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Kosovo: una lettera ai guerrieri dell’acqua

Dalle montagne del Kosovo ai deserti della Giordania, la lotta per l’acqua è la stessa. Un commento del documentarista Pavel Borecký

26/08/2021, Pavel Borecký -

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(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 il 13 agosto 2021)

L’acqua anima le relazioni. Che si muova attraverso il paesaggio o si trovi sotto terra, si tratta di uno spazio condiviso mobile che può causare violente dispute o offrire l’opportunità di costruire una pace visionaria. Nel XXI secolo, la protezione dell’acqua e la diplomazia ambientale saranno le basi di qualsiasi politica sana, orientata ai dati e sensibile ai cambiamenti climatici. In sostanza, c’è una politica socialmente e ambientalmente consapevole o non c’è politica, o, piuttosto, solo brutale necropolitica.

Fino a che punto le lotte per l’acqua condotte dai cittadini nei villaggi di Biti o Štrpce in Kosovo e nei villaggi beduini in Giordania sono sintomatiche di un fallimento dello stato nazionale e dell’imminente rovina della vita rurale? Dove sbagliano le amministrazioni nell’adattarsi e nel ridurre i cambiamenti climatici? E cosa possono fare i film documentari al riguardo?

È dal 2016 che sono impegnato in un dottorato di ricerca sull’antropologia della gestione dell’acqua per il quale analizzo la scarsità d’acqua e il ruolo delle infrastrutture nel “consegnare stabilità” in condizioni sempre più volatili. Ho finito per lavorare in Giordania, che, nonostante sia un paese desertico, ha alcune sorprendenti somiglianze con il Kosovo in termini di problemi di gestione dell’acqua.

Oro blu, sperpero e rapina

Una cosa è diventata chiara fin dall’inizio: i cittadini di questo regime semi-autoritario vivono sotto la minaccia di un’intensificata securizzazione del discorso sull’acqua. Poiché qui lo stato intende “provvedere ai propri sottoposti”, le persone dovrebbero lasciare che i governanti di stampo patriarcale facciano il loro lavoro. In altre parole, l’acqua deve scorrere. Se necessario, devono adottare soluzioni tecnologiche radicali per evitare tensioni socio-politiche.

Il Regno giordano ha completato il Disi Water Conveyance nel 2014, un sistema di trasporto d’acqua che collega i confini meridionali del paese con il nord urbanizzato in rapida crescita. Sapendo che è improbabile che il governo fermi l’eccessiva estrazione di acqua dalle falde acquifere settentrionali (a causa di pratiche agricole scorrette, furti d’acqua su larga scala e relazioni tribali), il progetto ha richiesto molto tempo. 

Dal momento che quasi 1,4 milioni di siriani trovano rifugio vicino ai loro parenti nei territori settentrionali, la più grande impresa infrastrutturale nella storia moderna del paese alla fine allinea i bisogni fondamentali e i valori umanitari della solidarietà panaraba. 

Giù a sud nel deserto del Wadi Rum, lontano dalle città sovraffollate, le falde acquifere nascoste sotto le basse montagne rocciose di arenaria salvano la situazione. Il problema è che questa "acqua Disi" è una risorsa fossile non rinnovabile, un profetico "oro blu", una delle falde acquifere più preziose della regione, che ha però una durata di vita limitata. 

Sfortunatamente, la piena consapevolezza di questa “operazione mineraria” ha raggiunto la popolazione locale solo ora, quando la loro preziosa fonte di sostentamento è già minacciata di lenta scomparsa.

Uccidere un fiume

Questa storia drammatica, prologo per il mio film documentario, suona forse familiare? Preparandomi per il mio viaggio di agosto al DokuFest di Prizren, dove veniva proiettato il mio documentario “Living Water”, mi stavo interrogando sul contesto balcanico e ho deciso di informarmi sulla situazione dell’acqua in Kosovo e nell’intera regione.

Esaminando il caso dei corsi d’acqua delle montagne Sharr e alla costruzione di piccole centrali idroelettriche, sono rimasto commosso dalla perseveranza della popolazione di Biti e Štrpce: mi hanno ricordato le scene delle dure manifestazioni per i diritti sull’acqua in Giordania ritratte nel mio documentario.

Proteggendo i loro diritti garantiti a livello internazionale all’acqua sicura e protetta, questi cittadini stanno lottando per qualcosa di molto più grande della prosperità individuale. Stanno combattendo per l’integrità ecologica del parco nazionale e per i principi del buon governo orientato alla comunità.

Transizione all’energia verde?

A giudicare dalle mie limitate conoscenze, l’origine di tutti i problemi sembrano essere una definizione imprecisa di rinnovabilità, scarsa pianificazione strategica e ancor più scarsa esecuzione sul campo senza supervisione. Il filo conduttore sembra essere un deliberato disprezzo per i costi sociali e ambientali dello sviluppo di piccole centrali idroelettriche.

Il paradosso del problema delle montagne Sharr è la motivazione iniziale data a questi progetti: il passaggio da fonti di energia non rinnovabili dannose per l’ambiente all’"energia verde". Il Trattato della Comunità Europea dell’Energia impegnava il Kosovo a produrre il 25% dell’energia consumata dai suoi cittadini da fonti rinnovabili, tra cui idroelettrico, eolico, solare o biomasse, entro il 2020.

Ma perché un paese estremamente povero d’acqua dovrebbe decidere di risolvere quest’equazione utilizzando l’energia idroelettrica, che, oltre a tutto, dipende dai cicli della pioggia e dallo scioglimento della neve? Inoltre, perché la maggior parte dei 77 siti di potenziale costruzione si trova in aree di particolare pregio naturalistico? Perché il ministero dell’Ambiente non ha consultato il Parco Nazionale delle montagne Sharr, i cui fiumi dovrebbero alimentare molte di quelle presunte idrocentrali piccole, verdi e belle?

Segui i soldi, dice un vecchio proverbio. Come giustamente rilevano alcune inchieste, è proprio la promozione molto sistemica della rapida “transizione verde” dell’UE e del conseguente reddito garantito agli operatori privati ​​che può essere così seducente. Acceca i funzionari governativi e, alla fine, porta alla privatizzazione segreta degli impianti.

È questo il motivo per cui i cittadini locali non sono stati adeguatamente consultati su questioni che riguardano il loro futuro? Successivamente è stata istituita una commissione governativa speciale per indagare sui progetti. Tuttavia, il piano generale non è stato interrotto. Viaggerò quindi al festival con un unico pensiero in mente: si garantirà giustizia ambientale e sociale?

La lezione dell’antropologia delle infrastrutture

A chi saranno distribuite le risorse e da chi saranno prese? Quali saranno i beni pubblici e quali i beni privati, e a giovamento di chi? Quali comunità dovranno lottare per le infrastrutture necessarie alla riproduzione fisica e sociale? Queste sono alcune delle domande pressanti di “The Promise of Infrastructure”, l’influente libro su austerità e vulnerabilità di Nikhil Anand, Akhil Gupta e Hannah Appel.

Se c’è qualcosa che desidero evidenziare, è la comprensione che l’infrastruttura non è uno spazio neutrale. Invece, prendendo in prestito dal sopracitato libro: "Le infrastrutture sono luoghi critici attraverso i quali si formano, si riformano e si realizzano socialità, governance e politica, accumulazione e espropriazione, istituzioni e aspirazioni". 

Mostrare come le infrastrutture materiali, comprese strade e condutture, linee elettriche e fognature e simili, vengono utilizzate come terreno per la riproduzione del potere, può portare a una profonda esposizione del razzismo quotidiano, del colonialismo e della disuguaglianza.

Riportando tutto nel concreto, quando vediamo Stanko ed Elizabeta in piedi vicino a un fiume Lepenc svuotato, o Ali e Hussein inginocchiati nelle sabbie rossastre sopra la falda acquifera di Disi, viene da chiedersi: lo stato nazionale sta rinunciando silenziosamente a queste comunità? Sta accadendo per cattiva gestione, o per "progettazione di abbandono infrastrutturale sancito dallo stato", come ha affermato Ruth Gilmore nel suo "Golden gulag", riferendosi alla politica carceraria californiana? 

Ci sono fin troppi esempi nella storia in cui gli stati democratici hanno esercitato il loro biopotere e reso certe vite meno preziose di altre. Sfortunatamente, a meno che i maggiori inquinatori non cambino marcia, è probabile che sia l’Europa meridionale che il Medio Oriente diventeranno più secchi e più caldi nei prossimi anni e decenni. 

Il dispiegarsi di eventi meteorologici estremi creerà una pressione ancora maggiore sugli stati affinché sacrifichino i valori dei diritti umani e della deliberazione democratica per motivi di convenienza. Le storie di persone che vivono alla frontiera dell’accelerazione dei cambiamenti possono sprofondare letteralmente in una situazione drammatica da un giorno all’altro. Questo è il motivo per cui oggi deve diventare centrale l’attenzione alla politica dell’acqua, alla diplomazia ambientale e ai nuovi tipi di narrazione su queste questioni.

Che sia tra le montagne del Kosovo o nel deserto giordano, una semplice conduttura implica l’interazione di forze culturali, sociali, tecnologiche ed economiche. Senza dubbio, questi casi sono complessi e non è sempre facile identificare cosa si sarebbe dovuto fare meglio o come aggiustare i piani ora. Una cosa però è chiara. Anche se costruiamo per motivazioni tutte giuste, soluzioni parziali che si basano su numeri sbagliati e implementate da attori sbagliati possono facilmente distruggere proprio quello che avrebbero dovuto rafforzare: la resilienza socio-ambientale.

Solo con professionisti istruiti, impegnati e moralmente forti, con una solida pianificazione integrata (dal basso verso l’alto che incontri quella dall’alto verso il basso) e con i media in sintonia con l’ambiente, sarà possibile evitare scontri improduttivi e continuare lo sviluppo economico nel modo più sostenibile.

 

Pavel Borecký (Praga, 1986) è un antropologo sociale ed etnografo audiovisivo. Vincitore della borsa di studio Swiss Excellence, è attualmente dottorando presso l’Università di Berna. Nella sua pratica comunitaria, Pavel gestisce l’organizzazione di ricerca Anthropictures, cura il programma cinematografico EthnoKino e co-organizza l’European Applied Anthropology Network. I film di Pavel “Solaris” (2015) e “In the Devil’s Garden” (2018) si sono concentrati sulla cultura del consumo in Estonia e sulla questione della decolonizzazione nella Repubblica Democratica Araba Saharawi. “Living Water” (2020) è il suo primo lungometraggio documentario.

Traduzione a cura di Elena Mollichella

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