La Bosnia da Karadžić a Ashdown
La recente crisi in Kosovo impone una riflessione sull’andamento del processo di pace nella intera regione. In Bosnia si avvicina il secondo anniversario del mandato dell’Alto Rappresentante Ashdown. Uno sguardo sullo stato delle cose nel Paese.
Pochi giorni dopo il riacutizzarsi della crisi nel Kosovo, l’ennesimo fallito raid della Nato in Bosnia Erzegovina alla ricerca di Radovan Karadzic – con il grave ferimento del pope di Pale e del figlio – ha portato ad un innalzamento del livello di tensione nel Paese. Le istituzioni della Republika Srpska – una delle due Entità che compongono la Bosnia insieme alla Federazione – sono poste sotto pressione da parte della comunità internazionale, mentre l’HDZ (Unione Democratica Croata) bosniaco ufficializza la propria volontà di dissolvere la Federacija BiH, la seconda Entità del Paese.
L’Alto Rappresentante internazionale in Bosnia Erzegovina, il britannico Paddy Ashdown, ha recentemente presentato il proprio rapporto periodico di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Una relazione che si sforza di essere ottimista, ma dalla quale emerge il fallimento dell’approccio pragmatico, basato sul dialogo con i nazionalisti e sulla enfasi posta sulle riforme, che ha caratterizzato i primi anni (a breve il secondo anniversario) del suo mandato.
Non è Pristina, è Sarajevo. Anche qui tuttavia, otto anni dopo la fine della guerra, la strategia della comunità internazionale sembra mancare di una prospettiva chiara. Soprattutto, non è chiaro fino a quando gli internazionali resteranno in Bosnia Erzegovina, e quando il Paese diventerà normale. In realtà, non è ancora chiaro nemmeno quale sarebbe la normalità, per la Bosnia Erzegovina. E in questa lunga transizione, ogni scossone fa paura.
Operazione Karadzic
"Non lo abbiamo trovato", ha dichiarato il primo aprile a Sarajevo Dave Sullivan, il portavoce della Sfor (Stabilization Force), la forza a guida Nato presente nel Paese con funzioni di mantenimento della pace.
La notte precedente, un commando di circa 40 militari, americani e britannici, aveva circondato la chiesa ortodossa e la vicina canonica nel centro di Pale, 16 km da Sarajevo. L’operazione avrebbe dovuto portare alla cattura di Radovan Karadzic, ex leader politico dei Serbo Bosniaci, ricercato dal Tribunale dell’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità. Nessuna traccia del superlatitante, ma nel corso dell’azione sono stati gravemente feriti il pope di Pale, Jeremija Stavrovlah, e il figlio Aleksandar. I due, feriti dalla esplosione utilizzata per abbattere la porta della canonica, sono ricoverati nell’ospedale di Tuzla, dove tutt’ora versano in gravi condizioni. La Nato ha ammesso che la quantità di esplosivo utilizzata era eccessiva. La violenta onda d’urto avrebbe raggiunto il primo piano dell’edificio.
La Chiesa serbo ortodossa della Bosnia ha reagito con durezza al fallito blitz, definendolo "atto criminale", accusando la Nato di terrorismo e minacciando di interrompere ogni collaborazione con le istituzioni bosniache ed internazionali: "Si tratta di terrorismo, ed è ancora più grave perché è stato commesso da coloro che si presentano come i principali oppositori del terrorismo. L’obiettivo non era quello di catturare presunti criminali di guerra, ma di attaccare l’anima del popolo serbo, cioè la sua Chiesa" – ha dichiarato l’Arcivescovado di Bosnia della Chiesa serbo ortodossa al termine di una riunione cui ha partecipato anche una delegazione del Santo Sinodo della Chiesa serba ortodossa di Belgrado.
Il governo della Republika Srpska (RS) ha accusato la Sfor di aver "oltrepassato i limiti del proprio mandato". Nel pomeriggio di giovedì, centinaia di persone hanno manifestato a Pale contro l’azione della Sfor. Una ventina di manifestanti portavano immagini di Karadzic.
Il membro serbo della Presidenza collegiale bosniaca, Borislav Paravac, ha criticato l’accaduto stigmatizzando la violenza nei confronti del religioso e della sua famiglia. Dragan Cavic, presidente della Republika Srpska, ha affermato che secondo i medici i due sarebbero stati picchiati con oggetti contundenti nel corso della operazione, circostanza negata dalla Sfor che ha invece dichiarato di aver immediatamente soccorso i feriti.
La Presidenza collegiale bosniaca ha chiesto un rapporto sui fatti di Pale al Ministero della Sicurezza, in collaborazione con Sfor e missione di polizia della Unione Europea (Eupm).
Quanto avvenuto a Pale è stato largamente commentato non solo dai media della RS, ma anche da quelli serbi. Alcuni giornali, particolarmente attenti alle posizioni serbe, hanno accolto la versione del pestaggio. Il belgradese Vecernje Novosti, nella edizione del 6 aprile, ha titolato ‘Sono stati brutalmente picchiati’. Così anche Nacional, quotidiano di Balgrado, che nello stesso giorno ha titolato sulla vicenda: ‘I crimini di sadici malati’.
Il religioso ferito, Jeremija Stavrovlah, era noto per dichiarazioni vicine all’ex leader dei Serbi di Bosnia. In una intervista, rilasciata il mese scorso ad un giornale montenegrino, aveva dichiarato che "è dovere di ogni Serbo difendere Karadzic."
Ancora Pale?
Una fonte del Tribunale Internazionale dell’Aja, citata dai giornalisti dell’Institute for War and Peace Reporting (IWPR) Nerma Jelacic e Hugh Griffiths, ha fortemente criticato la strategia utilizzata dalla Sfor, e in particolare il valore delle informazioni raccolte dalla intelligence: "Nessuno crede che Karadzic sia a Pale. Perché dovrebbe essere lì, quando la Sfor vi ha condotto almeno un raid al mese dall’inizio dell’anno?".
Recentemente, la comunità internazionale sembrava aver avviato una nuova strategia per catturare Karadzic: colpire la sua rete di protezione. In gennaio, la Sfor aveva arrestato due ex guardie del corpo del leader serbo bosniaco, Dusan "Bato" Tesic e Zeljko "Luna" Jankovic. In febbraio erano state emesse – sia dagli Usa che dalla UE – liste di proscrizione nei confronti di persone considerate vicine al latitante, erano stati bloccati conti correnti e destituiti uomini politici della RS, tra i quali il vice presidente del Partito Democratico Serbo (SDS), Mirko Sarovic.
I recenti fatti, tuttavia, sembrano suggerire che la Sfor abbia ripreso a colpire luoghi simbolici (in particolare Pale, ex roccaforte dei Serbo Bosniaci) o perlomeno che ci siano opinioni diverse sulle strategie da adottare. Anche la strada avviata in febbraio, per il momento, non ha prodotto risultati di rilievo. Le due ex guardie del corpo arrestate, Tesic e Jankovic, sono state rilasciate senza accuse.
Il fattore tempo
Il tempo a disposizione sta per scadere. Entro la fine dell’anno, la Nato passerà le proprie consegne in Bosnia Erzegovina ad una forza dell’Unione Europea, la cui composizione sarà verosimilmente ridotta rispetto ai militari internazionali oggi presenti nel Paese (circa 12.000 uomini). Andarsene, con il ricercato numero 1 ancora in libertà, contribuirebbe a gettare una ombra di fallimento sulla intera missione.
Anche il Tribunale Internazionale dell’Aja (TPI) ha una data di scadenza, stabilita nell’agosto scorso: il 2010. In una intervista per «Le Courrier des Balkans» (J. Arnault Dérens, 21.01.04), la Procuratrice capo del Tribunale, Carla Del Ponte, precisa i termini della questione: "Dobbiamo aver terminato le nostre inchieste e avviato tutte le imputazioni entro la fine del 2004. Secondo la Risoluzione 1503 del Consiglio di Sicurezza, i processi di primo grado devono essere terminati entro il 2008, e le procedure di appello entro il 2010. Detto questo, va da sé che non possiamo mettere un termine ai lavori del Tribunale prima di aver arrestato Karadzic, Mladic e il generale croato Gotovina…"
Nonostante la posizione della Procura, è indubbio che il fattore tempo inizi a giocare un ruolo sempre più importante anche nei casi dei tre super latitanti, e che in particolare nel caso Karadzic la prossima dipartita delle truppe Nato dalla Bosnia rappresenti un ulteriore elemento, stante la indisponibilità sinora dimostrata dalle autorità locali (la Republika Srpska) nel consegnare i ricercati.
Carla Del Ponte si è recata matredì a Sarajevo, proprio per discutere con i dirigenti bosniaci della mancata collaborazione della Republika Srpska con il Tribunale. Nel corso della visita la procuratrice ha incontrato anche il comandante della Sfor, il generale americano Virgil Packett.
Alcuni osservatori si sono spinti ad immaginare una agenda "politica", che determinerebbe i tempi della cattura di Karadzic: in tempo per le prossime elezioni americane o, addirittura, prima del summit Nato a Istanbul del giugno prossimo, così da facilitare la accessione della Bosnia Erzegovina al programma di Partnership per la Pace. Ma si entra nel dominio delle speculazioni…
Lo scenario, però, è complicato. Secondo James Lyon, direttore dell’International Crisis Group per Bosnia, Serbia e Montenegro: "Il motivo per cui la Sfor non riesce a catturare Karadzic è che non dispone di adeguati servizi di intelligence; in secondo luogo, mancano nei Balcani il tipo e la quantità di truppe specializzate che servirebbero per tali operazioni; in terzo luogo, manca la volontà politica ai livelli più alti." (citato in "Neanche vicino: il raid contro Karadzic", IWPR, 02.04.04)
Il terzo fattore citato da Lyon è il più interessante. Il primo piano per la cattura di Karadzic risale all’estate del 1997, ma la causa del suo fallimento si conoscerà solo nel 2002 quando un ufficiale francese, Herve’ Gourmelon, viene accusato di aver avvertito il ricercato. A vuoto anche tutti i tentativi successivi. Dopo il raid condotto a Pale nel gennaio di quest’anno da truppe americane, britanniche e italiane, la moglie di Karadzic, Lijliana, ha dichiarato che nel 1996 c’era stato un patto con gli Americani: ”Mio marito si e’ ritirato dalla vita pubblica su insistenza di Richard Holbrooke – ha detto – c’era un gentlemen’s agreement, il suo ritiro in cambio dell’impegno che non lo avrebbero perseguito." (cit. in Ansa Balcani, 01.04.04)
Se la volontà politica della comunità internazionale, "ai livelli più alti", non è chiara, otto anni dopo la fine della guerra è difficile dire quale sia il grado di sostegno di cui Karadzic continui a godere tra i Serbi di Bosnia. Dopo ogni fallita operazione ci sono manifestazioni di protesta, come l’altro giorno a Pale. Dopo il raid di gennaio, avvenuto sempre a Pale, sui muri della RS erano apparsi molti manifesti con la faccia del latitante e la scritta "Siamo sempre con te." Questi episodi, tuttavia, così come i gadgets e le magliette con le immagini di Karadzic e Mladic che si possono trovare a Banja Luka così come sulla Knez Mihailova a Belgrado, sono forse più indicativi dello stato d’animo della stretta cerchia dei supporters che non della maggioranza della popolazione. Quello che è certo è che il partito fondato da Karadzic, il Partito Democratico Serbo (SDS), continua a godere del favore della maggioranza degli elettori, e che le autorità della RS non sembrano prendere in seria considerazione le minacce di una comunità internazionale frustrata per la scarsa collaborazione con il TPI.
Pressioni sulla Republika Srpska
L’Ambasciatore americano per i crimini di guerra, Richard Prosper, ha minacciato il mese scorso la RS di sanzioni politiche ed economiche se i suoi dirigenti non assumeranno le proprie responsabilità sulla questione dei ricercati.
All’interno della RS, e dello stesso SDS, diverse correnti sembrano affrontarsi. Dopo le dimissioni di Mirko Sarovic dal collegio di presidenza bosniaco in seguito allo scandalo Orao (armi all’Iraq) e alle accuse di spionaggio da parte dei servizi serbo bosniaci nei confronti delle istituzioni internazionali (Aprile 2003), la carica vacante era stata assunta da un altro esponente dell’SDS, Borislav Paravac.
Ex sindaco di Doboj durante la guerra, considerato un nazionalista "della vecchia scuola" e secondo alcuni addirittura sulla lista del Tribunale dell’Aja, ha reagito fuori dal coro al recente ferimento del pope e di suo figlio nel corso del raid di Pale. Paravac ha infatti indicato nel ministero dell’Interno della RS il principale responsabile dell’accaduto: "Se avessero fatto il loro dovere, arrestare i ricercati, questo non sarebbe accaduto – ha dichiarato Paravac (Ansa Balcani, 02.04.04)."
Verso una messa al bando dell’SDS?
Sabato scorso, Paddy Ashdown ha ordinato il congelamento degli aiuti finanziari accordati all’SDS. Lo sblocco dei fondi, ha dichiarato Ashdown in un comunicato, avverrà quando le autorità avranno dato prove convincenti di collaborazione con il Tribunale dell’Aja.
Ashdown ha poi chiesto al presidente del partito, Dragan Kalinic, di fornirgli entro la data del 19 aprile un rapporto sulle attività finanziarie dell’SDS: "Dragan Kalinic è il Presidente dell’SDS, e quindi la persona responsabile di garantire che sia stato interrotto ogni legame tra il partito e le persone accusate di crimini di guerra. E’ stato sostenuto che l’SDS stia ancora finanziando e sostenendo alcuni indiziati, io mi auguro che il signor Kalinic mi convinca del contrario – ha detto Ashdown."
Il 5 aprile, l’Alto Rappresentante era a Banja Luka. Alla domanda se avesse intenzione di mettere al bando l’SDS, Ashdown ha risposto: "La mia azione negli ultimi due giorni è stata volta a dare una possibilità ai membri dell’SDS, piuttosto che a mettere al bando il partito", aggiungendo che la palla era ora nel campo dell’SDS, e che restava da vedere come il partito avrebbe risposto. (Fena, 05.04.04)
Il presidente del Partito Socialdemocratico Indipendente della RS (SNSD), Milorad Dodik, ha una opinione diversa dello scontro in atto tra SDS e comunità internazionale. Secondo Dodik, la decisione dell’Alto Rappresentante di bloccare i conti correnti dell’SDS avrà come unico effetto quello di far giocare a questo partito il ruolo della vittima. "Se questa misura fosse portata nei nostri confronti non potremmo più lavorare, ma per l’SDS non vuol dire niente, perché i loro soldi non sono su quei conti. Credo che ci sia un accordo tra l’SDS e Ashdown, per la soluzione di questa questione." (BHTV, 05.04.04)
"Serbo", Repubblica "Serba"
Il 26 marzo scorso, la Corte Costituzionale bosniaca ha ordinato alle autorità serbo bosniache di cambiare il nome di tutte le città cui è stato apposto il prefisso "srpski" (Association Sarajevo, 31.03.04). La decisione si riferisce a 13 città della RS, ribattezzate nel corso della guerra 1992-1995. "La Costituzione della BiH garantisce eguali diritti per tutti i gruppi etnici, la Corte ha valutato che questi nomi avevano un carattere discriminatorio nei confronti della popolazione non serba – ha dichiarato in conferenza stampa il presidente della Corte, Mato Tadic." L’Assemblea della RS ha tre mesi di tempo per rinominare le città o restituire loro i nomi che avevano prima della guerra. Le città in questione sono Srpsko Sarajevo, Srpska Derventa, Srpski Mostar, Srpski Sanski Most, Srpsko Gorazde, Srbinje, Srpski Kljuc, Srpska Kostajnica, Srpski Brod, Srpska Ilidza, Srpsko Novo Sarajevo, Srpski Stari Grad e Srpsko Orasje.
La maggioranza dei deputati della RS (Nezavisne Novine, 02.04.04) si è invece risolutamente opposta, con dichiarazione adottata il 31 marzo scorso, alla iniziativa di legge – portata avanti da Sulejman Tihic, presidente dell’SDA (Partito dell’Azione Democratica, Bosniaco Musulmano), e da Haris Silajdzic, fondatore del Partito per la Bosnia Erzegovina (Stranka za BiH) – che contesta il fondamento costituzionale del nome di "Republika Srpska". Dragan Kalinic, presidente del Parlamento della RS (e presidente dell’SDS), ha dichiarato che questa iniziativa rimette in discussione la stessa esistenza della BiH, aggiungendo che "i Serbi non minacceranno nessuno in Bosnia Erzegovina fino a quando non saranno loro stessi minacciati."
I commenti più arguti sulla vicenda, che ha attraversato velocemente la stampa bosniaca, sono stati quelli di due deputati socialdemocratici della RS. Dimitrije Ivanic, del Partito Socialdemocratico Indipendente (SNSD), ha dichiarato che l’SDS e l’SDA si mantengono al potere secondo il sistema dei vasi comunicanti. Slobodan Popovic, altro rappresentante socialdemocratico, ha affermato invece che SDS, SDA e HDZ (Unione Democratica Croata) si mantengono al potere vicendevolmente grazie alle loro iniziative sugli "interessi nazionali minacciati."
Croatian Airlines, da Zagabria a Scheveningen
Martedì, all’aeroporto internazionale di Amsterdam, insieme agli altri passeggeri del volo di linea proveniente da Zagabria c’erano 6 Croato Bosniaci, diretti all’Aja. La polizia olandese li ha presi in custodia e fatti proseguire per la unità detentiva di Scheveningen, il centro di detenzione del Tribunale Internazionale per la ex Jugoslavia. Si tratta di Jadranko Prlic, Bruno Stojic, Milivoj Petkovic, Slobodan Praljak, Valentin Coric e Berislav Pusic. Sono accusati di crimini contro l’umanità, violazioni delle leggi e delle usanze di guerra, persecuzioni, stupri, torture di Musulmani Bosniaci, della creazione di campi di concentramento e dei massacri avvenuti nei villaggi di Ahmici e Stupni Dol. Il generale Praljak è ritenuto responsabile della distruzione dello Stari Most, il Vecchio Ponte di Mostar, abbattuto da reparti dell’esercito croato bosniaco nel 1993.
Il personaggio di più alto profilo tra i sei è Jadranko Prlic, ex Ministro degli Esteri della BiH nel dopoguerra e ex premier della "Herceg Bosna", la Repubblica proclamata dai Croati in Bosnia nel 1992. Insieme a loro, il Tribunale dell’Aja ha messo in stato d’accusa la politica portata avanti in quegli anni da Zagabria. Nelle carte del Tribunale, dopo la "Grande Serbia", si comincia infatti oggi a parlare anche della "Grande Croazia". L’accusa ai sei – oltre ai fatti specifici – è quella di aver condotto insieme al defunto presidente croato Tudjman e al suo Ministro della Difesa, Gojko Susak, un piano criminale il cui obiettivo era quello di pulire etnicamente la Erzegovina per poi annetterla al territorio croato e dare vita così ad una "Grande Croazia".
La partenza dei 6, peraltro, arriva in un momento particolare per i Croati di Bosnia. L’HDZ bosniaco (Association Sarajevo, 30.03.04) ha infatti depositato ufficialmente un progetto di legge chiedendo lo scioglimento della Federacija BiH e il trasferimento delle sue competenze ai Cantoni e allo Stato. La decisione, presa nel gennaio di quest’anno, è stata confermata il 24 marzo scorso. Federalismo convinto, nel solco della discussione sulla necessità di un superamento di Dayton (ESI: "Permettere al federalismo di funzionare", gennaio ’04), o ritorno alla (grande) Croazia?
Secondo un commento del sarajevese Oslobodjenje, la iniziativa si iscrive più semplicemente nella logica separatista dell’HDZ, coerentemente con la campagna contro la unificazione di Mostar e la riforma dell’educazione portata avanti dall’Alto Rappresentante.
Ashdown, due anni da Alto Rappresentante
Ricorre tra breve il secondo anniversario del mandato del politico britannico Paddy Ashdown, subentrato all’austriaco Wolfgang Petritsch nel maggio 2002 nella carica di Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina.
Nell’ottobre di quello stesso anno, dopo le elezioni vinte dai tre partiti monoetnici HDZ, SDA e SDS, stupì tutti dichiarando che non si era trattato di un voto nazionalista, ma di una richiesta di velocizzare il processo di riforma nel Paese (Financial Times, 11.10.02). Il suo approccio definito "pragmatico" nei confronti dei nazionalisti, col tempo, gli ha alienato il favore della stampa liberale e dei partiti moderati (v. "Ashdown celebra l’anniversario in solitudine", di Mirsad Bajtarevic e Nerma Jelacic, IWPR 02.04.04)
Una delle sue frasi più citate è la seguente: "Quello di cui ha bisogno la Bosnia Erzegovina non è la politica, ma le riforme, e in particolare le riforme economiche. Ogni mattina, ogni Ministro in ogni governo di questo Paese dovrebbe rivolgersi la seguente domanda: cosa posso fare io oggi per fare in modo che la Bosnia Erzegovina diventi un posto migliore per il business?" Di fronte ai parlamentari bosniaci ha affermato: "Più voi porterete avanti le riforme, meno dovrò farlo io. Meno voi riformerete, più dovrò farlo io." (cit. in "I travagli di una raja imperiale", ESI, 2003).
Nonostante il lavoro della Commissione Buldozzer, creata da Ashdown per coordinare gli sforzi di politici e imprenditori ed avviare riforme economiche, la notizia più recente in questo campo (Transitions On Line, 02.04.04) è che la Volkswagen Sarajevo minaccia di trasferire i propri impianti fuori dal Paese per la incertezza del quadro amministrativo bosniaco, in particolare per i problemi causati da leggi doganali contraddittorie.
Nel discorso del 3 marzo, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Ashdown ha in certa misura cambiato prospettiva sui politici locali attaccando le pratiche di "vittimismo competitivo che offrono, specialmente ai partiti nazionalisti, la opportunità migliore per fare il pieno di voti."
Il discorso di Ashdown ribadisce quale obiettivo principale della azione dell’Alto Rappresentante la piena sovranità della BiH e la sua adesione alla UE. I successi ricordati sono la unificazione delle forze armate, la imposizione di un sistema nazionale di tassazione indiretta (con il trasferimento delle competenze in questa materia dalle Entità allo Stato); la collaborazione del governo della RS con la Camera per i Diritti dell’Uomo della BiH su Srebrenica (versamento di indennizzi e trasferimento di informazioni sugli scomparsi e la ubicazione delle fosse comuni). Per quanto riguarda il processo di ritorno, dopo aver ricordato che alla fine del 2003 è stato chiuso il tavolo cosiddetto "Reconstruction Return Task Force", e le sua competenze trasferite alle istituzioni locali, e che entro il 2004 si prevede la fine del processo di restituzione delle proprietà, l’Alto Rappresentante sottolinea che circa un milione di persone sono tornate nelle proprie case (poco meno della metà di tutti i rifugiati e sfollati bosniaci). Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
Mostar
Il 15 Marzo Ashdown ha proclamato ufficialmente la unificazione amministrativa di Mostar. La unificazione è avvenuta sulla base del nuovo statuto della città, imposto lo scorso gennaio dall’Alto Rappresentante, che prevede la abrogazione dei sei comuni della città (tre a maggioranza croata e tre a maggioranza bosgnacca), che resteranno solo delle circoscrizioni elettorali. La città avrà quindi un unico sindaco, un budget e una amministrazione unificata. Il nuovo ordinamento entrerà pienamente in vigore dopo le elezioni locali del prossimo 2 ottobre. Nel consiglio comunale siederanno 15 Bosgnacchi, 15 Croati e 4 Serbi.
I Croati non sono molto soddisfatti della soluzione imposta dagli internazionali. Mostar, che oggi conta circa 110.000 abitanti e che fino al 1998 è stata amministrata dalla Unione Europea, ha subito un drammatico cambiamento nella composizione della propria popolazione. Prima della guerra, in un contesto fortemente mescolato e multietnico, coloro che si dichiaravano Musulmani erano il 35%, i Croati il 33%. Oggi invece i Croati sono diventati maggioranza (circa il 60%) e allo stesso tempo sostenitori di un unico collegio elettorale, lamentando che la nuova definizione amministrativa (basata sulle sei circoscrizioni) consegnerà loro solo il 42% del potere.
Mostar resta luogo simbolo e punto di osservazione privilegiato per capire la evoluzione della situazione in Bosnia Erzegovina. In luglio verrà (infine) inaugurato lo Stari Most, il Vecchio Ponte, monumento simbolo dell’incontro tra Oriente e Occidente distrutto dall’esercito croato nel corso della recente guerra. Per quella occasione, tutta la diaspora mostarina, quelli che non potendo o non volendosi schierare hanno scelto la via dell’esilio, dalla Scandinavia agli Stati Uniti, dall’Australia all’Italia, si sono dati appuntamento a Mostar. Per qualche giorno, forse la città ritornerà davvero una.
Anche l’aeroporto internazionale di Mostar dovrebbe essere pronto per l’occasione. Il 22 marzo scorso (Sfor, 25.03.04) la Sfor ha infatti trasferito alle autorità bosniache la gestione del traffico aereo della cittadina. Dopo Banja Luka, Tuzla e Sarajevo, Mostar è dunque l’ultimo dei 4 aeroporti bosniaci a passare sotto il controllo delle autorità locali, dopo un lungo periodo di gestione Sfor. Dopo il tragico incidente che ha causato la morte del presidente macedone Trajkovski e del suo equipaggio, speriamo che sia di buon auspicio.
Vedi anche:
Crisi in Kosovo: le conseguenze in Bosnia Erzegovina
La Bosnia nella lotta globale al terrorismo
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