Kosovo: un cielo di satelliti
Una visita a “The City is Everywhere”, il Padiglione Kosovo alla biennale di Venezia: libertà e repressione, istituzioni parallele degli anni ’90 e regime dei visti oggi, il tutto sotto una cupola di antenne paraboliche
(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 il 25 maggio 2018)
In mezzo ad altri tre mondi costruiti da Indonesia, Libano e Irlanda, il padiglione della Repubblica del Kosovo ha aperto le porte nella Sedicesima edizione della Biennale Architettura di Venezia, dopo essere stato assente durante l’edizione del 2016. Circondata da un vasto numero di magnati kosovari, Eliza Hoxha, curatrice del padiglione del Kosovo. “The City is Everywhere”, ha introdotto la comunità di architettura globale alla storia parallela del Kosovo degli anni ’90.
Come qualsiasi altra storia di parallelismi, all’interno di questo padiglione sono state create diverse dimensioni, determinate ad affrontare anche il tema individuato quest’anno dalla Biennale: freespace. Dall’esterno, il padiglione del Kosovo è circondato da un muro di mattoni rossi che arriva sino ai soffitti della sede dell’Arsenale, una reminiscenza tesa a ricreare la facciata esterna dei molti edifici non terminati del Kosovo.
Durante gli anni ’90, molte case private acquisivano nuove funzioni, soprattutto per via dei tentativi di Slobodan Milošević di escludere l’etnia albanese dalla vita pubblica, impedendo loro di fare parte di istituzioni pubbliche come scuole e ospedali, e istituendo un clima di repressione. Questo ha spinto la maggioranza degli albanesi al di fuori dello spazio pubblico delle città ed a rinchiudersi nella sicurezza delle proprie case.
All’interno del padiglione ha inizio un racconto di libertà psicologica ma anche di blocco fisico. Le pareti interne del padiglione kosovaro giocano con la mente dei visitatori: l’immagine di ogni spettatore viene replicata dozzine di volte dagli specchi che ricoprono i muri interni dal pavimento al soffitto. Da una parte viene data la sensazione di una moltitudine all’interno dello spazio, di una folla tipica delle città, mentre dall’altra parte, la sensazione è che lo spazio sia illimitato e che non abbia fine.
Sopra alla testa del visitatore, 72 antenne paraboliche creano un soffitto ad ombrello. Un simbolo della vita in Kosovo durante gli anni ’90, le parabole ricordano a chiunque abbia vissuto in Kosovo in questo periodo, le due ore di notizie albanesi che radunavano vicini e parenti davanti alla TV, ricordano l’importanza di MTV e, forse più che altrove, il valore delle informazioni. Un punto di partenza per i cittadini per capire quello che accadeva anche al di fuori delle loro case, e un punto di fuga per connettersi a quello che succedeva nel resto del mondo.
La squadra che ha progettato il padiglione avrebbe voluto prendere direttamente dai cittadini kosovari le antenne paraboliche, ma non è stato possibile perché non ne sono state donate abbastanza. Sono state dunque installate antenne nuove di zecca, ognuna con riportato il nome di chi ha regalato un’antenna. I membri del team che si è occupato del progetto raccontano che i satelliti raccolti fino ad ora sono stati conservati per un possibile futuro progetto dedicato alla memoria collettiva.
Sul pavimento, il padiglione presenta un unico elemento centrale, un tappeto tradizionale del “Parallel Prishtina” tessuto da una donna della regione di Has. Il tappeto, che rappresenta una mappa di Pristina, rappresenta in nero le strade e gli uffici delle istituzioni pubbliche da cui gli albanesi sono stati espulsi. In rosso sono invece rappresentati i punti in cui le lezioni universitarie sono state smistate in case private per continuare a tenerle. Il contrasto di colori dimostra la separazione della città presente all’epoca. Al centro un mare di nero, mentre nelle zone attorno ai quartieri suburbani come Ulpiana e Arberia, moltissimi puntini rossi.
Spazi di memoria collettiva
Per il primo rappresentante del Kosovo alla Biennale Architettura del 2012, il premiato architetto Perparim Rama, il padiglione si collega al suo subconscio lasciando un forte impatto. “Questi eterni e continui spazi e le antenne paraboliche appese sopra di me, in qualche modo mi riportano agli anni ’90 e alla mia infanzia”, dice Rama, che ha passato due anni in Kosovo negli ultimi dieci anni. “E’ stato molto simile a quello che ho provato all’interno del padiglione kosovaro.”
Per l’architetto ormai trasferitosi a Londra, il tema del padiglione è molto significativo. “Rappresenta una storia molto recente, in cui gli albanesi in Kosovo vennero letteralmente imprigionati, in cui erano liberi solo in privato: si verificava una specie di condizione paradossale”. In questa condizione, dice Rama, “nel momento in cui gli albanesi uscivano fuori di casa, non erano più al sicuro e lo spazio esterno rappresentava la prigione”.
Trucchi mentali a parte, il padiglione riporta al presente un pezzo di storia che è rimasto fino ad ora molto poco discusso, poco documentato e negato dalle istituzioni e da buona parte della società. Il padiglione del Kosovo, si è concentrato sulle dimensioni parallele presenti complessivamente all’interno delle città, usando le case come una metafora con uno speciale riflettore sul sistema parallelo dell’educazione.
Nel settembre del 1991, dopo avere già rimosso molti insegnanti albanesi-kosovari dalle loro posizioni e aver imposto curricula serbi, il sistema educativo in Kosovo venne interamente precluso per gli albanesi-kosovari. Come ha riportato K2.0 nel suo giornale “’90s”, si stima 21.000 insegnanti abbiano perso il lavoro mentre a 400.000 studenti, delle scuole elementari, dei licei e delle università, è stato negato il diritto all’educazione pubblica.
Al di là del progetto fisico a Venezia, “The City is Everywhere” include anche altri lavori complementari che hanno lo scopo di aumentare ulteriormente l’impatto del padiglione all’interno di questo prestigioso evento. Come parte del progetto, verrà creato un libro che offre testi basati sulle esperienze di diversi cittadini del Kosovo. Il libro includerà i risultati della ricerca tesa a mappare le case private e gli spazi privati che hanno ospitato le classi universitarie nel territorio di Pristina.
Tra i ricercatori coinvolti vi è stato anche Ardita Byci, urban planner e professore alla Facoltà di Ingegneria Civile e Architettura di Pristina. Lei stessa, durante i suoi primi tre anni di università, ha frequentato le lezioni di questo sistema educativo parallelo e privato.
Byci si ricorda bene come, nonostante si studiasse in case private, i professori fossero determinati a portare avanti la normalità dell’università. “Quando un amico è arrivato in ritardo il giorno della presentazione di un progetto perché era stato fermato dalla polizia lungo la strada, il professore decise di non ammetterlo, nonostante le circostanze fossero più che precarie”, racconta con un po’ di nostalgia. “E’ solo un esempio di come i professori si impegnassero e di come volessero continuare a tenere lezioni normalmente, per mantenere lo stesso livello che si sarebbe ottenuto in una scuola”.
Per Byci, che ha contribuito alla ricerca per il padiglione e ha fornito diversi testi per il libro di accompagnamento, l’università offre una connessione che nessun altro posto è in grado di offrire. “Durante gli anni ’70, dopo che l’università è stata creata, è diventata un forte ponte e motore della vita dinamica tra gli spazi residenziali e quelli pubblici”, ha spiegato.
Si riferisce in particolare al Campus dell’Università di Pristina che a differenza di molti altri campus nel mondo, si trova nel centro della città. “Quando l’università venne chiusa negli anni ’90, venne bloccato anche un motore di cultura, educazione e vita sociale”. Nonostante la pausa, Byci crede che la luce portata da questo singolo motore sia stato trasformato in una molteplicità di motori diffusi in tutta la città. Ha menzionato anche la teoria del famoso teorico del design contemporaneo Christopher Alexander, che ha sostenuto che le università nelle città, invece che nei campus isolati, sono molto più arricchenti”. “Lo stavamo facendo da sempre…” ha detto Byci, un po’ scherzando un po’ seriamente.
Libertà psicologica, un sostituto per il visto
La curatrice del padiglione, Eliza Hoxha, ha tenuto un discorso d’inaugurazione davanti ai molti funzionari pubblici kosovari presenti, tra cui il ministro degli Affari Esteri, Behgjet Pacolli; il ministro della pianificazione territoriale e dell’ambiente, Albena Reshitaj; il ministro della Cultura, Kujtim Gashi; il presidente dell’Assemblea del Kosovo, Kadri Veseli e altri rappresentanti come l’ambasciatrice del Kosovo in Italia, Alma Lama, e il commissario del padiglione stesso, Jehona Shyti.
Veseli ha colto l’occasione per dichiarare che “il Kosovo non rimarrà isolato, il Kosovo non ha più bisogno delle antenne paraboliche, e ci aspettiamo che da dicembre avremo la liberalizzazione dei visti.” Comunque, l’autorizzazione del Parlamento europeo non è ancora arrivata e non è ancora stata prevista dall’Unione Europea una data precisa per la liberalizzazione dei visti dei cittadini kosovari.
L’isolamento causato dalla liberalizzazione dei visti è una questione a cui la curatrice del progetto ha voluto prestare attenzione nel suo lavoro. Parlando a K2.0 prima di lasciare Venezia, Hoxha ha detto: “In Kosovo oggi sei libero sotto molti punti di vista, ma non puoi muoverti.”
Nel suo discorso di presentazione a Venezia, Hoxha si è concentrata sui molti ruoli riconosciuti ai cittadini del Kosovo durante gli anni ’90 e sulla necessità di una discussione pubblica. “Se non fosse stato per queste scuole, io oggi non sarei qui”, ha detto Hoxha rivolgendosi ai funzionari pubblici riuniti di fronte a lei, ai collaboratori de progetto del padiglione, alla comunità di architetti arrivati dal Kosovo e presenti all’evento, e a tutti i curiosi visitatori. “E’ stato difficile collezionare tutte queste storie che non sono mai state raccontate, e questo è un momento cruciale per parlare di questa questione. E’ ora di parlare di queste storie, e di affrontarle 20 anni dopo.”
Parlando più tardi a K2.0, Hoxha ha inoltre evidenziato che adesso è ora di mettere in atto un governo di azione. “Durante gli anni ’90 abbiamo fatto tutto da soli, non avevamo nemmeno un governo. Adesso è tempo che il governo riconosca gli anni ’90 e sostenga questa storia perché venga raccontata agli altri”.
Per Hoxha, la Biennale, così come Cannes e altre piattaforme culturali, sono importanti per la società kosovara, ma ha anche tenuto ad evidenziare il fatto di essere stata la prima kosovara tuttora residente in Kosovo, ad aver mai rappresentato il paese in una piattaforma così ampia. “Tutti coloro che si sono esibiti in passato alla Biennale, sono kosovari che vivono all’estero, e questo è certamente positivo perché assicura che il loro lavoro avrà successo, perché loro hanno avuto successo”, ha detto nominando Petrit Halilaj, Flaka Haliti, Perparim Rama, Gezim Paçarizi, Sislej Xhafa. “Questa è la prima volta che a qualcuno che vive ancora in Kosovo è stata data questa opportunità. Loro sono tutti kosovari che hanno contribuito alla storia del Kosovo, ma ora dobbiamo dare opportunità a persone che hanno deciso di vivere in Kosovo e che non hanno alcuna opportunità all’estero. Questa per gli altri è una porta aperta”.
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