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La Bosnia di Dayton. Un intervento di Claudio Bazzocchi

Una giornata di approfondimento per discutere della Bosnia di Dayton. Il delicato e complesso assetto istituzionale del Paese, il ruolo della comunità internazionale e dei politici locali, i rischi di instabilità alla luce dei recenti scontri nel Kossovo

25/06/2004, Claudio Bazzocchi -

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Claudio Bazzocchi è ricercatore indipendente dopo molti anni trascorsi nel mondo della cooperazione internazionale. Collabora con Osservatorio sui Balcani fin dalla sua creazione. E’ autore di "La balcanizzazione dello sviluppo", edizioni Il Ponte. Qui di seguito pubblichiamo una sintesi del suo intervento presso il dibattito tenutosi lo scorso 11 giugno a Bologna, aperto ai partners e ai media che collaborano con la redazione di Osservatorio sui Balcani, su: "I protettorati internazionali in Europa: la Bosnia di Dayton".

Oltre la dottrina americana di risoluzione del conflitto
In Bosnia Erzegovina ho l’impressione si sia oltre il fallimento della cosiddetta ‘dottrina americana del processo di pace’. E cioè mettiamo i contendenti a firmare, più o meno forzatamente, un trattato di pace e poi il resto in qualche modo verrà da sé. C’è una nuova dottrina che si basa su quello che potrebbe essere definito come fondamentalismo dei diritti umani. Le guerre e le instabilità vengono interpretate come inadeguatezza e mancanza di cultura da parte dei popoli coinvolti.

Questo darebbe il diritto, appunto, alle famose coalizioni dei volenterosi di intervenire per imporre riforme. Dei sistemi giudiziari, dei sistemi istituzionali, della scuola, ecc. Proprio perché si crede che il conflitto, la guerra, l’instabilità esistano perché in qualche modo ci sono popolazioni inadeguate.

Questo darebbe il diritto di intervenire ed imporre… perché i diritti umani – si dice – sono assoluti, non devono tenere conto di nessun processo politico sottostante. Quando un diritto umano viene calpestato allora si può e deve intervenire. Lo si è fatto più volte nei Balcani, basti pensare al Kossovo.

Costruire o decostruire lo Stato?
Una prima contraddizione è quella da una parte di parlare di nation building – cioè di costruzione dello Stato – e contemporaneamente indebolirlo fortemente. Perché se ci si arroga il diritto di licenziare politici, giudici; se si rifanno completamente tutti i sistemi scolastici, economici ecc. non ha senso di continuare a parlare di nation building perché si sta indebolendo lo Stato.

Questa è una contraddizione fondamentale che è all’opera in Kosovo e in Afghanistan, e sarà all’opera in Iraq dopo il 30 giugno. Su questo mi permetto di consigliarvi un libro straordinario, scritto da un ricercatore inglese, si chiama David Chandler, From Kosovo to Kabul (ed. Pluto, 2002). Si tratta di questa scuola inglese di studiosi, tra cui possiamo annoverare anche Mark Duffield (Guerre postmoderne. L’aiuto
umanitario come tecnica politica di controllo. Il
Ponte, Bologna 2004), Joanna Macrae (Aiding Recovery?: The Crisis of Aid
in Chronic Political Emergencies, Zed Books 2001), Vanessa Pupavac (The End of Politics? Therapy against Politics, april 2001). Nel libro di Chandler si sottolinea questa contraddizione. Si opta per l’operazione politica di costruire lo stato ed allo stesso tempo si depoliticizzano tutte le questioni. E’ un corto circuito straordinario.

Il Parlamento in Bosnia Erzegovina non decide nulla
Alcuni esempi. In Bosnia la Costituzione non è stata scritta dai bosniaci, le riforme economiche non sono state decise dal parlamento e via dicendo. Il messaggio che trapela più votle dai discorsi dell’Attuale Alto Rappresentante Paddy Ashdown sembra essere questo: alla politica ed alle riforme ci penso io, voi pensate a ratificarle. Se non lo fate? Lo faccio io, ne ho i poteri.

Penso per esempio alla questione delle privatizzazioni. Credo che la BiH, avrebbe tratto beneficio dalla discussione su questo tema da parte dei sindacati, dalle parti sociali, dal parlamento. Non è avvenuto. Queste sarebbero le grandi questioni politiche che permetterebbero di uscire dalle secche del nazionalismo. Ma questo non avviene perché c’è un giudizio quasi neocoloniale sulle popolazioni in oggetto. Personalmente mi sento anche a disagio ad essere qui a parlare di altri.

Uscire dai regimi etnici
Ritengo la questione fondamentale sia come uscire dai regimi etnici. Con una vaga idea di tolleranza, di multietnicità? Oppure passando attraverso questioni forti e politiche? Quella in Bosnia non è stata una guerra in cui erano popolazioni "naturalmente violente", o classi dirigenti con una cultura inadeguata. Non è stata una guerra perché queste popolazioni non avevano gli strumenti per mediare i conflitti. Piuttosto ci si avvicina di più alle ragioni del conflitto se si pensa che la guerra nei Paesi balcanici sia stata una sorta di aggiustamento rispetto al nuovo quadro internazionale. In cui le classi dirigenti della Jugoslavia hanno individuato nella guerra uno strumento per realizzare forme alternative di statualità, forme alternative di economia, forme alternative di rapporto fra cittadini e potere. Allora, comincio a pensare che non siamo di fronte a folli dittatori barbari e potenti, e quindi il problema è politico. E comincerò a pensare che la retorica dei diritti umani, l’attenzione alle questioni etniche, i programmi di riforma affinché le popolazioni diventino "adeguate", non funzionano, perché non rispondono a ciò che è successo in quel Paese.

Non è un caso che alle ultime elezioni, non solo in Bosnia, ma anche in Croazia, abbiano vinto i nazionalisti. Non è un caso perché rispetto a questa leggerezza, a questa ideologia dei diritti umani, il richiamo a determinati valori etnici è molto più forte. Perché rispondono non solo ad un bisogno di identità ma anche a determinati problemi economici e sociali. Attraverso i network affaristico- mafiosi, passa il welfare di queste popolazioni, passa lo stato sociale, passano i rapporti di vicinato, passa la sicurezza sia economica che sociale, cioè passa un sistema politico di rapporti fra cittadini e potere.

Perché non si ammette il deficit di bilancio?
Si parla di piccola e media impresa, di rapporto virtuoso fra società civile, impresa, e capitale sociale. Si parla anche di distretti industriali, e il modello sarebbero i distretti industriali italiani. Però, c’è una contraddizione. Il nostro modello di sviluppo economico dell’Emilia Romagna, ad esempio, ha funzionato perché c’era l’ammissione del deficit di bilancio, un cardine delle politiche socialdemocratiche. Cioè si sfora per costruire le infrastrutture ,per costruire un welfare forte, perché tutto questo ci ritornerà in termini di sicurezza sociale, coesione sociale, relazioni fra industria e sindacato corrette e non di tensione, ecc.

In BiH siamo alla più rigida politica monetarista e di inflazione zero, di parità tra moneta bosniaca e euro, questo non permette nessuna politica di deficit di bilancio. Allora siamo alla pura retorica ideologica, rispetto alla piccola media impresa, alla società civile, alla welfare comunity. Stojanov, economista bosniaco, è proprio questo che fa notare: "voi paesi occidentali e soprattutto europei vi siete costruiti su questo modello, perché non lo applicate a noi?

Non dimenticare la storia
Un’ultima cosa: io vedo che quando noi ci troviamo a parlare di queste cose, oltre a parlare sempre di questioni legate ai diritti umani, all’assetto territoriale, alle etnie, parliamo poco o quasi nulla, di quella che è stata la storia della Jugoslava. Non possiamo prescinderne. Non possiamo dire che il socialismo in Jugoslavia è stato un buco nero, per quasi cinquanta anni e adesso concentriamoci sulla ricostruzione, transizione, ecc. Perché, prima di tutto, non è stato un buco nero, nel senso che la Jugoslavia ha vissuto di grandi intellettuali, di grandi correnti politico filosofiche e di un dibattito, all’interno della lega dei comunisti che è stato straordinariamente fecondo, rispetto alla struttura dello stato, ai problemi del socialismo e via dicendo.

Pensiamo in questo senso anche alla visione che si ha delle guerre da noi vissute i prima persona. Su tutti i nostri libri di storia c’è scritto che vi erano delle cause economiche, politiche, sociali e così via. Perché noi non dobbiamo utilizzare questa chiave di lettura anche con la storia non occidentale, tanto più di Paesi vicini a noi che condividono la stessa cultura, gli stessi riferimenti, gli stessi valori?

Si può parlare di transizione?
Concludo dicendo che per questi motivi la nozione di transizione non mi convince. Se ritengo che la guerra e l’instabilità diffusa del dopo guerra siano alcuni degli strumenti per creare un sistema politico sociale alternativo, con una sua razionalità, non posso parlare di transizione. La Bosnia Erzegovina è un Paese dove non si produce niente, ma bene o male, si sopravvive. Si vive di economie sporche, illegali. La nozione di transizione deve essere tolta dal nostro vocabolario quando ragioniamo di questi Paesi ed in particolare della Bosnia Erzegovina.

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