La Bosnia Erzegovina è un protettorato? L’intervento di Massimo Moratti a San Servolo
Nel suo intervento al convegno "Vivere senza futuro?" Massimo Moratti ha fornito un interessante sguardo sulla presenza internazionale in Bosnia Erzegovina. Un punto di vista estremamente lucido e dal di dentro. Un contributo importante per capire la Bosnia Erzegovina dei nostri giorni.
Massimo Moratti è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche (1994), dal 1997 risiede in Bosnia Erzegovina dove ha lavorato per anni come funzionario OSCE per i Diritti Umani (Prijedor e Sarajevo). Nel gennaio 2004 ha dato vita al Comitato Internazionale per i Diritti Umani della Bosnia Erzegovina (ICHR), organizzazione non governativa di cui è attualmente direttore esecutivo.
Parlando di protettorati in Europa possiamo iniziare col chiarire una prima questione terminologica: la Bosnia è un protettorato oppure no? Nei protettorati per definizione non si tengono elezioni mentre in Bosnia si sono avuti appuntamenti elettorali nel 1996, nel 1997, nel 1998, nel 2000, nel 2002 e nel 2004. Sette tornate elettorali a volte due delle quali sono state concentrate nello stesso anno: a diversi livelli, municipale, politico ecc.
Inoltre occorre considerare che le autorità locali della Bosnia Erzegovina hanno competenza e responsabilità su tutti gli aspetti del processo di pace, non vi sono, a differenza del Kosovo, delle competenze riservate che sono lasciate alla Comunità Internazionale.
Il fatto di avere avuto elezioni così presto, subito dopo un conflitto così violento, è stato frequentemente considerato da molti osservatori come il "peccato originale" della Comunità Internazionale e dell’intervento internazionale in Bosnia ed Erzegovina. Chi muove quest’accusa sottolinea che si è seguita una certa impostazione americana per cui basta fermare il conflitto e mandare le truppe di pace e subito dopo le elezioni porteranno immediatamente la democrazia. Le elezioni del 1996, tenutesi meno di un anno dopo la fine del conflitto, per alcuni sono da interpretare come la vera causa del problema: la causa del protratto impegno della Comunità Internazionale in Bosnia.
Questo perché hanno dato una legittimazione politica ad una classe di politici che aveva portato il paese alla guerra e che fondava il proprio potere sul reciproco timore dei tre popoli costituenti. Momcilo Krajisnik, Biljiana Plavsic, Jadranko Prlic, Halilovic e forse anche Alija Izetbegovic: tutti politici che erano stati democraticamente eletti nel 1996 e nelle tornate successive e che successivamente sono stati indiziati per crimini di guerra ed in alcuni casi anche condannati, come è stato il caso di Biljiana Plavsic, che è stata condannata ad undici anni.
Quindi, è alquanto imbarazzante iniziare un processo di pace, favorire l’ascesa al potere di un’intera classe politica che poi, per il ruolo avuto durante la guerra, finisce all’Aja.
Durante gli anni iniziali dell’impegno internazionale in Bosnia Erzegovina, nel 1996 e 1997, ci si è resi rapidamente conto che il progresso nel Paese era estremamente limitato. Questo proprio per il persistere di quelle dinamiche che avevano portato il Paese a fare la guerra. E la domanda che molti osservatori si fecero fu: "Come ci si può aspettare che chi ha fatto la guerra si metta a cooperare per la pace rispettando gli impegni presi da essi stessi a Dayton?".
Un’altra domanda emersa fu: "Cosa ci stanno a fare in questo Paese tali e tante forze internazionali e così tanto denaro se chi comanda sono ancora gli stessi che hanno fatto la guerra?". Da ricordare che per tutto il 1996 e 1997 vi furono attacchi contro le minoranze: distruzione di case ed arresti arbitrari avvenivano regolarmente. Nell’ottobre 1996 in tempo di pace, alla presenza delle truppe internazionali, Simod Drljiaca, a Prijedor, ha fatto saltare in aria cento case, nelle quali la gente doveva tornare.
A Drvar attraversare l’IBL era un’impresa che si faceva rischiando la vita o la detenzione.
Ci si è allora resi conto che questa situazione era pericolosa e che non vi erano sbocchi proprio perché il paese era tenuto in scacco da questa élite politica che viveva tenendo nel terrore i propri elettori.
La svolta avvenne alla fine del 1997, quando la SFOR adottò un approccio più deciso nei confronti dei cosiddetti criminali di guerra, che giravano sino ad allora liberamente nel Paese e quando la Comunità Internazionale decise di introdurre i cosiddetti "Bonn powers" che derivano dalla Conferenza di pace del Peace Implementation Council di Bonn e sono poteri conferiti all’Ufficio dell’Alto Rappresentante, autorità suprema garante degli gli Accordi di pace di Dayton.
Essi sono sostanzialmente due: definendo l’Alto Rappresentante come "l’ultimo interprete degli accordi di Pace", gli conferiscono il potere di imporre leggi e decisioni ed il potere di rimuovere politici o funzionari eletti e nominati, che fanno ostruzione al processo di pace.
Si tratta di un vero e proprio esperimento, giacché in nessuna missione di peacekeeping precedente non c’era mai stato un impegno così intenso, così pervasivo. Solitamente infatti l’attività di peacekeeping si risolve in assistenza tecnica ai Paesi evitando l’ingerenza profonda. E’ un esperimento avviato durante una conferenza internazionale deputata a fare il punto sui progressi raggiunti nel processo di pace e non previsto a Dayton, dove dominava invece ancora la percezione che occorreva negoziare e lavorare con coloro i quali poi hanno sottoscritto l’accordo.
I "Bonn powers" sono stati uno strumento grazie al quale si cercava di ovviare al problema di avere avuto delle elezioni politiche troppo ravvicinate, che hanno legittimato un’intera classe politica. Si tratta però ovviamente di un metodo non democratico che si usa per ripristinare la democrazia. La figura dell’Alto Rappresentante viene considerata come quella di un "dittatore benevolo".
Questi poteri vengono introdotti però in un contesto in cui mancano le procedure che regolino tale comportamento della Comunità Internazionale: è questo il problema principale. Con l’applicazione dei "Bonn powers" in Bosnia si percepiva il cambio di situazione, l’approccio internazionale diventa più interventista. Si comincia a lavorare per rompere i tre staterelli monoetnici che erano risultati dalla fine della guerra e le prime leggi mirano al ripristino di alcune libertà fondamentali: il passaporto, che prima non vedeva nessun accordo, le targhe comuni, che hanno ripristinato la libertà di circolazione e altre questioni su cui i politici locali non avevano e non volevano trovare un accordo, perché prosperavano nella situazione in cui i propri elettori vivevano nella paura dell’altro gruppo etnico.
Importantissime anche le leggi in materia di ritorno, di cui mi sono occupato per molti anni all’OSCE. Le leggi per la restituzione della proprietà erano state approvate in consultazione con la Comunità Internazionale, ma il principio che vigeva alla base della loro applicazione era "fatta la legge trovato l’inganno": appena il Parlamento locale aveva passato le leggi, subito c’era chi analizzava il testo per vedere quali fossero le scappatoie per evitare di restituire le case, per evitare di far sì che la gente potesse tornare a casa propria.
Anche in questo campo come quello delle leggi sulla proprietà, quindi, l’intervento della Comunità Internazionale con modifiche ed abrogazioni è stato frequente e profondo. La reazione della gente era naturalmente scettica nei confronti dell’imposizione di questi poteri e nei confronti della Comunità Internazionale, però allo stesso tempo c’era una sfiducia nei confronti della classe politica del Paese, al punto che a volte la Comunità Internazionale veniva considerata a volte il male minore.
Addirittura a volte i cittadini bosniaci si rivolgevano prima ai funzionari internazionali e poi alle autorità locali. Si verificava di frequente ad esempio nel mio ufficio a Prijedor cercando di riavere le proprie case indietro, io chiedevo se fossero stati dalle autorità locali, la risposta era no perché non si fidavano di loro. Questo rifletteva anche una sorta di sfiducia tra i gruppi etnici, dove si vedeva la Comunità Internazionale come fattore centrale, in molti casi anche neutrale e che poteva rendere giustizia alle persone.
Una delle critiche mosse alla Comunità Internazionale era di non star facendo abbastanza per la gente, di fare troppo poco. Critica molto ben presente a suo tempo. In genere, la valutazione dei "Bonn powers" è stata positiva perché sono serviti a sbloccare un sistema, una situazione ed iniziare il cambiamento all’interno del Paese.
Si sono però verificati dei problemi: la mancanza di procedure standardizzate è uno dei principali al quale va aggiunto il fatto che in molti casi le leggi sono frutto di elaborazione esclusiva all’interno delle istituzioni internazionali, all’interno del Legal Department di OHR e per questo a volte totalmente scollegate dalla realtà che devono andare a regolare.
Inoltre sono state imposte a volte leggi non necessarie al Paese in quel dato momento, ma che rispondevano solamente ad esigenze specifiche, come quelle di alcune organizzazioni internazionali, che funzionano da lobbies nel processo legislativo: l’OSCE o l’UNHCR possono ad esempio esercitare la loro influenza sul Legal Department dell’OHR. In questi casi manca anche la possibilità di interpretazione della legge, non c’è accesso ai lavori preparatori e la stessa OHR non presta il servizio di interpretazione autentica.
Problema ancor maggiori riguardano poi il secondo aspetto dei "Bonn powers", quello di rimozione di funzionari eletti e nominati per ostruzione al processo di pace. Questo è stato uno dei problemi ai quali abbiamo assistito maggiormente, al punto che si sta ripensando al modo con cui i cittadini possono fare ricorso contro le decisioni di rimozione.
L’assenza di procedure in tal caso si manifesta con l’assenza di direttive per i funzionari che dovrebbero applicare tali sanzioni: non si sa che in informazioni devono raccogliere, che cosa cercare, vengono date solamente indicazioni generiche. L’assenza di procedure si ripercuote poi sulla mancanza di garanzie per un processo equo, secondo quanto invece previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.
Chi viene rimosso dall’Alto Rappresentante non ha infatti diritto ad essere ascoltato, non ha diritto a fare appello, inoltre la rimozione è perpetua, salvo perdono o riabilitazione. Ma il tutto si esegue al di fuori di procedure compatibili con la Convenzione, che si applica direttamente in Bosnia Erzegovina.
Il terzo problema è la mancanza di controllo sui funzionari della Comunità Internazionale, controllo interno alle organizzazioni internazionali, e di conseguenza anche sui funzionari dell’OHR. Mi sono trovato diverse volte ad avere a che fare ad esempio con un collega privo di competenza giuridica, che faceva pressione su un giudice per ottenere l’arresto di una certa persona. Minacciando, in caso contrario, la sua rimozione. Qui si intacca chiaramente la competenza e l’indipendenza dei giudici.
Di fatto questo funzionario internazionale agiva in quel campo senza dovere rispondere poi a nessuno. La gerarchia delle organizzazioni internazionali è costruita spesso in modo da evitare che i vertici conoscano l’azione dei sottoposti. Inoltre il sistema è autoreferenziale: lo stesso Alto Rappresentante dice di fare riferimento al Peace Implementation Council tramite rapporti periodici, ma di fatto non c’è sui suoi poteri un controllo indipendente.
Questi sono i problemi principali connessi ai poteri straordinari. Ma i tempi cambiano, nel 2005 saranno dieci anni da Dayton, ed il Paese non è più quello del 1995. Chi va in Bosnia oggi vede una realtà completamente diversa. Vivendo lì ho la percezione di quanti passi avanti si siano compiuti, ma forse il silenzio dei media ha congelato un po’ la situazione nelle nostre menti.
La gente ha ancora in mente le immagini di Sarajevo sotto i bombardamenti. Appena la guerra è finita i media se ne sono andati e non parlano delle cose che evolvono positivamente. Le spinte secessioniste che erano presenti nel 1996-1997 sono continuate per tutti questi anni e sono però divenute sempre più fievoli e ridotte.
Il fatto che lo status della Bosnia come un soggetto di diritto internazionale sia stato previsto già a Dayton ha, a parer mio, eliminato fin dall’inizio la possibilità di secessioni armate da parte della Repubblica Srpska o dei cantoni dell’Erzegovina. La Bosnia sarebbe continuata ad esistere e questa è la differenza che vedo tra la Bosnia e il Kosovo, con riferimento anche agli incidenti del marzo scorso.
Riguardo al processo di ritorno dei rifugiati, che sembrava dovere durare per oltre 40 anni e si pensava che il suo completamento avrebbe innescato poi una nuova guerra, è largamente avvenuto invece che i rifugiati hanno potuto decidere liberamente, senza eccessivi condizionamenti, se ritornare oppure no a casa propria, sebbene questo processo non sia ancora finito.
Questa è stata una bomba disinnescata. Mi ricordo politici bosgnacchi dire nel 1996 che i bosniaci avrebbero marciato in migliaia su Prijedor per ritornare pacificamente a casa loro. Questa rischiava d’essere occasione per altri scontri. Il fatto che invece i rientri siano avvenuti in relativa calma e tranquillità è stato un grosso successo per il Paese ed un fatto di cui i bosniaci dovrebbero essere orgogliosi.
Lo stesso linguaggio dei partiti nazionalisti nel corso di questi anni è cambiato: mentre prima l’HDZ e l’SDS facevano riferimento a Zagabria e Belgrado per le loro istanze, adesso hanno riorientato la loro ottica e cominciano a guardare verso Sarajevo come il punto dove si può trovare soddisfazione alle proprie istanze. E, di pari passo, le istituzioni centrali del governo si sono espanse: dai tre ministeri iniziali del Consiglio dei ministri adesso si parla di nove ministeri. A marzo-aprile di quest’anno è stato creato anche un Ministero della difesa comune. Il Ministro della difesa è un è un serbo tra l’altro. Pochi giorni fa è stato costituito anche il primo corpo militare bosniaco, né della Federazione, né della Repubblica Srpska, che ha ancora scopi puramente dimostrativi, ma che rappresenta un passo avanti in un contesto che appariva impensabile nel 1996.
Anche a livello locale le cose stanno cambiando, l’IBL ha perso la sua importanza: non c’è più paura ad attraversarla. A livello sportivo le cose sono cambiate: c’è un campionato di calcio unico in Bosnia, si sta giocando da tre anni, tra la Repubblica Srpska e la Federazione le squadre girano, i tifosi vanno in trasferta, ad ottobre di quest’anno hanno giocato il derby Sarajevo-Srpsko Sarajevo. Certo non ci si aspetta che i tifosi inizino un processo di riconciliazione, ci sono state tensioni sugli spalti, ma il fatto che si sia potuta giocare la partita, poi finita sullo zero a zero, è un fatto molto importante soprattutto perchè la gente andava a vedere la partita in un luogo dove fino a dieci anni prima si trovava sotto i bombardamenti, si tratta di un progresso innegabile di cui bisogna prendere atto.
A livello macro è bene ricordare che Croazia e Serbia dopo la scomparsa di Tudjman e l’arresto di Milosevic continuano sempre meno ad interferire nelle questioni interne della Bosnia: c’è inoltre in atto una vera e propria distensione tra Croazia e Serbia che ha effetti benefici sulla Bosnia Erzegovina.
Se ci troviamo oggi a parlare di protettorati internazionali e se la critica più frequente dieci anni fa era quella che la Comunità Internazionale stava facendo troppo poco, oggi invece la critica più frequente è che la Comunità Internazionale sta facendo troppo. Al miglioramento della situazione sul campo è corrisposto effettivamente un aumento dell’ingerenza della Comunità Internazionale dovuta essenzialmente a due cause: la mancanza di memoria istituzionale da parte della Comunità Internazionale dovuta al frequente turn over del personale. All’interno dell’OHR ad esempio vi sono solo te persone che continuano a lavorare lì e che vi lavoravano anche nel 1996-1997: ogni anno o due c’è un ricambio di persone, per cui chi è appena arrivato non sa com’erano le cose prima e continua semplicemente a ripetere come dei mantra quello che hanno sentito dire durante i briefing. Inoltre la burocrazia internazionale si sta espandendo e continua a trovare in se stessa la ragioni per un continuo impegno nel Paese.
La Comunità Internazionale non si è data degli obiettivi ben precisi, raggiunti i quali avrebbe dovuto spostarsi su altre materie: si tratta di mancanza di pianificazione o di "navigazione a vista".
Inoltre contraddistingue l’azione dei funzionari internazionali la sfiducia nella classe politica locale. Il fatto che in molti casi la classe politica ripeta ancora le logiche di azione del 1992 preoccupa i funzionari internazionali che vedono per questo la probabilità di un nuovo conflitto, che però appare realisticamente remoto.
L’immaturità della classe politica rappresenta quindi un ulteriore fattore di sfiducia: in questi giorni l’Alto Rappresentante ha invalidato la legge sulla grazia, votata da tutti e tre i partiti nazionalisti alla fine dell’estate e che permette alla Presidenza collegiale di graziare anche nel corso dei procedimenti gli imputati.
La presenza capillare dei funzionari internazionali funziona come una sorta di appoggio all’azione dei partiti locali, l’effetto di questo appoggio è quello di deresponsabilizzare gli uomini politici locali di fronte ai propri elettori, perchè in tal modo possono evitare di dovere fare accordi di compromesso con il collega serbo o con quello croato e viceversa, perché la Comunità Internazionale con il suo intervento ha già risolto il problema.
La deresponsabilizzazione dei politici si traduce in una disaffezione degli elettori al processo politico. Testimonianza di questo è il calo dell’afflusso di elettori alle urne: dal 77-80% del 1996 si è passati al 43% delle elezioni comunali dell’ottobre scorso. L’elettorato urbano depositario potenziale del cambiamento si trova disilluso dalla presenza pervasiva dei funzionari internazionali e allora è facile per i partiti nazionalisti mobilitare la gente dei villaggi, i veterani, lo "zoccolo duro" del nazionalismo e continuare a vincere le elezioni.
Esaminando i numeri dei votanti per vari partiti si osserva che in diverse elezioni non ci sono grandi oscillazioni. La presenza così forte della Comunità Internazionale impedisce lo sviluppo di una classe politica locale, è quasi un ostacolo al cambiamento. Ci sono dei segni di ottimismo, il dibattito è stato aperto dopo il Rapporto dell’ESI del 2003 nel quale emerge la consapevolezza che i "Bonn powers" devono essere rimossi, e si propone il novembre 2005 come data di eliminazione dei poteri e di ripristino dell’autorità bosniaca. La Venice Commission del Consiglio d’Europa ha visitato diverse volte la Bosnia Erzegovina e recentemente ha fatto intendere che è venuta l’ora di eliminare i "Bonn powers". In questo contesto, l’Alto Rappresentante sta mutando la sua figura istituzionale in Rappresentante Speciale dell’Unione Europea in Bosnia Erzegovina e le riforme necessarie non saranno più dovute alla spinta delle organizzazioni internazionali dal basso, ma dall’attrazione da parte delle strutture europee, in prospettiva, da tutti desi
erata, dell’adesione della Bosnia all’Unione Europea, adesione per la quale ci saranno certamente delle condizioni da soddisfare.
Dal mio punto di vista dunque vi sono ragioni per essere ottimisti e per credere che il protettorato è destinato a sparire. L’unico punto interrogativo rimane sui tempi e le modalità di ricambio della classe politica, questione che si tenta di risolvere con le elezioni, ma che comunque rimane il maggiore problema.
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