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La credibilità di Bruxelles

Mentre l’UE fa il punto sul progresso dei singoli stati dei Balcani verso l’integrazione europea, permangono alcune perplessità sulla politica estera di Bruxelles. Ne abbiamo parlato con Gerald Knaus direttore dell’European Stability Initiative

14/03/2008, Francesco Martino - Sofia

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I Balcani offrono all’Unione Europea una serie di sfide anche molto diverse: la missione in Kosovo, il rapporto difficile con la Serbia, la voglia di adesione turca, la stabilizzazione della Macedonia. Al momento l’Ue ha una strategia complessiva nei confronti della regione?

Direi che l’atteggiamento europeo varia molto da una questione all’altra. Nei confronti della Turchia abbiamo il caso più riconoscibile di "politica europea", con tutti i paesi membri d’accordo nel portare avanti i negoziati sull’adesione con Ankara. Nonostante le differenze, talvolta sensibili, tra paesi come Francia e Germania o Inghilterra, i risultati di un approccio comune sono visibili sul campo: la Turchia continua ad avanzare, seppur lentamente, verso l’Ue, è un paese stabile e sta vivendo un periodo di forte espansione economica. Lo stesso, purtroppo, non succede nei confronti di alcuni paesi dei Balcani Occidentali. La Macedonia è il migliore esempio di mancanza di strategia collettiva. La decisione greca di minacciare il veto all’ingresso di Skopje alla Nato e potenzialmente all’Ue, in violazione degli accordi già sottoscritti con la Macedonia nel 1995, non è stata pubblicamente stigmatizzata dall’Unione. Trovo sorprendente la mancanza di visione politica globale su un argomento così importante per la stabilità regionale.

Al momento, però, la questione più importante riguarda sicuramente il Kosovo. Quali prospettive si aprono a quello che sembra sotto ogni aspetto un progetto di protettorato europeo sul neo-dichiarato stato?

Il principale problema che pesa sull’idea stessa di "protettorato europeo" è il fatto che non tutti gli stati membri sono d’accordo su quello che oggi il Kosovo rappresenta. L’intesa è stata trovata sulla missione, ma non c’è consenso sullo status del Kosovo, visto che alcuni stati membri, come Spagna e Romania, non ne riconoscono l’indipendenza. Questo causa diversi problemi. Ad esempio rende difficile rispondere in modo coerente a quanto sta succedendo nel Kosovo settentrionale, dove assistiamo all’erosione delle pur poche istituzioni multietniche che l’Onu era riuscito a creare.

L’ostacolo più grande però è rappresentato dal fatto che, a causa della sua divisione, l’Ue non può offrire al Kosovo una prospettiva europea credibile. Esiste la possibilità che il Kosovo possa firmare un giorno un Accordo di Associazione e Stabilizzazione? L’Europa si impegnerà per alleggerire il regime dei visti nei riguardi del Kosovo, o ad inserirlo all’interno delle strutture di cooperazione regionale? A meno di un colpo di genio da parte di Bruxelles, queste prospettive sembrano oggi piuttosto improbabili.

L’Unione Europea sembra aver scelto un modello di protettorato molto simile a quello già adottato in Bosnia. Quali sono le opportunità e i rischi di questa scelta?

In Bosnia sono stati ottenuti alcuni successi significativi. C’è stata la demilitarizzazione, la creazione di un esercito e di servizi di sicurezza unificati, una riforma della polizia. Il problema è che il protettorato senza fine non è la soluzione, e la Bosnia è bloccata nella sua strada di avvicinamento all’Ue. La speranza, quindi, è che il mandato in Kosovo, pur somigliando nella forma a quello esercitato in Bosnia, venga interpretato in modo sostanzialmente diverso, anche perché le sfide sul campo qui sono più temibili, visto che l’autorità europea viene già messa in discussione, ad esempio dalla popolazione serba a nord dell’Ibar. In Kosovo non basterà esercitare il ruolo di "protettori", ma bisognerà saper offrire una prospettiva europea credibile.

Non sembra esserci molta chiarezza sul passaggio di poteri tra l’Unmik e la missione europea. Che tipo di problemi potrebbe provocare questa situazione?

Al momento non è nemmeno così chiaro che questo passaggio avverrà effettivamente, visto che l’Unmik ha dichiarato di considerare ancora valido il suo mandato, derivante dalla risoluzione 1244. Si profila così una situazione davvero ingarbugliata, con diverse istituzioni, Unmik, Eulex, Ico, Kfor, ad esercitare contemporaneamente i propri poteri in Kosovo. Il quadro sembra farsi ancora più complicato, e questo sicuramente avrà ricadute negative sulla governance internazionale in Kosovo.

Non le sembra paradossale che, pur insistendo sul mancato sviluppo quale prima causa di instabilità nella regione, l’Ue arrivi in Kosovo senza una definita strategia economica?

Questo è sicuramente il problema più grande. Certo, presto ci sarà una conferenza di donatori, e verrà annunciata la volontà di spendere grandi somme di denaro in Kosovo. Se guardiamo alle voci di spesa, però, quelle più sostanziose saranno destinate al personale internazionale o al sostegno del budget. Quello che manca è una strategia di integrazione dell’economia kosovara con quella europea, l’unica scelta davvero sostenibile. Per riuscire, il Kosovo ha bisogno di un supporto simile a quello di altri paesi candidati all’ingresso in Ue, dallo sviluppo di standard sulla qualità alimentare, agli aiuti in agricoltura, fino agli investimenti in campo ambientale. Un altro problema pressante riguarda il regime di visti e l’esclusione dal libero mercato del lavoro. Non solo la possibilità di emigrare è stata bloccata, ma anche gli imprenditori kosovari incontrano difficoltà enormi per poter viaggiare all’estero.

Perché l’Europa trova così difficile promuovere una politica più coraggiosa, sulla questione dei visti nei confronti dei Balcani Occidentali?

Sui visti, per fortuna, qualcosa si sta muovendo, ed oggi la Commissione ed alcuni stati, come ad esempio la Slovenia, spingono per un cambiamento in questo settore. Se da una parte ci sono timori legittimi verso fenomeni di migrazione illegale e criminalità organizzata, dall’altra è davvero difficile capire perché oggi, a otto anni dalla caduta di Milosevic e a nove dalla fine del conflitto in Kosovo, i circa venti milioni di abitanti dei Balcani Occidentali non possano godere delle stesse opportunità date ai cittadini polacchi all’inizio degli anni ’90, o a quelli bulgari dal 2001. L’apertura a Bulgaria e Romania ha funzionato, non vedo perché lo stesso non dovrebbe essere valido per Macedonia o Albania.

Come giudica l’approccio dell’Unione Europea nei difficili rapporti con la Serbia?

Credo che l’Europa abbia fatto alcuni grossi errori. Innanzitutto insistendo per anni sulla sopravvivenza dell’unione tra Serbia e Montenegro, poi fallita, che ha consumato molte energie politiche, e poi con la mancata liberalizzazione del regime dei visti, che è uno dei principali ostacoli posti alle forze riformatrici serbe. Inoltre, l’Ue ha provato ripetutamente ad imporre proprie volontà politiche, dicendo ai serbi quale coalizione o quale governo formare, un atteggiamento che raramente porta a buoni risultati. Credo però che la responsabilità principale per l’attuale posizione di isolamento della Serbia ricada principalmente sulla classe politica locale, e soprattutto su Vojislav Kostunica, che ha deciso di puntare ad un’agenda fondamentalmente anti-europea.

Che tipo di impatto ha avuto l’ingresso di Romania e Bulgaria sulla politica complessiva di allargamento dell’Ue nei Balcani?

Oggettivamente l’ingresso di Romania e Bulgaria è stato molto positivo per i Balcani, perché li ha inseriti al centro della costruzione europea. Romania e Bulgaria, seppur con molti problemi aperti, rappresentano poi due isole di stabilità nella regione, e a livello economico hanno ottimi indicatori. Paradossalmente però, la percezione diffusa in alcuni paesi, come in Germania, che l’ingresso di Sofia e Bucarest sia stato prematuro, sta danneggiando la prospettiva europea dei Balcani Occidentali. Per molti la lezione da imparare è che bisogna procedere più lentamente sulla strada dell’allargamento. Io non sono d’accordo. Credo che bisogna offrire anche ai Balcani la possibilità di aprire il processo negoziale per l’adesione, un passo che, nel caso di Romania e Bulgaria, si è rivelato capace di stimolare le riforme. Sulla chiusura dei negoziati e l’adesione effettiva, si può anche ragionare in termini diversi e flessibili.

Un caso particolare è quello della Turchia, un paese che insiste nel suo voler entrare in Europa, nonostante i tentennamenti dell’Unione ad accoglierlo. Cosa spinge la Turchia ad insistere in modo così deciso sulla strada europea?

L’establishment politico turco ha definito in termini molto razionali il proprio interesse nazionale. Le priorità sono lo sviluppo economico, l’occupazione, l’aumento del PIL pro capite, e il governo turco ritiene che per raggiungere questi risultati la risposta sia nell’integrazione con l’Occidente e l’Unione Europea. Il periodo iniziato con l’apertura dei negoziati, nel 1999, coincide anche con il momento di più rapida crescita economica e maggiore stabilità della storia recente del paese. Quindi, a prescindere dal risultato finale, in Turchia esiste la convinzione che portare avanti questo processo sia comunque una scelta prioritaria.

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