La Bosnia tra nazionalismi locali ed errori internazionali
Uno sguardo disincantato sulla presenza internazionale in Bosnia Erzegovina nell’intervista a Joseph Marko, professore universitario austriaco, da quattro anni giudice costituzionale della Bosnia Erzegovina.
Joseph Marko è professore universitario austriaco, e da oltre quattro anni uno dei tre giudici costituzionali della Bosnia Erzegovina nominati dalla Corte europea di giustizia. Rappresenta fisicamente, assieme ad un giurista francese e ad uno svedese, la tutela posta dalla comunità internazionale sulla Corte costituzionale bosniaca, al pari di tutte le altre istituzioni create con gli Accordi di Dayton del novembre 1995. Eppure parla liberamente e con molto disincanto del ruolo fallimentare della presenza internazionale in Bosnia, così come delle responsabilità politiche di una leadership locale ancora troppo invischiata nel suo recente passato. Lo incontriamo a Bressanone, dove Marko si trova per i suoi impegni con l’Accademia Europea di Bolzano.
Ci descrive innanzitutto come può lavorare una Corte costituzionale così particolare?
Sarete forse sorpresi, ma posso dirvi che lavoriamo bene assieme. Con noi tre internazionali ci sono sei giudici bosniaci (due bosniaco-croati, due serbo-bosniaci e due musulmano-bosniaci o bosgnacchi), ma fin qui nel 98% dei casi le decisioni sono state prese all’unanimità. E sulle questioni controverse, le divisioni interne non sono mai avvenute per blocchi etnici.
Quali sono le vostre competenze specifiche?
I compiti della Corte sono essenzialmente tre: anzitutto il controllo preventivo sulla conformità delle leggi federali e delle costituzioni delle due entità la Bosnia Erzegovina è divisa tra Federazione croato-musulmana e Repubblica serba di Bosnia, ndr ai principi delle convenzioni europee sui diritti umani. Poi operiamo la revisione in ultimo grado dei processi dietro semplice richiesta di una delle parti, compresi i singoli cittadini. Infine, ma è un caso capitato molto di rado, possiamo intervenire sui meccanismi procedurali del Parlamento in caso di paralisi dovute a veti incrociati di natura etnica.
E la durata del mandato?
Gli Accordi di Dayton prevedono questa composizione mista della Corte solo per il primo mandato. Dopo cinque anni, e dunque nel 2002, spetterà al Parlamento federale stabilire nuovi criteri di nomina. Meccanismi analoghi sono previsti anche per altre istituzioni attualmente "sotto tutela" internazionale. Il punto è però se l’anno prossimo il Parlamento sarà realmente in grado di prendere una decisione, di avviare una reale indipendenza politica del paese.
Appunto, come giudica la situazione politica attuale della Bosnia Erzegovina?
Problematica, molto problematica. Oggi che ci troviamo all’alba di questa importante transizione, possiamo dire che le istituzioni statali bosniache ancora non funzionano. Gli Accordi di Dayton hanno fermato la guerra, ma al loro interno c’è un conflitto irrisolto tra il riconoscimento del diritto al ritorno, al mantenimento delle proprietà, alla libertà di movimento nel paese, e la contemporanea costituzione di due entità separate su base etnica. Inoltre sono tuttora presenti i sistemi politici nazionalisti sorti durante la guerra, e il ricambio in profondità delle leadership non è ancora avvenuto: se pure si è formato un sistema multipartitico, non possiamo certo parlare – a parte il caso dei socialdemocratici – di partiti multietnici.
In questa situazione bloccata, che ruolo gioca l’economia?
Il sistema economico in Bosnia Erzegovina è semplicemente paralizzato: i finanziamenti anche ampi concessi dalla comunità internazionale hanno prodotto ben poco, e nemmeno la ricostruzione delle infrastrutture è stata completata. Le uniche attività che sembrano fiorire sono le micro-imprese familiari, più che altro nel campo del commercio (quanti bar si vedono ovunque…), e il settore criminale. A peggiorare a situazione, poi, va detto che le due entità di cui si compone il paese stanno dandosi legislazioni economiche molto differenti tra loro. Con tutto ciò, non c’è da stupirsi se gli indicatori economici della Bosnia stanno addirittura peggiorando nel dopoguerra.
Lei non è un politico, però dopo una simile analisi vorrei sapere quale strada vede per un futuro diverso in Bosnia.
E’ difficile che cambi qualcosa finché restano queste leadership politiche, di impronta nazionalista. Purtroppo ci sarebbe un’élite urbana giovane – dai 30 ai 50 anni – molto più aperta e avanzata, ma è esclusa dai luoghi istituzionali. L’impasse attuale rischia di farle perdere le ultime speranze spingendola ad abbandonare ora il paese, dopo aver resistito per tutta la guerra o essere rientrata apposta dall’esilio.
Ma la comunità internazionale non ha la sua parte di responsabilità in questo fallimento?
Certamente. Il problema dell’integrazione bosniaca è a tutti gli effetti un problema europeo, e in ciò condivido pienamente l’Appello L’Europa oltre i confini che ho sottoscritto. Aggiungerei che per essere affrontato correttamente, questo problema va preso a più livelli: quello dell’integrazione interna alla Bosnia Erzegovina, per farla diventare un paese unito, quello dell’integrazione regionale su scala balcanica e quello dell’integrazione europea nel suo complesso. Purtroppo non vedo in giro proposte politiche all’altezza di queste sfide, e la comunità internazionale nel suo complesso mi sembra impreparata. L’errore è sempre stato quello di agire dopo lo scoppio delle crisi, con il solo scopo di ridurre o localizzare il conflitto. Si è usata una logica di puro contenimento, mentre è mancato un approccio globale e preventivo all’intera questione balcanica.
Il Patto di Stabilità può rappresentare questo nuovo approccio di cui c’è bisogno?
No, così com’è il Patto di Stabilità non serve. I funzionari che vi sono stati dedicati non hanno in genere alcuna competenza specifica, né mostrano interesse per questo lavoro. Del resto gran parte dei funzionari internazionali presenti in Bosnia non ha neppure la curiosità di imparare le quattro parole base della lingua locale. L’unico interesse per cui si muove sono i soldi o la carriera…
Tornando all’Europa, che ruolo può giocare nel futuro della Bosnia Erzegovina e dei Balcani?
Come ho detto il ruolo dell’Europa è molto importante per il sostegno che può dare al ricambio delle leadership locali. Ma l’Europa deve anche capire che i Balcani non sono un problema "esterno", bensì una sfida che la riguarda in prima persona per il suo stesso futuro. Ci sono modelli statuali differenti che si confrontano nell’intera Europa: ad esempio il modello basato sui diritti strettamente individuali della persona come in Francia, Grecia o (almeno prima delle recenti riforme costituzionali, ndr) Macedonia, è profondamente diverso da quello che riconosce anche i diritti dei gruppi, come accade in Austria, Belgio o appunto Bosnia Erzegovina. Stabilire quale prevarrà equivale a stabilire come funzionerà l’Unione Europea nel futuro. Seguirà l’esempio federale degli Stati Uniti, oppure sarà l’Europa delle piccole patrie? La sfida che si vive oggi nei Balcani è in realtà una sfida che investe tutto il vecchio continente. Ma come ho già detto, non mi sembra di vedere all’orizzonte politici all’altezza di questa sfida.
Lei ha parlato molto di politici e istituzioni; ma quale spazio ha la cooperazione dal basso, il mondo non governativo che pure è stato molto attivo nei Balcani?
Premetto che è un campo che, come potrete capire, conosco molto meno. Posso dire che a livello generale le ONG fanno senz’altro un buon lavoro, specie per sostenere materialmente la popolazione. Mi pare però che anch’esse manchino di una visione politica di lungo respiro, e rischino dunque di fare gli stessi errori del mondo governativo. Si parla molto poi della società civile locale, che le ONG internazionali dovrebbero sostenere e far crescere. Ma cosa vuol dire società civile nei Balcani? C’è qualcuno che ha lavorato su questo tema e ha cercato di concettualizzare questa parola che pure appare in tutti i progetti?
Condivido i dubbi sul concetto in sé di società civile; però ci sono molti singoli intellettuali democratici e non nazionalisti che tentano di farsi sentire. Come dargli voce?
In effetti ci sono, e tutto sommato almeno in Bosnia Erzegovina hanno anche un certo spazio sui media nazionali. Il problema è all’estero, dove invece la loro voce non arriva mai. Mancano o sono poco sviluppati dei forti network sovranazionali, che permettano un vero dialogo tra i diversi paesi balcanici e tra questi ed il resto dell’Europa. Per cambiare gli approcci politici sbagliati di cui ho parlato occorre agire sull’opinione pubblica di tutto il vecchio continente, e perciò serve una visibilità mediatica altrettanto ampia. E’ un grande impegno, lo so…
A proposito di impegno, lei l’anno prossimo terminerà il suo mandato a Sarajevo e come gli altri giudici costituzionali non sarà rieleggibile: cosa farà dopo?
Dopo il maggio 2002 penso proprio che tornerò a studiare. Questa esperienza è stata molto faticosa, anche se importante. E’ stato un continuo viaggiare "in orizzontale" tra Sarajevo, Graz, Bolzano e Bruxelles, a dimostrazione della nuova dimensione che sta assumendo l’Europa.
Già, l’asse verticale Londra-Parigi-Bruxelles-Roma non è più l’unico su cui ruota l’integrazione europea.
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