Kosovo: paure diverse
Tre giornate, tre diverse città del Kosovo. La paura di Mitrovica, prima della scadenza dell’accordo temporaneo sulle frontiere, le tensioni religiose a Prizren e la violenza giovanile in crescita a Peja/Peć. Note da un viaggio in Kosovo
14 settembre 2011
A Mitrovica non si parla che delle dogane. La crisi di luglio, sorta per il controllo delle merci nei due punti di passaggio tra la Serbia e il territorio kosovaro a nord del fiume Ibar, ha lasciato il segno.
Domani notte (15 settembre) scade l’accordo temporaneo che ha fermato le violenze, culminate nella morte di un poliziotto albanese. E ci si prepara al peggio: governo del Kosovo e vertici della missione a guida Nato Kfor hanno ribadito che indietro non si torna, e i due punti di frontiera saranno presidiati da doganieri di Pristina. I leader serbi locali leggono questo come un ulteriore, forse definitivo passo, verso il distacco da Belgrado. E si ribellano insieme a tutta la popolazione, preparandosi alle barricate sulle strade e a chiudere il ponte principale di Mitrovica.
Accettare le dogane significa accettare una frontiera vera con la Serbia. E la frontiera richiama tanto l’identità collettiva – “siamo 60 o 70 mila persone, non potete obbligarci a forza a vivere in uno stato albanese” – quanto il più prosaico controllo su traffici e commerci.
In questi anni di limbo, il nord del Kosovo ha vissuto ampiamente del contrabbando di benzina e altri beni verso il sud, sfruttando l’esenzione dall’IVA accordatagli dal governo serbo. Ora una dogana vera fermerebbe gli affari. Sangue, suolo e turbo-business, insomma, una miscela che torna con frequenza nelle vicende balcaniche degli ultimi vent’anni.
Così la Mitrovica davanti a noi si prepara al peggio. A sud si aspetta guardando con preoccupazione i movimenti di là del ponte. A nord chi può se ne va, come gli studenti universitari provenienti dai Paesi confinanti, mentre gli altri si preparano a giorni caldi. Qualcuno teme il ritorno degli estremisti violenti da Belgrado – “è facile mandare qui qualche decina di ultras a fare casino” – ma tutti sono determinati a restare. “Viviamo da sempre sotto le istituzioni di Belgrado – racconta Tanja, giornalista – scuole, ospedali, autorità: perché dovremmo cambiare con quelle nuove del Kosovo, che ci discriminano e offrono servizi peggiori?”
16 settembre 2011
A Prizren, estremo meridionale del Paese, tutti commentano con soddisfazione il dispiegamento nella notte di polizia e doganieri kosovari ai due valichi del nord, supportati dalla polizia della missione europea Eulex. Certo, c’è stata la reazione dei civili serbi con barricate ovunque, ma per ora nessuna violenza.
E così si comincia presto a parlare d’altro, rivelando che tutto sommato le preoccupazioni di chi non vive a ridosso dei serbi sono diverse. La mancanza di lavoro anzitutto, ma anche il rapporto tra le diverse comunità religiose. Negli ultimi mesi si è creato un forte dibattito circa il divieto o meno dei simboli religiosi nelle scuole, tuttora in vigore a memoria del periodo socialista. La comunità islamica ha manifestato in piazza per la sua abolizione, che permetterebbe alle ragazze di portare il velo in classe. E la maggioranza in parlamento si è divisa, rischiando addirittura di cadere.
Sono le nuove identità forti che cercano di sostituire il vuoto post-bellico, che il nazionalismo albanese da solo non può colmare. E così sorgono chiese cattoliche sempre più imponenti, non solo quella discussa di Pristina ma anche altre come nella periferica Klina. Lì il premier Thaci in persona ne ha inaugurata una con ben due campanili. Cui fa da contraltare sempre in zona una insolita moschea con due minareti… O sono ancora i giovani albanesi che si lasciano crescere la barba e riempiono il profilo facebook di richiami all’Islam, compensati ogni mese in denaro dai circoli del radicalismo religioso. Cose già viste da tempo in Bosnia Erzegovina, ma che qui sono più recenti e impressionano gli stessi albanesi con cui ne parliamo.
19 settembre 2011
A Peja/Peć oggi la paura si è fatta sangue. Due gruppi giovanili si scontrano in pieno giorno, nella via centrale davanti al municipio. Una ventina di colpi, un passante di ventidue anni ucciso e un altro ferito. “Sono così giovani che non sanno nemmeno usare le armi”, è il commento di alcuni.
I ragazzi sono tutti albanesi, qui non c’entrano le identità nazionali o religiose. L’altro giorno due gruppi si erano scontrati a cazzotti e cacciaviti fuori dal centro giovanile, per fortuna troppo piccoli per armi peggiori. Ma la violenza minorile è un fenomeno in forte crescita: al liceo di Peja/Peć ci sono guardie private per prevenire aggressioni a studenti e insegnanti.
Segni di qualcosa che investe nel profondo la società kosovara. Sembrerebbero entrate in crisi le forme tradizionali di controllo, dalla famiglia patriarcale alle autorità formali come il maestro di scuola. Qualcuno osserva come anche il potere morale degli ex-combattenti UCK, vera e propria autorità informale del Kosovo post bellico, si stia perdendo.
Sensazioni certo, però è un dato che le nuove generazioni vivono un mondo incomprensibile ai genitori: internet, MTV, la moda globalizzata, le culture trasgressive importate dalla diaspora o dagli internazionali… Linguaggi che si scontrano con una realtà sostanzialmente rurale e sotto assedio fino a tutti gli anni novanta, che la guerra e la successiva indipendenza hanno liberato ma insieme stravolto.
I giovani vivono così a cavallo di una contraddizione permanente, tra i matrimoni combinati dalle famiglie e i costumi sessuali liberi del Grande Fratello o dei racconti dai cugini all’estero. Tra il caffè rigorosamente turco consumato in casa, e l’espresso occidentale che monopolizza i bar. E i primi scossoni cominciano a vedersi, seppur sottotraccia: dall’alcol all’uso di sostanze stupefacenti, dalla depressione alla violenza. Il sangue di oggi non era un caso.
20 settembre 2011
All’aeroporto di Pristina non faccio che pensare a tutte queste paure assieme. Eppure in questa settimana ho toccato con mano anche il Kosovo positivo. Un amico che ha vissuto tanti anni in Bosnia me lo conferma: “Qui l’atmosfera è dinamica, intraprendente”. Il turismo ad esempio sta facendo buoni passi, specie a Prizren grazie agli effetti dell’autostrada da Tirana, e perfino a Peja/Peć si vedono i primi viaggiatori solitari. I discorsi sentiti nell’enclave serba di Goraždevac, per quanto sempre di rivendicazione, sono i più aperti da quando la frequento. E in altri luoghi a sud dell’Ibar le relazioni, almeno per i pochi serbi rimasti o rientrati, sono in costante miglioramento.
Eppure restano le paure. Dei serbi a nord di Mitrovica, delle comunità religiose, della violenza giovanile. Fenomeni diversi tra loro, ma che lasciano un amaro comune di fondo. L’amaro della guerra passata, e di quanto quella violenza dispiegata ha lasciato nella società kosovara ed europea. L’amaro delle paure diverse.
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