con quegli Stati membri o extra-UE che condividono lo stesso approccio alla crisi, nel nostro caso le politiche migratorie, anziché agire con spirito comunitario. È interessante notare come anche la recente crisi europea abbia visto il moltiplicarsi degli accordi intergovernativi, ad esempio il Trattato che stabilisce il Meccanismo di stabilità europea firmato nel 2012. Nel complesso, sembra che in tempi di crisi gli Stati membri non affrontino insieme i grandi problemi, ma si affidino piuttosto alla cooperazione internazionale come accadeva prima dell’introduzione del metodo UE.
Di fronte a quanto è accaduto sul confine greco-macedone, non si può fare a meno di chiedersi che tipo di responsabilità legali l’Austria si sia assunta nel permettere o aiutare le autorità macedoni a gettare gas lacrimogeni sulle famiglie ferme al confine. Possono l’Austria o altri Stati membri essere considerati responsabili per le violazioni dei diritti umani sul confine, considerato il numero di ufficiali di polizia di vari Stati membri che erano presenti sul campo?
Bisogna distinguere fra la responsabilità individuale di ciascun ufficiale e quella degli Stati membri coinvolti in politiche che violano i diritti umani.
Ciascun ufficiale di polizia dovrà rispondere di una violazione dei diritti umani all’interno del proprio Stato membro se ha agito in violazione delle leggi nazionali o delle leggi nazionali che implementano gli standard internazionali, come la Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Per quanto riguarda la responsabilità degli Stati membri (SM), ad esempio l’Austria, ci sono varie strade per renderli legalmente responsabili delle violazioni dei diritti umani.
In primo luogo, ci potrebbero essere alcuni meccanismi “intra UE”.
Il Trattato sull’Unione europea prevede la possibilità di sospendere alcuni dei diritti derivati dall’applicazione dei Trattati allo SM in questione, compreso il diritto di voto del rappresentante del governo di quello SM nel Consiglio. Questo può succedere se uno SM agisce in violazione dei valori fondanti dell’UE stabiliti dall’Articolo 2 del Trattato sull’Unione europea (dignità della persona, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze). È stato ampiamente denunciato che al confine vengono messe in atto pratiche che violano profondamente i valori fondanti dell’UE e tradiscono lo spirito dell’Unione (si veda la dichiarazione a The Guardian di Guy Verhofstadt, leader del gruppo ALDE nel Parlamento europeo).
Potrebbero esserci le basi per considerare responsabili gli SM che consentono, prescrivono o incoraggiano pratiche come l’uso di lacrimogeni contro le famiglie al confine. Tuttavia, è molto improbabile che si utilizzi la cosiddetta procedura dell’Articolo 7 contro l’Austria o altri SM. La procedura è molto lunga: per essere avviata richiede una proposta da parte di almeno un terzo degli SM o dalla Commissione; poi, una decisione unanime in Consiglio con il consenso del Parlamento che stabilisca che si è verificata una violazione dei diritti umani; infine, una convocazione dello SM in questione a fornire spiegazioni. Una volta stabilita la violazione della legge, il Consiglio potrebbe, con una maggioranza qualificata, imporre la sospensione di alcuni diritti.
Questo meccanismo è molto delicato dal punto di vista politico, poiché agli Stati membri generalmente non piace puntare il dito contro gli altri per motivi diplomatici. Ad esempio, nonostante ne esista la possibilità, pochissimi Stati membri hanno avviato procedure di fronte alla Corte di Giustizia. Data l’attuale situazione politica e la generale riluttanza degli Stati membri ad accogliere i richiedenti asilo, il Consiglio non si troverebbe sicuramente unanime nel condannare l’Austria per le sue pratiche di controllo delle frontiere.
Un altro meccanismo intra-UE potrebbe permettere di portare l’Austria di fronte alla Corte di Giustizia per violazione della Carta UE dei diritti fondamentali. L’Articolo 4 della Carta proibisce i trattamenti inumani e degradanti, mentre gli Articoli 18 e 19 impongono il rispetto del principio di non-refoulement (un principio del diritto internazionale che proibisce di restituire una vittima accertata di persecuzione al soggetto che la perseguita, generalmente uno stato). Anche il Trattato sul funzionamento dell’UE richiama l’importanza di stabilire una politica di asilo che rispetti il principio di non-refoulement (Art. 78(1) TFEU). Il non-refoulement è un aspetto chiave della legge sull’asilo che protegge i rifugiati dall’espulsione verso luoghi dove la loro vita o libertà è in pericolo.
Per quanto riguarda i meccanismi extra-UE, singoli individui potrebbero certamente fare causa al governo austriaco di fronte alla Corte europea per i diritti umani (ECHR) di Strasburgo per violazione dei propri diritti umani stabiliti dalla Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali (ECHR), in particolare l’Articolo 3 che proibisce i trattamenti inumani e degradanti, che è stato interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo come imposizione del principio di non-refoulement (i principali casi sono Soering, Cruz Varas, Vilvarajah e Chahal).
Oltre alla violazione dell’ECHR, una causa contro l’Austria di fronte alla Corte internazionale dell’Aja si potrebbe basare sulla proibizione della tortura e del refoulement, stabilita dalle consuetudini del diritto internazionale e da trattati internazionali come la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati.
Io vedo tre ordini di problemi con questi strumenti intra ed extra UE contro le pratiche, molto deplorabili, che si stanno mettendo in atto sul confine greco-macedone.
Il primo problema è di ordine fattuale, ovvero come stabilire se le pratiche in questione, per quanto mostruose, corrispondano agli altissimi standard di definizione della tortura, o a quelli leggermente inferiori di trattamento inumano e degradante. Va comunque notato che il governo austriaco può essere ritenuto responsabile, in base ad una sorta di responsabilità “par ricochet”, anche se contribuisce a spingere migranti o richiedenti asilo verso paesi dove i loro diritti fondamentali sono in pericolo. La Corte di Giustizia ha già stabilito che in Grecia ci sono pessime condizioni di accoglienza e sistematici fallimenti del sistema di asilo, che possono rappresentare violazione della proibizione di condizioni inumane e degradanti stabilita dall’Art. 3 dell’ECHR. Della violazione di questo Articolo l’Austria potrebbe essere indirettamente responsabile per aver respinto migranti e richiedenti asilo in Grecia.
Un secondo problema è l’effettiva istruzione del caso. Almeno nel caso della Corte di Strasburgo, il caso deve essere presentato dall’individuo i cui diritti sono stati presumibilmente violati. È improbabile che un singolo richiedente asilo disponga delle risorse necessarie, sono di solito le ONG a farsi carico dei casi.
Un terzo problema riguarda le tempistiche. I casi portati alla giurisdizione europea e internazionale hanno tempi incredibilmente lunghi. Questo implica che, se anche si verificassero tutte le condizioni necessarie, il governo austriaco non dovrà pagare i risarcimenti se non fra molti anni. Questo non risolve certo la grave e urgente crisi in corso al momento.
La situazione sarebbe diversa se la Macedonia fosse uno SM? Oppure il fatto che non lo fosse ha permesso all’Austria di fare l’accordo a discapito della Grecia?
Tecnicamente le responsabilità dell’Austria, ammesso che siano accertate, non dipendono dallo Stato partner con cui sono commesse le violazioni. Questo vale per tutti gli strumenti legali già citati.
E per quanto riguarda il campo profughi greco di Idomeni? Guardando alla situazione dei diritti umani, ci si chiede se sia accettabile per gli standard del diritto UE.
L’UNHCR ha denunciato lo scorso aprile che le condizioni e le pratiche a Idomeni non erano in linea con gli standard internazionali. Ovviamente gli standard UE non possono essere considerati inferiori a quelli internazionali, la valutazione dell’UNCHR è quindi fonte di grande preoccupazione.
Il mio maggiore timore è che, dato che la decisione del Consiglio dell’Unione europea del 23 settembre sulla redistribuzione dei 160.000 rifugiati fra gli Stati membri non è rispettata e il carico non è condiviso, questo possa costituire in futuro un pericoloso precedente in termini di mancato rispetto dello stato di diritto. È così?
I problemi che vedo sulle prime due decisioni non riguardano necessariamente il rispetto dello stato di diritto, ma piuttosto la loro totale inadeguatezza allo scopo.
Le decisioni sono state approvate da una maggioranza qualificata del Consiglio, con solo quattro SM in opposizione (Ungheria, Slovacchia, Romania e Repubblica Ceca). Due di questi SM, Ungheria e Slovacchia, hanno fatto ricorso alla Corte di Giustizia per l’annullamento delle decisioni. È interessante notare che tale ricorso esprime un rispetto dello stato di diritto. Anziché rifiutarsi semplicemente di applicare le decisioni, i due stati hanno rispettato le regole e avviato un dibattito pubblico sui limiti delle facoltà del Consiglio di usare il voto di una maggioranza qualificata per imporre agli Stati membri, compresi quelli che hanno votato contro, l’obbligo di accogliere i richiedenti asilo, valutare seriamente la loro richiesta di protezione internazionale e, in caso di fondatezza, concedere loro asilo.
Per quanto riguarda l’attuazione, è vero che il numero di richiedenti asilo riallocati in base a queste decisioni è ridicolmente basso (a marzo, erano state riallocate dalla Grecia e dall’Italia circa 700 persone).
Tuttavia, questo non è dovuto a mancanza di volontà da parte degli Stati membri, ma a fattori strutturali che rendono inadeguate queste decisioni, in particolare rispetto agli obiettivi di equa ripartizione del carico fra gli Stati membri, equa e rapida valutazione delle richieste di asilo, adeguate condizioni di viaggio per chi cerca di raggiungere l’Europa e adeguata qualità della vita per chi attende la valutazione della richiesta di asilo.
Perché il processo di trasferimento possa iniziare, i richiedenti asilo devono fare la domanda nello stato in cui sono state loro prese le impronte digitali. Il trasferimento arriva solo in un secondo momento. In altre parole, i richiedenti asilo attualmente ospiti di campi come Idomeni in Grecia, Calais in Francia o il meno famoso Dunkirk, sempre in Francia, devono fare domanda di asilo lì ed essere in seguito trasferiti come stabilito dalle decisioni. I richiedenti asilo giunti in Europa cercando di raggiungere paesi specifici, soprattutto la Germania o il Regno Unito, dove hanno famigliari o dove credono di trovare migliori opportunità, anche per motivi linguistici, sono bloccati in questi campi sul confine mentre cercano di transitare dalla Francia o dalla Grecia per raggiungere la propria destinazione. Non desiderano chiedere asilo in questi paesi. La vaga possibilità di essere trasferiti in un paese diverso dalla loro scelta iniziale e senza nessuna voce in capitolo non motiverà queste persone a richiedere asilo in Francia o in Grecia.
In termini più semplici, anche ammettendo che tutti gli Stati membri fossero pronti e disposti ad attuare queste decisioni dal punto di vista legale e pratico, ovvero costruendo infrastrutture adeguate e accelerando le procedure per la piena integrazione di ciascun richiedente asilo (cosa certamente non vera), questo non risolverebbe comunque il problema di accogliere un numero senza precedenti di richiedenti asilo in Europa, sollevando Stati membri come la Grecia dall’enorme carico attualmente sulle loro spalle. Questo perché, secondo me, queste decisioni sono state pensate considerando solo gli interessi e la prospettiva degli Stati membri (come mostra il fatto che i numeri sono estremamente bassi, 160.000 persone da distribuire in un territorio di 500 milioni di persone), privando i richiedenti asilo di qualsiasi voce in capitolo.
Il diritto internazionale garantisce solo il diritto a richiedere la protezione internazionale, ma non di richiedere una specifica destinazione. In questo senso, le decisioni non violano gli standard internazionali. Tuttavia, le politiche UE non hanno preso in considerazione la specifica dimensione umana e personale della crisi, limitandosi a riallocare il minor numero di persone possibile senza considerare le preferenze individuali e le ovvie disparità di capacità economiche e logistiche fra gli Stati membri (la Germania, ad esempio, ha ovviamente più mezzi e quindi opportunità da offrire della Romania). Questo ha portato ad una situazione in cui migliaia di persone sono bloccate in varie parti d’Europa e le politiche UE si rivelano tutt’altro che efficaci.
Dopo l’accordo Turchia-UE, il problema della condivisione del carico rimane. Pensi che la Commissione dovrebbe avere il coraggio di aprire alcune procedure di infrazione? O portare gli SM di fronte alla Corte di Giustizia?
Come ho cercato di spiegare, il problema non è il rispetto delle norme. Anche qualora questi casi arrivassero di fronte alla Corte di Giustizia e gli Stati membri fossero obbligati ad accogliere un certo numero di rifugiati in tempi ragionevoli, cosa non scontata data la durata media dei casi, questo non risolverebbe certo il problema a mio avviso.
Una soluzione alternativa ventilata negli ambienti accademici è la costruzione di un Ufficio Asilo UE centralizzato, dove tutti i richiedenti asilo possano presentare la propria richiesta e vederla valutata in tempi rapidi (non dev’essere necessariamente un singolo ufficio fisico, potrebbe avere una struttura decentralizzata come proposto per l’Ufficio del Procuratore europeo, che sarebbe probabilmente un’agenzia UE, come l’Europol ad esempio, ma con uffici in tutti gli Stati membri), dando ai richiedenti asilo la possibilità di scegliere il paese di destinazione.
Prima di tutto, un ufficio centralizzato solleverebbe ogni SM, specialmente quelli più piccoli e sotto pressione come Grecia e Malta, dall’obbligo di gestire innumerevoli domande di asilo, come attualmente succede.
Al momento, il sistema di Dublino impone che ogni richiedente asilo faccia domanda nel (primo) paese europeo in cui mette piede: nel caso della crisi attuale, la Grecia. Durante la primavera araba, era l’Italia. Poichè dopo l’accordo Turchia-UE la rotta balcanica sembra essersi chiusa, non è da escludersi che l’Italia torni ad essere sotto pressione se i richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Europa attraverso la Libia arrivano prima in Italia. Le decisioni hanno cercato di rimediare evitando che la Grecia dovesse gestire tutte le domande. Ho spiegato perché questo non ha funzionato. Un Ufficio asilo centralizzato finanziato dal budget UE, e quindi da tutti gli Stati membri, aiuterebbe a risolvere questo problema.
Secondo, una volta valutate le domande e fatto scegliere alle persone il paese di residenza, ci sarebbe la sfida di integrare un numero importante di persone nel mercato del lavoro e nella società in generale. Questi processi potrebbero essere facilitati attraverso fondi UE e programmi ad hoc, assicurando l’accesso all’istruzione e così via. A quanto pare l’UE ha trovato 3 miliardi da dare alla Turchia per l’accoglienza e integrazione dei rifugiati, perché allora non investire in accoglienza e integrazione nei nostri paesi?
Naturalmente, sarebbe ingenuo non considerare che accogliere moltissime persone con un passato traumatico e un diverso background culturale e religioso – ammettendo di aderire alla discutibile visione dell’Europa come esclusivamente bianca, occidentale e cristiana – in un solo paese, ad esempio in Germania, presenta molti problemi. Questo non si risolve necessariamente con dei fondi extra. Tuttavia, a questo punto la scelta diventa morale più che legale. Si tratta di scegliere se vogliamo rispettare gli standard del diritto internazionale, che impongono di dare asilo a chi ne ha bisogno nel modo più umano e compassionevole, o se vogliamo continuare con questo approccio patchwork cercando di accogliere il minor numero possibile di persone, cosa evidentemente inefficace e che non rende giustizia ai valori di cui l’Europa si dichiara orgogliosa.
L’accordo Turchia-UE è stato duramente criticato per il mancato rispetto degli standard UE sui diritti umani. Puoi spiegare perché? E perché la Commissione sostiene il contrario?
L’accordo Turchia-UE presenta diversi problemi legali, non ultimo riguardo la legalità della sua stipulazione. Si può leggere un commento qui .
Il principale problema legale in merito al rispetto dei diritti umani è il seguente: possiamo considerare la Turchia un “paese terzo sicuro”? Il senso di un sistema di asilo è quello di accogliere persone provenienti da paesi non sicuri e dare loro protezione. Se, come abbiamo detto, non c’è un diritto a ricevere asilo in un paese specifico, esiste tuttavia un obbligo di non rimandare i richiedenti asilo nei loro paesi a rischio e non mandarli in paesi dove non riceveranno effettiva protezione internazionale. Questo aspetto è fondamentale per comprendere i problemi relativi ai diritti umani nell’accordo con la Turchia.
Nell’ambito dell’Agenda europea sulla migrazione, la Commissione europea ha presentato una proposta per stabilire una lista di paesi sicuri di origine da usare nella valutazione delle domande di asilo. La lista comprende Turchia, Albania, Bosnia Erzegovina, l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Kosovo, Montenegro e Serbia. I criteri di selezione comprendono il numero di violazioni dei diritti umani accertate dalla Corte europea per i diritti umani e la percentuale di domande di asilo nell’UE accettate per le persone provenienti da questi paesi. Statewatch , tuttavia, osserva che l’inclusione della Turchia solleva alcune domande importanti. Si afferma che, nel caso della reputazione della Turchia per le violazioni dei diritti umani, la presenza di un conflitto interno con la minoranza curda e il fatto che nessuno SM abbia al momento incluso la Turchia nella propria lista di paesi di origine sicuri, a differenza degli altri paesi nella lista proposta, rende la Turchia un’anomalia nella lista.
Secondo Statewatch, le ragioni dell’inclusione della Turchia nella lista sono di natura politica: “la Turchia è un paese candidato e in fase di negoziati per l’accesso all’UE dal 2005. Di conseguenza, entrambe le parti hanno fatto sforzi di dialogo e cooperazione allo scopo di mettere la Turchia sulla strada giusta per soddisfare i criteri di accesso". L’inclusione nella lista dei paesi sicuri appare come un ulteriore incoraggiamento nel cammino verso l’accesso.
Va notato che l’UNHCR ha messo in guardia gli stati dall’usare questa pratica come un modo di incoraggiare la "normalizzazione" e la "democratizzazione", definendo “inappropriata” la politicizzazione di una procedura umanitaria.
Sembra tuttavia che gli Stati membri abbiano adottato l’approccio della Commissione negoziando l’accordo. Oltre al fatto che la definizione di Turchia come paese sicuro è discutibile in generale, esiste uno specifico problema legale relativo all’attuale crisi dei rifugiati. La Turchia aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e al suo Protocollo del 1967, ed è quindi tenuta a fornire protezione internazionale a chi ne ha bisogno. Tuttavia, ha mantenuto una limitazione geografica per i richiedenti asilo non europei e riconosce solo richiedenti asilo dagli Stati membri del Consiglio d’Europa. Questo significa che i rifugiati provenienti da Siria, Iraq e da tutti i paesi non europei teatro di conflitto ricevono solo protezione temporanea in Turchia e non asilo. Non possono fare domanda di asilo permanente, con tutti i diritti connessi, ad esempio quello di lavorare. L’idea è quella di "ospitarli" fino al termine del conflitto e poi rimandarli indietro. Data la situazione internazionale, questo significa che le persone rimandate in Turchia si troveranno per un tempo indefinito in una situazione "congelata", con diritti limitati e quindi esposte al rischio di lavoro nero e sfruttamento. Va detto che in gennaio il governo turco ha dato ai rifugiati siriani il permesso di lavorare legalmente. Questo è senz’altro un passo avanti che è stato lodato dall’UNCHR . Tuttavia, questo non sana l’incertezza legale ed esistenziale delle persone in fuga dai conflitti a cui non viene garantito asilo. Ciò, insieme alla situazione generalmente problematica dei diritti fondamentali nel paese, rende davvero discutibile la posizione morale e legale dell’UE rispetto all’obbligo di asilo.
Oltre ad essere moralmente e legalmente discutibile, l’accordo con la Turchia è a mio avviso anche imbarazzante dal punto di vista politico. Trovo imbarazzante che un’entità politico-economica di 508 milioni di abitanti (la terza popolazione del mondo dopo Cina e India, con un territorio di 4 milioni di km² e un PIL 2014 di 18.495 miliardi di dollari), per gestire una grande crisi migratoria, abbia dovuto ricorrere a negoziati con un paese come la Turchia, di popolazione, superficie e PIL pari a meno di un quinto, e con esso relazionarsi alla pari, se non da una posizione di debolezza.
L’accordo "un rifugiato per un clandestino" (l’UE accoglierà un rifugiato siriano per ogni migrante illegale ripreso dalla Turchia) è particolarmente rivelatorio della percezione che l’UE ha, o lascia credere di avere, della capacità equivalente propria e della Turchia di assorbire migranti. Se l’UE non è in grado di gestire la crisi in autonomia e ha estremo bisogno del sostegno di un paese vicino, come evidenziato dalle condizioni incredibilmente favorevoli concesse alla Turchia in termini di liberalizzazione dei visti e riapertura dei negoziati di accesso, come si aspetta di essere presa sul serio come attore chiave a livello globale?
Il Primo ministro di Malta, Joseph Muscat, è stato di recente intervistato da J.H. Weiler , presidente dell’Istituto Universitario Europeo (IUE) a Firenze, nel corso della conferenza annuale sullo Stato dell’Unione. I governi maltesi non sono noti per le politiche di accoglienza verso i migranti. Di conseguenza, il governo di Muscat non è forse nella migliore posizione per dare lezioni all’UE sulla gestione della crisi. Tuttavia, credo che sia stato molto chiaro quando, rispondendo alla domanda “pensa che l’accordo Turchia-UE funzionerà e che Erdoğan lo rispetterà?”, ha fatto notare che il fatto stesso che la soluzione UE alla crisi dipenda da una sola persona, e in particolare dal presidente Erdoğan, è indicativo della sua debolezza.
Ho l’impressione che le prime centinaia di rifugiati respinti in Turchia non fossero stati informati di quanto stesse accadendo, altrimenti avrebbero richiesto asilo in Grecia. Hai qualche informazione al riguardo?
Credo che dati i numeri, l’urgenza di mostrare l’attuazione dell’accordo Turchia-UE e l’enorme pressione già esistente sulle infrastrutture greche, sia altamente probabile che le procedure non siano state pienamente rispettate e le persone non siano state pienamente informate dei propri diritti.
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