La crisi dei protocolli
Il processo di pace tra Ankara e Yerevan dopo la firma dei protocolli di Zurigo. L’intervento della Corte costituzionale armena, il dibattito pubblico in Turchia. L’ombra del Nagorno Karabakh
I due protocolli di intesa sottoscritti il 10 ottobre scorso a Zurigo da Armenia e Turchia, per normalizzare le relazioni tra i due Paesi interrotte da ormai 17 anni, sono ancora al vaglio dei rispettivi parlamenti. Lo scorso 12 gennaio, con l’approvazione dei testi da parte della Corte costituzionale armena, Yerevan ha compiuto l’ultimo passo prima del passaggio parlamentare. La Turchia ha invece affidato i documenti alla Commissione parlamentare per gli affari esteri.
Gli sviluppi delle ultime settimane, tuttavia, dimostrano come per i due Paesi la prospettiva di aprire rapidamente i confini e stabilire rapporti diplomatici non sia più a portata di mano ma, anzi, a rischio di fallimento.
L’Armenia critica la Turchia per l’atteggiamento attendista assunto dopo la firma dei protocolli. Il numero di seggi detenuti in parlamento dal Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) del premier Erdoğan, 337 su 542, è considerato come una garanzia sicura per l’approvazione degli accordi. Tuttavia, non è ancora stato stabilito alcun termine per la votazione.
Ankara si difende ricordando che i documenti sono stati presentati al parlamento subito dopo la loro sottoscrizione, senza passare da alcun vaglio preliminare, e che i loro contenuti sono stati esposti dettagliatamente in quella sede.
Il nodo della questione, tuttavia, è rappresentato dal Nagorno-Karabakh, la regione contesa tra Yerevan e Baku. Nonostante nei protocolli non compaiano riferimenti diretti, per la Turchia – che nel 1993 ha chiuso i confini con l’Armenia in solidarietà con l’Azerbaijan dopo l’occupazione dell’area da parte delle truppe armene – la risoluzione di quel conflitto sembra ora condizione imprescindibile per l’approvazione parlamentare.
Ankara avrebbe fornito rassicurazioni in merito a Baku, sia nei mesi precedenti la firma dei protocolli che successivamente. L’insistenza della Turchia sulla questione del Nagorno-Karabakh è però andata recentemente aumentando, a seguito delle minacce azere di ridimensionare i rapporti economici con Ankara se quest’ultima decidesse di riaprire i confini prima di una risoluzione del conflitto.
Per la Turchia, un possibile "ridimensionamento" dei rapporti con l’Azerbaijan avrebbe importanti conseguenze soprattutto sul rifornimento di gas. Ankara acquista da Baku oltre 6 miliardi di metri cubi di metano all’anno. Il vantaggio maggiore per la Turchia consiste nel prezzo d’acquisto, 120 dollari per 1000 m³ rispetto a un prezzo di mercato mondiale che si aggira attorno ai 400-500 dollari, e nel fatto che può poi rivendere ad altri Paesi il gas così acquistato. Il gas azero, inoltre, sarà anche necessario per il progetto Nabucco, appoggiato dall’UE, nel caso questo venga realizzato. L’Azerbaijan, però, fornisce metano anche alla russa Gazprom, che nel frattempo ha assicurato a Baku di poter acquistare tutto il suo gas disponibile.
Le trattative per aumentare il prezzo del metano erogato erano già state avviate tra Turchia e Azerbaijan nel maggio 2009. Alcuni giorni fa, al Forum economico mondiale di Davos, il presidente azero Ilham Aliyev si è però apertamente lamentato del prezzo accordato finora al Paese confinante, affermando che "non è più possibile continuare a queste condizioni". Aliyev è anche andato oltre, affermando di essere "certo che la Turchia non approverà i protocolli".
Dopo la firma dei documenti, Erdoğan aveva affermato di essere in attesa di un intervento più attivo del gruppo di Minsk, creato nel 1992 nel quadro dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la risoluzione del conflitto nel Nagorno Karabakh. Sia Mosca che Washington tuttavia, due attori fondamentali del gruppo dell’Osce, non hanno riconosciuto un legame diretto tra i protocolli di Zurigo e la regione contesa tra Armenia e Azerbaijan.
La Russia, di fatto, ha assunto l’iniziativa il 25 gennaio scorso, convocando a Soci i due presidenti armeno e azero, Sargsyan e Aliyev, per un incontro con Medvedev. Le parti avrebbero trovato un’intesa sul preambolo di un accordo, ma il vertice si sarebbe concluso senza novità apprezzabili rispetto a quanto già stabilito durante la conferenza dell’Osce del novembre 2007 a Madrid.
La scorsa settimana, inoltre, si è creato un nuovo motivo di tensione tra Yerevan e Ankara. Il governo turco ha riscontrato nelle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale armena sui protocolli "un approccio assolutamente inaccettabile dal punto di vista dei principi fondamentali".
Nella sentenza si affermerebbe che la sottocommissione storica per "analizzare imparzialmente i fatti del 1915", prevista dai protocolli, avrebbe come unico scopo quello di sostenere la tesi del genocidio. Inoltre ci sarebbe una divergenza interpretativa sull’articolo del protocollo che prevede "il rispetto dei reciproci confini". Mentre infatti per la Turchia i confini in questione sono quelli definiti dal trattato di Kars del 1921, per la Corte costituzionale armena i confini sarebbero quelli stabiliti dai trattati internazionali successivi alla costituzione della Repubblica armena nel 1990. Dal momento che tra la Turchia e l’Armenia non sono stati fatti accordi dopo il 1990, da una tale interpretazione emergerebbe un mancato riconoscimento del confine attuale.
Il premier Erdoğan ha criticato duramente la lettura fatta dalla Corte armena, dicendo che si tratta di "un tentativo di intervenire nel testo dei protocolli", un gesto che "va corretto" perché "in caso contrario il processo in corso verrebbe danneggiato". Erdoğan ha anche aggiunto che "non disponiamo del lusso di lasciare il rapporto tra l’Armenia e l’Azerbaijan fuori da questa faccenda".
Yerevan, interpellata per chiarimenti da Ankara tramite il ministro degli Esteri Davutoğlu, ha respinto l’interpretazione data dalla Turchia alla sentenza della Corte costituzionale, vedendone una tattica per dilungare ancora l’approvazione dei protocolli. Il ministro degli Esteri armeno, Nalbandyan, ha affermato di "non escludere l’interruzione dei rapporti se la Turchia non è pronta ad approvare i protocolli e continuerà a intralciare il processo parlando di ultimatum e avanzando precondizioni".
Vigen Sargsyan, consigliere capo per la politica estera del presidente armeno Serzh Sargsyan, inasprendo la situazione, ha annunciato al Wall Street Journal che il parlamento armeno starebbe programmando una legge per dare al presidente il diritto di abolire le firme apposte sotto i protocolli, anche nel caso in cui fossero approvate in parlamento. "Ci stiamo avvicinando al punto in cui le cose si fanno sempre più difficili", ha detto Vigen Sargsyan. "Se questa opportunità verrà persa porterà tutta la regione indietro, e non dove ci si trovava prima di avviare il dialogo, ma ancora più indietro, distruggendo la fiducia costruita".
Dal canto suo Davutoğlu ha chiesto all’Armenia di "rimanere fedele al contenuto dei protocolli", chiedendo al riguardo garanzie anche agli Stati Uniti, alla Russia e alla Svizzera. Philip Gordon, vice segretario di Stato statunitense, ha ribadito il sostegno di Washington all’attuazione dei protocolli, sottolineando tuttavia come "questo processo debba avere un percorso indipendente da altre questioni".
In Turchia si sono immediatamente levate le voci degli oppositori ai protocolli. Il capo dell’opposizione e leader del CHP (Partito repubblicano del popolo), Deniz Baykal, ha denunciato il "fiasco protocollare" del governo, mentre il leader dell’MHP (Partito del movimento nazionalista), Devlet Bahçeli, ha suggerito al governo "di ritirare immediatamente i protocolli dichiarando ufficialmente la loro nullità e chiedendo scusa alla nazione turca".
Secondo un recente sondaggio, solo il 20% della popolazione turca sarebbe favorevole al processo avviato con la firma dei protocolli, mentre il 63,5% non lo appoggia. La percentuale più alta dei favorevoli, con il 52,9%, si ha tra i sostenitori del nuovo partito kurdo BDP (Partito della pace e della democrazia), mentre tra gli elettori dell’AKP i favorevoli sono solo il 27,2%. Un’altra ricerca condotta dal Centro di Ricerche Europee dell’univeristà di Ankara mette in evidenza che anche tra le fasce d’età più giovani, con un’istruzione superiore o universitaria, l’approvazione dei protocolli – che è sostenuta dalla maggior parte degli interpellati (69,7%) – risulta vincolata al ritiro delle truppe armene dal Nagorno Karabakh (35%) oppure alla rinuncia dell’Armenia della tesi del genocidio (28,6%).
Lo scorso 30 gennaio il quotidiano Milliyet ha dato spazio a due editoriali, ciascuno con una diversa interpretazione della crisi dei protocolli. L’analista Semih İdiz ha sostenuto che il governo abbia agito senza considerare bene le proprie carte, e ha parlato di "fiasco diplomatico", dal momento che tutti ora attendono una prima mossa da parte di Ankara, che invece non agirà a causa della "precondizione" sul Nagorno-Karabakh.
L’editorialista Taha Akyol, sempre su Milliyet, ha invece affermato di inserirsi in quel 20% della popolazione turca favorevole ai protocolli, scrivendo che la Turchia deve ora agire per far valere le proprie tesi. In particolare, secondo Akyol, "i verbali delle riunioni segrete tenute in Svizzera sono della massima importanza per provare il significato oggettivo dei protocolli … e i nostri diplomatici lo sanno, come lo sanno anche Washington e Mosca. I politici che in Turchia cadono nell’errore di interpretare i protocolli come la Corte costituzionale armena fanno solo un favore all’Armenia e devono stare attenti". Akyol conclude affermando che "davanti a noi c’è una lunga battaglia diplomatica, che dovrà essere giocata utilizzando diverse pedine, proprio come agli scacchi".
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