Kosovo: ritorni forzati
I governi occidentali spingono oramai per accelerare il ritorno a casa dei rifugiati del Kosovo. Ma questi ultimi hanno spesso perduto i legami con il loro Paese d’origine e non è prevista alcuna forma di accoglienza. E poi che dire dei ritorni forzati di persone che appartengono a comunità ancora vittime di persecuzioni come ad esempio quella dei Rom o degli Ashkali?
Di Marek A. Nowicki, Ombudsman per i diritti umani in Kosovo
Selezione e traduzione a cura di Le Courrier des Balkans ed Osservatorio sui Balcani
Numerosi sono coloro i quali sanno cosa significa vivere in un Paese straniero, incapaci di leggere la segnaletica stradale sulle strade, e dove le abitudini culturali sembrano bizzarre, in fondo al cuore la voglia intensa di rientrare a casa propria. Ma che pensare quando in questo contesto vi si dice che siete già a casa vostra?
E’ ciò che è capitato a molti ed è la sorte che spetterà a molti altri ancora.
Recentemente, sulla stampa, si è sottolineato che alcuni governi europei hanno iniziato a prendere accordi con l’UNMIK per il ritorno in Kosovo di sfortunati richiedenti asilo. Pratica che esiste già da tempo e che ci si attende venga amplificata in futuro quale conseguenza dei miglioramenti delle condizioni "sul terreno". Si va a dire a gente che è fuggita dal Kosovo e che in più casi ha trascorso una decina d’anni nel Paese d’adozione – lavorandovi, srtingendo relazioni, adottandone la lingua e la cultura, ed alcuni anche segendo un percorso d’istruzone – che non sono più i benvenuti e che è tempo che rientrino a casa loro, nel loro luogo d’origine.
Non solo però quest’ultimo risveglia in loro cattivi ricordi ma un gran numero di rifugiati, tra di loro naturalmente i bambini, non conoscono neppure questo loro "luogo d’origine" dove li si vuol far tornare forzatamente. Senza contare sul fatto che in numerosi casi le comunità che hanno abbandonato non esistono più! Infine il Kosovo che hanno lasciato negli anni scorsi non è più lo stesso.
Ma le autorità in carico di questa operazione lavorano forse seguendo l’ipotesi che questi rifugiati che hanno attualmente diritto ad un sussidio sociale mensile nel loro Paese d’accoglienza possano aspirare alla stessa cosa nel loro Paese natale? Dopotutto se siete un albanese o un ashkali del Kosovo che vive in Germania da quindici anni sapete naturalmente parlare albanese, qual’è il problema? Ma se eravate bambino quando avete cercato rifugio in Germania? E se siete cresciuti in un ambiente tedesco, educato in una scuola tedesca, anche se siete nati in Kosovo?
Un portavoce del governo dissertando in merito alla situazione dei ritorni forzati affermava che della vicenda vi è un aspetto positivo ed uno negativo. Quello positivo è che il ritorno significa che la situazione in Kosovo è migliorata. Quello negativo (a mio avviso più corrispondente alla realtà) è che chi rientra non riceverà alcuna assistenza. Arriveranno all’aeroporto di Pristina e dovranno cavarsela completamente da soli.
Come potranno trovare la loro strada nel Paese d’origine?
In Kosovo, dove la disoccupazione è rilevante ed il budget statale sprofondato in un drammatico deficit, è realista aspettarsi che chi rientra possa costruirsi prospettive di una vita decente? In più, se appartengono ad una minoranza, ad esempio Rom o Ashkali, come possono pensare di sopravvivere in un Paese natale dove la coabitazione tra vari gruppi etnici è ancora l’eccezione e non la regola?
Occorre essere coscienti che questa gente non ritorna veramente a casa propria, perché il Kosovo non è più da lungo tempo il loro Paese per il fatto che, per molti aspetti, non è più il Kosovo che hanno lasciato.
L’UNMIK, il governo e le municipalità devono creare le condizioni e le infrastrutture per gestire il flusso in entrata di questi nuovi cittadini. Occorre garantire a questa gente che ritorna forzatamente un alloggio, possibilità d’impiego e corsi di lingua per i più giovani. Inoltre il governo deve promuovere programmi speciali per aiutarli ad integrasi nella società kosovara attraverso l’assistenza sociale programmi d’alloggio popolari.
Ma come creare condizioni per l’accoglienza senza appesantire i problemi sociali che già esistono tra la popolazione? Dobbiamo ricordare che si parla di persone che sono obbligate a rientrare in Kosovo, contro la loro volontà e sono persone che hanno bisogno di aiuto. E non migliora le cose il fatto che il ritorno, in alcuni casi, sia selettivo e riguarda solo coloro i quali tra i Rom, gli Ashkali, gli Egiziani, hanno la fedina penale macchiata di crimini gravi.
Questa scelta non fa che rafforzare gli stereotipi negativi riguardanti i membri di queste comunità, generando un ostacolo ulteriore alla vita in comune. L’opinione pubblica non può avercela con loro perché rientrati oppure garantire loro nient’altro che la possibilità di vivere in un ghetto senza accesso alle risorse fondamentali, senza la possibilità di sperare in una vita normale. L’assistenza attesa e necessaria per aiutare questa gente non può essere parsimoniosa, se non si vogliono creare problemi che saranno ben più costosi.
Oltre agli obblighi in capo a UNMIK e al governo del Kosovo relativi all’iniziativa legata a questi programmi spetta anche alla popolazione ed alle municipalità di far propria la questione e comprendere che è loro dovere creare le condizioni affinché questa gente costretta al ritorno possa condurre una vita decente. Non si deve lasciare tutto alle sole agenzie umanitarie. La sola speranza per evitare che si aggravi la già difficle situazione del Kosovo è che si arrivi da parte di tutti gli attori coinvolti – tra i quali anche i governi europei – ad una comprensione di tutti i complessi aspetti di questa situazione.
Ha contribuito a quest’editoriale Kata Mester
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