Kosovo, terra di scambio
Il Kosovo oggi, tra lo stallo dei negoziati, lobbying diplomatico e il rischio che divenga per Washington una pedina di scambio nella partita delle relazioni con Mosca
Per ogni fatto c’è un antefatto e prima di entrambi c’è sempre una storia in cui contestualizzare gli avvenimenti. Della tragedia di Srebrenica si è detto e scritto molto e, giustamente, molto, forse moltissimo si dirà e si scriverà ancora.
Chi pensava, però, che la sentenza della Corte di Giustizia Internazionale del 2007 e quelle successive del Tribunale Penale Internazionale sui Crimini di Guerra nella ex-Jugoslavia avessero definitivamente fatto luce su ciò che successe nella cittadina bosniaca in quei drammatici giorni di inizio luglio del 1995 con la conseguente attribuzione di colpe e responsabilità si è sbagliato.
C’è ancora qualcuno che nega i fatti rifiutando categoricamente e cocciutamente di riconoscere un atto di genocidio, il primo dopo la Seconda guerra mondiale, destinato a macchiare irrimediabilmente e indelebilmente la storia moderna del vecchio continente.
Per larga parte dell’opinione pubblica serba quello di Srebrenica fu solo uno dei tanti massacri perpetrati da entrambe le parti durante il conflitto in Bosnia Erzegovina dal 1992 al 1995, un crimine di guerra commesso da serbi analogo a quelli commessi anche dai bosgnacchi. Un conto, però, è se tale affermazione è fatta da un ultra-nazionalista serbo, e non sono pochi, che rivendica nella sua delirante retorica l’eccezionalità del suo popolo circondato nella regione da malvagi gruppi etnici da cui è costretto a difendersi, un altro è se questa narrativa è sposata e ripresa da chi si trova ai vertici dello stato.
“Quello di Srebrenica fu un crimine terribile ma non un genocidio”, le dichiarazioni della premier serba Ana Brnabić, rilasciate nel novembre scorso durante un’intervista ad un’emittente tedesca, hanno gelato il sangue nelle vene di chi a Bruxelles si felicitava per il progresso compiuto dalla Serbia negli ultimi anni nel suo cammino di avvicinamento all’Unione europea.
Robert Schuman e Karl Adenauer a nome di Francia e Germania agli inizi degli anni Cinquanta seppero dire “mai più” alla guerra che aveva ridotto in macerie il vecchio continente partendo da una visione comune della storia sulla quale costruire un progetto di cooperazione sovranazionale che fece da battistrada alla Comunità economica europea.
Le parole incaute di Ana Brnabić hanno, ovviamente, provocato una scia di polemiche sia nei Balcani che nei paesi dell’Unione. Molti hanno cominciato a chiedersi se sia possibile condividere un progetto di pace, integrazione e sovranità in comune senza una condivisione della lettura dei fatti che hanno preceduto e segnato questo percorso.
La negazione di un genocidio non è un dettaglio di poco conto, è un macigno che sgretola la fiducia e mina profondamente la credibilità dell’interlocutore. L’eco delle affermazioni del primo ministro serbo non poteva non arrivare anche in Parlamento europeo. Confesso di essere stato profondamente turbato da quelle parole a tal punto da condensare il mio sconcerto in un emendamento che ho suggerito all’eurodeputato sloveno Igor Soltes prima del voto sulla relazione annuale sul progresso della Serbia verso l’Unione europea.
“Il Parlamento europeo si rammarica della negazione reiterata del genocidio di Srebrenica da parte di alcune autorità serbe; ricorda loro che la piena cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale sui Crimini di Guerra nella ex Jugoslavia implica anche la piena accettazione e il rispetto delle sue decisioni; sottolinea che il riconoscimento del genocidio di Srebrenica rappresenta un passo fondamentale nel cammino della Serbia verso l’adesione all’Ue”, recitava il testo depositato da Soltes presso i servizi dell’eurocamera.
Nel giro di poche ore la notizia è diventata virale sui media di Belgrado con i politici locali in primo piano a condannare e respingere al mittente, a loro dire, il tentativo di sbarrare la porta all’ingresso della Serbia nelle istituzioni europee per mezzo di una ulteriore condizione capestro. Sulla graticola veniva messo Igor Soltes, ex cittadino jugoslavo che ha l’aggravante di essere anche il nipote di Edvard Kardelj, l’economista di Tito che concepì il sistema di auto-gestione.
Missione in Kosovo
È consuetudine per le delegazioni della Commissione esteri dell’eurocamera rendere visita sia a Belgrado che a Pristina quando si recano nella regione. Serbia e Kosovo sono impegnati dal 2013 in un complicato processo di normalizzazione delle relazioni mediato dall’Alta Rappresentante della politica estera e sicurezza comune dell’Unione europea Federica Mogherini. Anche il Parlamento europeo si è posto in posizione di equidistanza. Arrivare in una capitale ignorando l’altra potrebbe essere interpretato come uno sgarbo da quella esclusa. Gli eurodeputati sono formalmente obbligati a rispettare il programma ufficiale spostandosi assieme fra i due paesi.
Anch’io, quindi, avrei dovuto giungere prima a Belgrado per poi accompagnare Igor Soltes a Pristina con tutto il gruppo. Soltes, però, in Serbia non si è fatto vedere. Qualche giorno prima l’avevo incontrato a Bruxelles nel suo ufficio dove mi aveva confessato le sue perplessità sull’opportunità di partecipare alla tappa di Belgrado. Fonti ufficiose gli avevano confidenzialmente fatto sapere che nella capitale della ex Jugoslavia non tirava un’aria buona nei suoi confronti dopo l’emendamento su Srebrenica presentato in parlamento qualche mese prima di cui sono, in parte, responsabile. Meglio soprassedere, quindi, alla prima parte del viaggio adducendo cause di forza maggiore per concentrarsi sulla seconda in Kosovo dove l’eurodeputato sloveno è di casa visto che nell’assemblea di Strasburgo per questo paese ricopre l’incarico di relatore.
Rushdi mi aspetta puntuale, come sempre, in aeroporto all’uscita degli arrivi. Ho deciso di adeguarmi alla scelta di Soltes rinunciando alla trasferta di Belgrado per volare direttamente a Pristina. Mi accompagna alla macchina facendosi strada nella ressa. Ci conosciamo ormai da quindici anni, da quando era appena tornato da Londra. Rimpiange ancora la permanenza britannica. Fare il tassista in Kosovo non è come farlo nella capitale inglese che lui considerava come una seconda casa. Una volta scaduto il permesso di soggiorno, però, ha dovuto rientrare, suo malgrado, in patria. "In Kosovo non c’è futuro", mi dice, "chi può se ne va e chi poteva l’ha già fatto".
Ogni volta che vengo a Pristina nel breve tragitto che separa lo scalo dalla città grazie alle parole Rushdi ho immediatamente il polso della situazione. Frustrazione, sfiducia e rassegnazione serpeggiano ormai da tempo nell’opinione pubblica. Chi è al governo è incapace di sbloccare una situazione ormai cronicizzata. Il Kosovo rimane impantanato in un limbo diplomatico di cui solo in parte è responsabile. E per qualcuno non è che una pedina da muovere sullo scacchiere della geopolitica mondiale in una partita a tutto campo ancora tutta da giocare. A pagarne le conseguenze sono soprattutto i cittadini kosovari rinchiusi senza scampo in un angolo remoto dei Balcani da cui non riescono e non possono uscire.
Scambio di territori
Dall’estate scorsa a dominare l’agenda dei colloqui fra Belgrado e Pristina è stata l’ipotesi di uno scambio di territori fra la Serbia e il Kosovo che dovrebbe sigillare un accordo globale fra le parti con il definitivo riconoscimento reciproco dei confini. La proposta ha suscitato inevitabilmente un vespaio di polemiche. A farla filtrare sono stati il presidente serbo Aleksandar Vučić con il pari grado kosovaro Hashim Thaçi che conducono in prima persona il dialogo.
Mentre Vučić, però, ha potuto esprimersi in tutta libertà dimostrando un controllo quasi tentacolare della situazione interna Thaçi, subissato in patria da una crescente ondata di critiche, sulla questione ha dovuto fare, in parte, retromarcia parlando solo genericamente di correzione di confini. Il presidente kosovaro si aspettava, naturalmente, la reazione veemente dell’opposizione ma non quella degli alleati di governo giunta come un fulmine a ciel sereno.
Più in particolare a smuovere le acque provocando un vero tsunami politico è stata l’imprevedibile presa di posizione del primo ministro Ramush Haradinaj che fin dagli inizi ha condannato l’operazione. I territori che dovrebbero essere scambiati, secondo le indicazioni emerse, sono Mitrovica Nord, l’area in Kosovo a nord del fiume Ibar, con la valle di Preševo che oggi fa parte della Serbia. Mitrovica Nord è popolata per la stragrande maggioranza da serbi, Preševo per la stragrande maggioranza da albanesi.
È del tutto evidente che ci si trova di fronte ad un tentativo di ridisegnare le linee di demarcazione fra due stati sulla base della loro composizione etnica. Pensare, però, che tale decisione non abbia un impatto sul resto della regione è pura fantascienza. Chi ha un minimo di conoscenza della storia recente dei Balcani non ha dimenticato e non può dimenticare le vicende che negli anni Novanta portarono alla disintegrazione della Jugoslavia cui fece seguito il dramma del conflitto in Bosnia.
Centinaia di migliaia di persone innocenti furono immolate al mito della razza, interi territori furono spazzati da feroci operazioni di pulizia etnica con un doloroso strascico di sfollati e rifugiati. L’Unione europea assistette inerme, inetta e imbelle ai tragici avvenimenti che si stavano consumando alle porte di casa. Il risultato finale fu un fragile accordo di pace o, meglio, di cessate-il-fuoco negoziato a Dayton, negli Stati uniti, nel dicembre del 1995 sui cumuli di macerie in cui era stata ridotta l’area balcanica.
Ricordo gli sforzi immani in quegli anni dei pacifisti del vecchio continente per ricostruire la fiducia fra le parti ricucendo il dialogo soprattutto fra i brandelli di società civile sopravvissuti alla catastrofe con l’obiettivo di mantenere la natura multietnica, multireligiosa e multiculturale dei nuovi stati subentrati alla Jugoslavia.
Si pensava che quella pagina di storia fosse stata voltata, quei giorni bui sufficientemente illuminati e rischiarati a futura memoria perché non si ripetessero mai più. Ma la memoria, come le bugie, purtroppo, ha le gambe corte. La diplomazia internazionale ha reagito in modo contraddittorio all’iniziativa di Vučić e Thaçi. Spiace, però, che a cadere nella trappola sia stato il vertice di quella europea con Federica Mogherini in testa a difendere l’eventuale accordo di scambio di terra se i colloqui fra Belgrado a Pristina fossero andati a buon fine.
Dietro le quinte, intanto, Usa e Russia non hanno mai fatto mistero di appoggiare un’operazione che può servire come precedente per altri teatri di crisi. Ci ha pensato, per una volta, la Germania a riportare le parti sul terreno della realtà investendo, finalmente, tutto il suo peso politico nella questione. Modificare i confini fra Serbia e Kosovo, è il messaggio univoco e diretto proveniente da Berlino, significa aprire il vaso di Pandora scatenando un effetto domino destinato a scuotere di nuovo tutta la regione dei Balcani occidentali.
Le spinte secessioniste della componente serba non cessano di minare le fondamenta della fragile impalcatura che regge le strutture dello stato in Bosnia Erzegovina così come in Macedonia del Nord, nonostante l’accordo di Prespa del giugno del 2018, le tensioni interetniche non si sono mai sopite. Se andasse in porto l’accordo fra Vučić e Thaçi l’inevitabile conseguenza sarebbe la riconfigurazione dell’intera regione secondo linee etniche con la spartizione del territorio e la costituzione della Grande Serbia, della Grande Croazia e della Grande Albania.
Paradossalmente a prevalere sarebbero alla fine le élites ultra-nazionaliste che hanno sempre sostenuto questo progetto. A farne le spese, ovviamente, rimarrebbero le minoranze, le comunità multietniche di confine e tutti coloro che si battono contro gli stati fondati sull’omogeneità di razza, cultura e religione.
L’Unione europea nasce come risposta al nazionalismo che aveva distrutto il vecchio continente. Sostenere e appoggiare chi vuole riportare indietro le lancette della storia significa tradire i valori su cui è nata.
Diplomazia
Sono 116 i paesi che secondo il ministero degli Esteri di Pristina sulla carta riconoscono il Kosovo. Dopo la prima ondata di riconoscimenti che ha fatto immediatamente seguito alla dichiarazione di indipendenza del febbraio del 2008 contrariamente alle aspettative il flusso si è inesorabilmente ridotto fino ad interrompersi quasi completamente.
In realtà il numero dei paesi che ha stabilito relazioni diplomatiche con Pristina è oggetto di controversia. Da un paio di anni il ministro degli Esteri serbo Ivica Dačić, infatti, ha intrapreso una campagna aggressiva mirante a convincere le capitali che l’hanno fatto a revocare il riconoscimento creando un caso per quanto riguarda il diritto internazionale. "È possibile disconoscere un paese dopo averlo riconosciuto?" è la domanda che si sono posti esimi giuristi ed esperti di legge.
Dačić, però, continua a litigare pubblicamente con il ministro degli Esteri kosovaro Behgjet Pacolli rivendicando la revoca di almeno tredici paesi. Pacolli, dal canto suo, ribatte che si tratta di fake news sostenendo, anzi, che nuovi paesi stanno per aggiungersi a quelli che hanno già riconosciuto Pristina. Paradossale, ad esempio, è il caso della Guinea Bissau e della Liberia che dopo avere stabilito relazioni ufficiali con il Kosovo hanno, poi, annullato l’atto per ripristinarlo pochi giorni dopo con un incomprensibile tira e molla diplomatico.
L’azione di Belgrado di delegittimazione di Pristina, peraltro, non si ferma a questo. Il Kosovo, infatti, sta faticosamente cercando di entrare a far parte degli organismi di cooperazione e delle istituzioni internazionali rivendicando il suo posto nella comunità mondiale. È riuscito nell’impresa, per esempio, con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale e, per quanto riguarda il mondo dello sport, a diventare membro a pieno titolo del Comitato Olimpico Internazionale, della Fifa e dell’Uefa. Ultimamente, però, la sua domanda non ha avuto buon esito con l’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di scienza, educazione e cultura, e l’Interpol, l’organizzazione internazionale di cooperazione fra i corpi di polizia, suscitando un profondo disappunto nell’opinione pubblica.
All’insuccesso della diplomazia kosovara si è contrapposto il successo di quella serba. Dačić, infatti, sulla stampa nazionale e internazionale non ha perso l’occasione di vantarsi dell’efficacia della sua azione di lobbying che sta intralciando in tutte le sedi l’ex provincia di Belgrado. Ovvio, quindi, che il governo di Pristina non restasse con le mani in mano. L’ha fatto, prima, in modo composto sottolineando che in base agli accordi del 2013 la Serbia si era impegnata a non ostacolare il Kosovo nel suo percorso di inclusione nella comunità internazionale e, poi, in modo scomposto e grossolano imponendo per ritorsione dazi del 100% su tutte le merci di provenienza serba.
A nulla sono valsi gli sforzi successivi e le pressioni della diplomazia europea per appianare i contrasti fra Belgrado e Pristina. Da allora il dialogo fra le parti è sospeso.
Indipendenza, visti e Unione europea
"Meglio nessun accordo che un cattivo accordo", continua a ripetere in tutte le sedi Vjosa Osmani deputata di opposizione nell’assemblea kosovara a proposito dei negoziati interrotti con la Serbia. "Ho sempre creduto nel dialogo", prosegue durante l’incontro che si tiene in parlamento, "ma non sono disposta a rimettere sul tavolo lo status del mio paese", sottolinea rimarcando come l’indipendenza del Kosovo è un dato acquisito che non può essere ribaltato.
Vjosa, come molti suoi concittadini, non riesce e, forse, non prova nemmeno a contenere la delusione per quelli che ritiene siano i tanti torti subiti, compreso lo smacco della mancata concessione della liberalizzazione dei visti da parte dell’Unione europea. "Le promesse vanno rispettate", fa presente e ha ragioni da vendere che, tuttavia, non smuovono i governi dei paesi membri preoccupati solo di un possibile aumento di irregolari nell’area Schengen.
Con una disoccupazione che viaggia sopra al 30%, è il ragionamento che prevale fra i ministri degli Esteri europei, c’è il concreto timore che senza ostacoli burocratici i kosovari che entrano nell’Ue non rientrino più in patria alla scadenza dei tre mesi previsti dal regime di esenzione del visto. Non considerano, però, che si tratterebbe comunque di un numero contenuto di persone e che molti kosovari hanno anche il passaporto dell’Albania o della Macedonia che consente loro da tempo di spostarsi liberamente in Europa.
Così il Kosovo rimane confinato in un ghetto, sprofondato in un buco nero, l’unico fra i paesi della regione a non godere di una libertà concessa a tutti gli altri cittadini della ex Jugoslavia già dal 2010.
Anche Ilir Deda, altro deputato di opposizione nonché vecchio amico, si trova sulla stessa lunghezza d’onda della collega Osmani. È lui il mio interlocutore privilegiato quando torno a Pristina; è lui che in poche parole sa fornirmi un’analisi lucida e approfondita della situazione politica del suo paese. "Il primo ministro Haradinaj", osserva, "si sente imbrogliato dall’Unione". "Ha fatto tutto quello che gli era stato richiesto ma non ha ottenuto nulla", mi racconta mentre sorseggiamo con calma un caffè nel bar di fianco all’hotel dove alloggio. "La frustrazione di Haradinaj", nota, "si riflette e pervade tutta l’opinione pubblica che condivide la decisione di imporre i dazi alle merci serbe nonostante l’insistente pressione diplomatica europea". "Il capo del governo vuole garanzie e gesti concreti da Bruxelles" mi dice, "non vuole farsi fregare un’altra volta".
E per quanto riguarda le relazioni con la Serbia Ilir è risoluto nella convinzione che Vučić non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo anche a costo di inscenare o scatenare un conflitto nella zona di Mitrovica Nord dove la popolazione di etnia serba, di fatto, segue ogni sua mossa. Così se il Kosovo continua a vivere in un limbo diplomatico a più di dieci anni dalla dichiarazione di indipendenza Mitrovica Nord continua ad essere fuori dal controllo di Pristina, una terra di nessuno nella terra di nessuno.
Dal giugno dello scorso anno Eulex ha cessato il suo mandato esecutivo. Lanciata nel 2008 nel quadro della politica estera e di sicurezza comune la missione europea aveva il compito di assistere le autorità del Kosovo nella fondazione e il consolidamento delle istituzioni giudiziarie. In pratica doveva svezzare il neonato stato accompagnandolo nel suo cammino verso l’ingresso a pieno titolo nella comunità internazionale una volta pronto.
Ingenti risorse sia in termini di personale che finanziarie sono state impiegate da Bruxelles in dieci anni per raggiungere l’obiettivo. A mano a mano che prendevano corpo e si consolidavano le strutture autonome del nuovo soggetto dovevano diminuire, secondo le intenzioni, le funzioni svolte direttamente dalla componente europea. Si è passati, così, da uno staff di 3000 membri agli attuali 500.
Fino al 2018 il Kosovo, di fatto, è stato commissariato dall’Unione europea che controllava i gangli vitali del settore della giustizia. Adesso la missione Eulex si limita a monitorare i casi giudiziari particolarmente sensibili e a fornire supporto tecnico al personale carcerario e a quello di polizia.
Indiscutibilmente il paese è cresciuto molto grazie all’assistenza europea. La sua situazione attuale non è dissimile da quella degli altri paesi della regione. Rispetto a questi, però, rimane un’entità incompleta, priva di tutte le prerogative che consentono ad un soggetto statuale di muoversi e agire liberamente sulla scena internazionale.
Da questo punto di vista l’Unione europea ha fallito l’obiettivo. D’altronde non si può prescindere dal fatto che essa rimane profondamente divisa al suo interno nell’atteggiamento da tenere. Cinque paesi membri, Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna per ragioni interne non hanno mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo e da quando è esplosa la crisi Catalana le autorità di Madrid sono state inflessibili nell’impedire qualsiasi ulteriore apertura europea che potesse anche solo assomigliare ad un riconoscimento indiretto di Pristina che continua, così, ad essere prigioniera di veti incrociati.
Sono sempre in imbarazzo quando qualcuno che arriva per la prima volta nella capitale kosovara mi chiede indicazioni sui luoghi più interessanti da visitare. Per tanto che mi sforzi non riesco ad individuare alcunché di rilievo che valga la pena di essere ricordato. Rispetto al volto che la città mostrava alla fine del conflitto con la Serbia indiscutibilmente molto è cambiato a Pristina ma non al punto da renderla attrattiva sotto l’aspetto turistico. Il monumento dedicato a Madre Teresa che si trova lungo il viale pedonale omonimo che ha rivoluzionato la circolazione del traffico si scorge appena in uno spiazzo a lato. Sembra quasi che la santa voglia passare inosservata, a testimonianza di una missione fondata sul servizio ai poveri che rifugge dalla mondanità.
Quando si apre la stagione e il clima si fa mite è piacevole passeggiare tra il flusso ininterrotto dei passanti e i tavolini degli innumerevoli bar all’aperto fino alla fine della strada dove si trova il Grand Hotel, l’unico posto dove si poteva alloggiare in città quando c’era ancora la Jugoslavia. D’inverno è sconsigliato sia per il freddo ma anche e soprattutto per l’aria davvero pesante che si respira a causa della centrale a lignite, il solo impianto di generazione elettrica del paese, che si trova a pochi chilometri di distanza.
"Il Kosovo non è una terra di nessuno ma uno stato sovrano che ambisce a fare parte della famiglia europea", afferma enfaticamente il primo ministro Ramush Haradinaj nell’incontro che si svolge nel suo ufficio. Nonostante il consueto bicchierino di rakija che dovrebbe essere ingurgitato con un sorso unico da tutti i partecipanti l’atmosfera è tesa.
"Siamo l’unico paese della regione in isolamento", sottolinea infuriato Haradinaj. Il primo ministro giustifica la decisione di imporre i dazi sulle merci serbe con tre ragioni; in primo luogo l’azione di Belgrado a tutto campo di delegittimazione internazionale del suo paese, in secondo luogo i reiterati tentativi del vicino di destabilizzare il paese, in terzo luogo gli ostacoli che la stessa Serbia pone alla circolazione delle merci in provenienza dal Kosovo.
"Il dialogo con Belgrado", conclude tranciante, "può riprendere solo se porta al riconoscimento formale reciproco di Serbia e Kosovo altrimenti non ha senso". "La linea fra franchezza e scortesia è stata abbondantemente calpestata", è il commento desolato di una eurodeputata britannica uscendo dall’ufficio. Il tono di Haradinaj suonava davvero come quello di colui che si sente tradito da chi l’aveva fino ad ora protetto e adesso non sa più a chi rivolgersi.
Tra Mosca e Washington
A dettare i tempi dell’indipendenza del Kosovo nel 2008 non fu certo l’Unione europea. I bombardamenti di Belgrado furono decisi da Bill Clinton attraverso la Nato ma il distacco definitivo dell’ex provincia dalla Serbia fu un parto dell’amministrazione repubblicana di George Bush. La diplomazia europea fu in parte complice di quella scelta ma non pochi su questa sponda dell’Atlantico dubitavano sull’opportunità e i modi di tale decisione. In ogni caso vi fu una sottovalutazione di fondo della reazione di Mosca alla mossa unilaterale di Pristina.
Ricordo a quell’epoca le discussioni all’europarlamento con i rappresentanti del gruppo di contatto dei paesi informalmente delegati a gestire la crisi del Kosovo dopo il cessate-il-fuoco concordato a Kumanovo nel 1999 che aveva messo fine alle ostilità. Negavano ogni potenziale dissenso interno, “anche la Russia è d’accordo”, sostenevano con troppa disinvoltura. Alla fine, però, risultò che Mosca non era affatto d’accordo e continua a tutt’oggi ad opporsi in tutte le sedi a qualsiasi forma di riconoscimento nonostante il parere consultivo della Corte di Giustizia dell’Aia che nel luglio del 2010 ha giudicato la dichiarazione unilaterale di Pristina conforme al diritto internazionale.
Cambiano i tempi e a Washington cambiano i presidenti, le amministrazioni e le rotte di politica estera e quella che era una creatura geopolitica americana diventa una pedina di scambio da giocare nella partita delle relazioni con Mosca.
Come uscire dall’attuale impasse fra Usa e Russia dopo l’annessione della Crimea e le conseguenti sanzioni? Per quanto tempo i paesi occidentali possono permettersi di rinunciare alla cooperazione con il Cremlino nella gestione delle crisi attuali?
Il Kosovo può rappresentare una via di uscita per normalizzare le relazioni. Basta cominciare in questo angolo d’Europa a ridisegnare i confini per continuare, poi, a est nello spazio post-sovietico punteggiato da conflitti congelati e riattizzati a fasi alterne sotto la regia russa. Non importa se questo processo farà ripiombare i Balcani in un nuovo vortice di instabilità dalle conseguenze imprevedibili.
Il vice primo ministro Enver Hoxhai che conosco da vecchia data prima di partire ci dice che non ha mai visto un’amministrazione americana così impegnata nella ricerca di una soluzione per il Kosovo. Bontà sua. La fiducia è cieca e la cecità, soprattutto in politica, gioca brutti scherzi.
editor's pick
latest video
news via inbox
Nulla turp dis cursus. Integer liberos euismod pretium faucibua