La cooperazione non governativa italiana nei Balcani: diffusa e innovativa. A volte poco trasparente
E’ da poco on line il database ARCO. Contiene i primi dati di un’indagine avviata nel giugno 2001 dall’Osservatorio sui Balcani. E leggendoli bene emergono spunti interessanti.
Com’è nato ARCO
Sono 65 le organizzazioni non governative attive nei paesi del sud est Europa che sono state censite dall’Osservatorio sui Balcani, e 113 i progetti attualmente in corso. Si tratta senza dubbio di un dato rilevante, che conferma come anche a distanza di anni dalla fine delle guerre, e nonostante il netto calo di interesse dei media internazionali, permane alta l’attenzione della società civile italiana nei confronti di quelle aree.
Queste ed altre cifre si ricavano dalla lettura di ARCO, l’Archivio sulla Cooperazione italiana nei Balcani che l’Osservatorio di Rovereto ha costruito in questi mesi attraverso un censimento avviato nel giugno 2001. ARCO vuole essere uno strumento al servizio delle molte realtà che operano nell’azione umanitaria all’estero, caratterizzate da una notevole vivacità negli interventi – specie con l’area dei Balcani – ma insieme da una loro estrema frammentarietà. Soggetti che operano in una stessa regione spesso neppure si conoscono tra loro, esperienze e informazioni acquisite da un’organizzazione che non circolano alle altre… Certamente non può essere solo un archivio informatico a risolvere simili problemi, ma sapere chi agisce, cosa fa e dove è un presupposto fondamentale per affrontarli, iniziando a creare rete, a scambiare esperienze, a imparare dagli altri.
I dati che presenta oggi ARCO non sono ancora completi, e infatti la raccolta e l’aggiornamento delle schede proseguiranno ancora. In particolare in questa prima fase sono stati tralasciati gli interventi degli enti locali e regionali e delle istituzioni nazionali, per concentrare l’attenzione su ong, associazioni e comitati locali. Già il quadro raccolto tuttavia è sufficiente per tentare alcune riflessioni sullo stato della solidarietà italiana con l’area balcanica. Ed è proprio il lavoro fatto in questi mesi per ARCO a fornire alcuni spunti interessanti di analisi.
Le difficoltà nel raccogliere i dati: realtà piccole e con il peso dell’emergenza
Un primo elemento che ci è apparso subito evidente è stata la grande difficoltà nel raccogliere i dati. La ricercatrice incaricata di ARCO può testimoniare quante telefonate, quante e-mail, quanti fax sono stati spesi cercando di ottenere le informazioni. Dando atto a quelle realtà che hanno collaborato immediatamente, da molte altre è stato difficile ricevere i dati tempestivamente. Alcuni sono tuttora incompleti o sono stati ricavati attraverso canali diversi dall’organizzazione stessa (sito web, altri archivi, conoscenza diretta…).
La domanda è allora: perché? Lasciando da parte l’ipotesi peggiore – e cioè che in alcuni casi i dati non siano stati volutamente forniti per scarsa trasparenza o sfiducia verso il nostro lavoro – due sono le ragioni possibili che abbiamo ipotizzato noi. Ed ognuna è indice della generosità ma anche dei potenziali difetti dell’intero sistema della solidarietà internazionale – fatte salve come detto le eccezioni anche di rilievo.
La prima spiegazione si trova secondo noi nella dimensione medio-piccola di molte organizzazioni, che hanno una bassa strutturazione e sistematicità di azione e a volte carattere solo temporaneo. Comitati ad hoc, coordinamenti territoriali di organizzazioni diverse, gruppi spontanei sono sorti numerosi durante le guerre recenti e nelle fasi successive dell’intervento umanitario. Alcuni operano tuttora, ma risulta fisicamente difficile accedere ad un loro archivio unico, trovare i referenti e soprattutto ottenere l’impegno a compilare le schede di rilevazione. Strutture operative leggere, dunque, che se da un lato hanno un impatto e un costo più sostenibile sui progetti, dall’altro potrebbero risultare troppo deboli per affrontare interventi di cooperazione sui terreni complessi dello sviluppo locale, dei bisogni sociali, della convivenza.
Il secondo motivo con cui ci spieghiamo la difficoltà ad ottenere notizie viene dalla priorità che spesso nella gestione quotidiana di un’organizzazione di solidarietà internazionale assume l’agire sul campo ed il rispondere ai bisogni concreti che vengono presentati. Ciò se da un lato dimostra lo spirito di servizio che anima l’agire solidale, dall’altro rischio di andare a scapito di funzioni comunque importanti quali il valutare ciò che si sta facendo, il farne memoria ed il creare archivi e rapporti accessibili su quanto fatto. E’ il dramma dell’emergenza, in cui spesso rischia di cadere anche chi si prefigge di agire sul lungo periodo. Perché comunque c’è il donatore da inseguire, il personale da gestire, il rendiconto da chiudere…
Le difficoltà nel catalogare i dati: la cooperazione che sfugge agli schemi
Una seconda difficoltà incontrata nel lavoro di questi mesi è quella di come catalogare i molti interventi che si rivolgono al sud est Europa. I progetti tradizionali di cooperazione allo sviluppo avevano infatti abbastanza chiara e codificata la distinzione di ruoli e funzioni tra donatore, esecutore, partner locale e beneficiari, pur con le dovute correzioni o aggiunte caso per caso. Al contrario le esperienze vissute nei Balcani, specie nell’ambito della cooperazione decentrata, vedono in campo molti più attori e con ruoli molto meno definiti: coordinamenti di enti, tavoli di concertazione, istituzioni locali, comitati cittadini, categorie professionali, scuole, gruppi spontanei… risultano a pieno titolo soggetti del processo di cooperazione assieme e al pari di ong o associazioni. E le forme che assume tale collaborazione variano da caso a caso.
A Modena ad esempio il Comune è titolare del rapporto con le amministrazioni locali di Novi Sad e Scutari, ma lo fa gestire operativamente ad un Consorzio di cooperative ed ong supportato a sua volta da UNOPS e da soggetti locali. Viceversa, titolare dell’intervento a Zavidovici in Bosnia Erzegovina è l’Associazione Ambasciata della Democrazia Locale, cui partecipano in ugual misura realtà di società civile ed enti locali (i Comuni di Brescia, Alba, Cremona ed altri). A sua volta poi l’Associazione è parte del più grande Consorzio Italiano di Solidarietà. Ancora diversa l’esperienza di Pec-Peja, in Kossovo, dove la Provincia di Trento interviene assieme alle associazioni del suo territorio finanziando il lavoro di un Tavolo di coordinamento che collega i diversi progetti, la titolarità dei quali però resta in capo alle singole associazioni. Dunque sono molti i modelli che la fantasia istituzionale delle mille città italiane ha saputo inventare, e inserirli in schede standardizzate è assai complicato.
Ma ancora più tipico della cooperazione decentrata è il superamento dell’agire solo "per progetto", come inteso negli schemi della cooperazione allo sviluppo fino agli inizi degli anni ’90. Il rapporto tra territori che ne sta alla base infatti si manifesta in modo continuativo nel tempo, e non è precostituito a priori dalla sola gabbia di obiettivi-strumenti-azioni-risultati attesi… Anche il sostegno economico è spesso parte di questa partnership duratura, flessibile e non preordinata da un documento di progetto rigido. Quindi più che per singoli progetti, in alcuni casi le azioni che fanno riferimento ad uno stesso processo di cooperazione sono state raggruppate per aree tematiche omogenee (per es. interventi a Zavidovici in campo ambientale…).
Un lavoro ancora aperto, alcune indicazioni già interessanti…
Dunque due elementi diversi tra loro; uno – la difficoltà a raccogliere i dati – indice di problemi strutturali, mentre l’altro – la difficoltà di catalogarli – che esprime piuttosto la ricchezza di modelli e le potenzialità della solidarietà italiana con i Balcani. In questi dieci anni di interventi lungo le strade della Bosnia Erzegovina, del Kossovo, ora anche della Serbia, si sono affacciati sul palcoscenico internazionale soggetti nuovi: gli enti locali, le associazioni dell’arcipelago per la pace, mentre le stesse ong hanno mutato in parte il loro modo di agire.
E’ difficile dare conto di tutto ciò in una raccolta dati quantitativa, ma ci sembra che alcuni elementi, come detto, già emergano. Starà poi ad un diverso lavoro di analisi qualitativa proseguire questa riflessione. Come Osservatorio sui Balcani cercheremo senz’altro di farlo, dando tra l’altro continuità al convegno del novembre 2001 a Trento sui dieci anni di cooperazione nel sud est Europa. Ci auguriamo che altri vogliano unirsi in questo sforzo comune, perché capire come stanno operando i progetti di solidarietà con i Balcani può aiutare forse anche a migliorarli.
Mauro Cereghini
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