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L’89 senza l’Europa: il contagio democratico nel mondo arabo

Si possono tracciare dei parallelismi tra gli straordinari eventi che in queste settimane stanno coinvolgendo molti Paesi del mondo arabo e il 1989 nell’Est Europa? La questione è aperta al dibattito ma certo rappresenta un’occasione per pensare al Mediterraneo che abbiamo in comune. Un commento

17/02/2011, Luisa Chiodi -

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“L’89 arabo”, “Cade il muro del Maghreb” sono solo due dei tanti titoli di giornale che in questi giorni hanno tracciato un parallelismo mediaticamente efficace tra l’89 dell’Europa dell’est e il 2011 arabo. Analogie ce ne sono, come è ovvio che ci siano alcune differenze significative e che dalla comparazione tra le due esperienze possano emergere alcuni spunti interessanti.

L’aspirazione alla democrazia ed il contagio democratico tra paesi è l’elemento più importante che accomuna il 1989 ed il 2011 e che rende appassionante il ragionamento se si considera quanti commentatori occidentali da decenni scrivono del presunto impossibile binomio tra Islam e democrazia. Guardando a due secoli di storia dei Balcani e della Turchia, si nota come il problema sia stato posto più volte e in relazione con il nodo dell’identità europea di queste regioni. Ora che per l’ennesima volta i pregiudizi culturalisti sono stati sbugiardati c’è da augurarsi che questa sterile discussione si chiuda definitivamente.

In secondo luogo, come nell’89 europeo, anche in nord Africa si è trattato di proteste pacifiche. Tenuto conto che il mondo islamico in Occidente è presentato per lo più in relazione a terrorismo e violenza politica, è utile sottolineare che anche nel 2011 la violenza è stata quella del regime contestato e che al contrario nelle piazze siano prevalse scelte pratiche e slogan non violenti. Si potrebbe anche aggiungere un confronto tra Mohamed Bouazizi e Jan Palach ma andremmo più indietro nel tempo. Per guardare a tempi più recenti, invece, si noti che in Egitto il movimento egiziano "6 aprile" ha avuto contatti con gli attivisti serbi del movimento Otpor e ne ha adottato il simbolo del pugno chiuso.

Terzo, il termine rivoluzione anche questa volta è associato ad un fenomeno che non ha obiettivi propriamente rivoluzionari in termini politologici. Le piazze arabe hanno fatto richieste di democrazia ovvero di riforma politica e non di un radicale cambiamento del sistema politico, economico o culturale. Nei dibattiti sull’89 venne introdotto il termine riFoluzioni per indicare che si trattava di un mix tra rivoluzioni e riforme visto che intendevano introdurre la democrazia liberale e non certo provare con un nuovo grande esperimento politico alternativo a quello comunista. Oggi anche il mondo arabo non sembra incline a riproporre una qualche rivoluzione islamica come quella frequentemente evocata dai media dell’Iran del ’79.

Quarto, il rapporto tra religione e pratica politica. A chi ricorda le proteste operaie di Solidarność negli anni ‘80 non sarà sfuggita l’analogia con piazza Tahrir. In Polonia, nei cantieri navali di Danzica si celebravano messe, si pregava, si sventolavano immagini della Madonna Nera e via discorrendo. Anche in Germania est le chiese protestanti erano il luogo di organizzazione e rifugio di buona parte del movimento democratico. In Romania fu attorno alla chiesa del pastore ungherese László Tőkés che presero il via le proteste contro il regime di Ceauşescu.

Quinto, la globalizzazione di oggi può essere messa a confronto con l’apertura alla competizione economica con l’Occidente che i sistemi socialisti affrontarono e persero a partire dagli anni ’70. Inoltre in relazione alle difficoltà economiche, come per l’89, dalle piazze del nord Africa esplode la protesta contro i privilegi e la corruzione delle classi dirigenti, la gerontocrazia ed il disagio giovanile.  

Da ultimo, c’è da ragionare sui mezzi di comunicazione. La radio e la televisione erano stati fondamentali per il contagio democratico tra i paesi dell’est. Oggi non va trascurato l’impatto di un canale televisivo internazionale come Al Jazeera nello stimolare il diffondersi della protesta da un paese all’altro.

Ma proprio qui si potrebbe identificare un primo importante elemento di differenza. Oggi dal punto di vista tecnologico la partecipazione democratica può beneficiare di molti più strumenti di comunicazione con cui superare la censura dei regimi autoritari e diffondere il proprio messaggio nell’opinione pubblica. Il cambiamento prodotto dal web 2.0 e dall’integrazione con telefoni cellulari, radio e tv va studiato bene per capire come l’orizzontalità e la velocità delle comunicazioni stiano trasformando i movimenti sociali.

Un’altra importante differenza riguarda le relazioni internazionali. In Europa uno degli ostacoli da superare era rappresentato dall’URSS e le proteste che sfociarono nella caduta del muro di Berlino guardavano ad Occidente. Il cosiddetto "ritorno in Europa" era un’idea fondamentale dei dissidenti dell’est ed il percorso di integrazione europea, pur tardivo nella sua definizione, era lo sbocco naturale per una parte importante dei paesi post-comunisti.

Il mondo arabo invece ha fatto propria l’idea di democrazia, libertà, diritti umani – su cui l’Europa rivendica la paternità – ma non ha aspettative verso l’Occidente. Al contrario. Le opinioni pubbliche dei paesi arabi hanno molto chiaro lo strabismo occidentale per cui si mette in dubbio la capacità di sviluppare una cultura democratica nel mondo islamico mentre si continuano a sostenere regimi autoritari della regione. Preoccupati solo dei propri interessi geopolitici – in tema di forniture energetiche, migrazioni e terrorismo – i paesi dell’Ue hanno fatto poco e spesso male alla causa democratica del nord Africa e del Medio oriente.

Nel 2011 anche di fronte alle decine di morti, il coraggio dei manifestanti in Tunisia ed Egitto non ha generato il caloroso sostegno europeo del 1989. Al contrario si sono visti freddezza, cautela, imbarazzo nelle cancellerie e spesso anche sui media. In pochi hanno espresso sostegno nelle piazze d’Europa dove i concittadini di origini arabe si riunivano per mostrare solidarietà ai dimostranti al di là del mare. Dopo tanta islamofobia non dovrebbe sorprendere questa reazione dell’opinione pubblica occidentale, ma si tratta senza dubbio di una grande occasione persa per pensare al Mediterraneo che abbiamo in comune.

Se si guarda al sostegno internazionale, dunque, le opportunità per l’est Europa sono state sempre decisamente migliori. Da una prospettiva come la nostra, il confronto tra le esperienze dell’89 e del 2011 potrebbe evidenziare soprattutto l’inadeguatezza di buona parte delle classi dirigenti dei Balcani rispetto alle promesse di emancipazione democratica di venti anni fa. Per scoraggiarsi basterebbe guardare all’Albania di queste settimane, bloccata alle condizioni degli anni ’90 in quanto a qualità della propria democrazia, nonostante la porta dell’Ue le si stia schiudendo davanti.

Ma, l’abbiamo ribadito spesso, le sfide della transizione post-comunista sono state imponenti con la simultanea trasformazione economica, politica e culturale dopo i regimi socialisti, e forse maggiori di quelle che attendono oggi il mondo arabo. Ma soprattutto, il 2011 arabo ci stimola a continuare a lavorare perché la democrazia resti l’orizzonte politico di tutti.

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